L’ONOREVOLE PAGA IL PORTABORSE IN NERO
I PRIMI A NON USARE IL CONTRATTO A TUTELE CRESCENTI COI COLLABORATORI SONO PROPRIO I PARLAMENTARI… USANO I COCOCO O METODI NON LEGALI IN MODO DA SPENDERE POCO E INTASCARE DI PIU’
È stato sbandierato come lo strumento per dare più garanzie ai precari: eppure i primi a non applicare il nuovo contratto a tutele crescenti, Jobs Act, sono proprio i parlamentari. A cominciare da coloro che la riforma l’hanno votata.
Su 301 deputati Pd, ha scoperto l’Espresso, solo 14 lo hanno utilizzato coi loro portaborse.
E fra controlli solo formali e poca trasparenza, le forme di lavoro nero o sottopagato (quando non del tutto gratuito) proseguono, mentre un onorevole ha modo perfino fare la cresta sui costi sostenuti.
SPENDI UNO, INTASCHI DU
La chiave di volta del sistema si chiama “rimborso spese per l’esercizio del mandato”: 3.690 euro al mese esentasse per i deputati e 4.180 per i senatori, utilizzabili per pagare i collaboratori ma anche consulenze, affitti delle sedi o finanziare l’attività politica (in tutto 43,8 milioni nel 2015).
Per ricevere l’intera somma, tuttavia, basta rendicontarne la metà : insomma, è possibile addirittura guadagnarci.
Alla Camera, ad esempio, solo 410 eletti dichiarano di avere un assistente: uno su tre, in pratica, riceve i soldi senza averne uno personale.
Per cambiare qualcosa si potrebbe far pagare gli stipendi direttamente alle Camere, come avviene all’estero e come chiede l’Aicp, l’associazione dei collaboratori parlamentari.
Lo prevedeva anche un progetto di legge approvato nel 2012, ma la fine anticipata della legislatura ha rimesso tutto in discussione.
In quella attuale, malgrado impegni e promesse, non è stato mosso un passo e da due anni un ddl analogo giace dimenticato in commissione Lavoro a Montecitorio.
In realtà sarebbe sufficiente una semplice delibera dell’Ufficio di presidenza ma il punto è un altro: molti onorevoli girano una quota del denaro al partito e in tempi di abolizione del finanziamento pubblico fa comodo non spenderli.
Nel frattempo il sistema si presta a degenerazioni di ogni tipo, come mostra il questionario diffuso nelle settimane scorse proprio dall’Aicp.
La scadenza è fissata a gennaio ma i primi risultati provvisori, che l’Espresso presenta in anteprima, fanno riflettere: retribuzione parzialmente in nero nel 14 per cento dei casi; cocopro trasformati in cococo ma che di fatto, nascondendo forme di lavoro subordinato, restano illegittimi (18 per cento); stage non retribuiti, vietati dalla legge Fornero, che mascherano impegni full time che arrivano fino a otto ore al giorno.
UN FISCO AMICO
E il Jobs act? Il contratto a tutele crescenti è il preferito dai diretti interessati, perchè dà maggiori diritti ma essendo più oneroso non ha avuto fortuna: su 902 portaborse, solo 92 ce l’hanno.
Con un paradosso doppio: fra i contrari alla provvedimento c’è chi l’ha usato, i favorevoli assai meno.
Nel 2015 il gruppo M5S a Montecitorio ha stabilizzato 25 dipendenti, suscitando l’ironia del Pd per via delle critiche grilline.
Eppure solo 18 deputati fra coloro che hanno votato la legge poi hanno applicato il Jobs act ai loro assistenti.
Tutti gli altri, che in pubblico l’hanno sostenuto, in privato si sono rifiutati di applicarlo. Oppure hanno recalcitrato, come racconta una collaboratrice che chiede l’anonimato temendo ritorsioni: «Ho dovuto insistere per passare dal cocopro all’indeterminato, anche se il mio parlamentare aveva votato la riforma. Se non sono costretti, tutti guardano solo la forma contrattuale più conveniente dal punto di vista contributivo».
Fra i “magnanimi” c’è pure chi ha fatto il furbo, spiega Marta (nome di fantasia): «Il senatore con cui lavoro ha trasformato la mia collaborazione in un subordinato a tempo indeterminato ma per non spendere di più mi ha fatto un part time. La retribuzione così è rimasta la stessa, anche se lo seguo tutta la settimana per l’intera giornata, lui in compenso ha usufruito degli sgravi».
Sgravi che per un tempo pieno arrivano a ottomila euro in tre anni
D’altronde la fantasia fiscale non manca: per avvalersi delle agevolazioni previste per particolari categorie di neo-assunti c’è chi ha aperto ditte individuali o posizioni Inps e Inail come lavoratori autonomi.
Qualcuno col cambio di contratto ci ha perfino rimesso, grazie a un’altra furbizia dell’onorevole di turno: lasciare inalterato il lordo ma col risultato di un netto più basso per effetto delle ritenute.
E c’è pure chi l’impiego lo ha perso, come il collaboratore del Cinque stelle Massimo De Rosa. Invece di trasformare il contratto a progetto, come prevede la nuova legge, il deputato ha dato il benservito all’assistente, che gli ha fatto causa chiedendo oltre 20 mila euro fra differenze retributive, tfr e mancato preavviso e ha perfino prodotto una mail che dimostrava un tentativo di fargli firmare una lettera di dimissioni in bianco.
Alla fine i due sono arrivati a una conciliazione e l’importo, fa sapere De Rosa, è stato pagato proprio col rimborso spese per l’esercizio del mandato.
Ma la somma, malgrado la decantata trasparenza, è top secret: «Non posso rivelare la cifra, per evitare che la vicenda sia usata in modo politico c’è una clausola di riservatezza».
Curiosità : negli anni scorsi il dipietrista Francesco Barbato, divenuto celebre per le sua battaglie moralizzatrici, fece inserire una condizione identica nella transazione con la sua ex collaboratrice. Pagata in nero come l’assistente di Gabriella Carlucci, che fu condannata.
ONOREVOLE IN TRIBUNALE
Dopo numerose inchieste che hanno svelato la diffusione del lavoro nero, ora i badge per accedere in Parlamento sono rilasciati solo a chi ha un regolare contratto depositato negli Uffici di Questura di Camera e Senato.
Ma neppure questo ha sradicato il fenomeno: i controlli sono solo formali e il modo di aggirare la legge non manca. Basta un pass giornaliero in cui il portaborse viene accreditato come “visitatore” e il gioco è fatto.
E sarebbe proprio questo l’escamotage utilizzato dal forzista Domenico Scilipoti, di recente citato a giudizio dal suo ex collaboratore: dopo due mesi in nero, anzichè contrattualizzarlo come promesso, lo avrebbe mandato via senza nemmeno dargli la somma pattuita.
L’assistente, che a sostegno della sua tesi ha esibito numerose conversazioni Whatsapp con la segretaria dell’onorevole, sarebbe entrato negli uffici del Senato con accrediti temporanei redatti tramite la pagina intranet del parlamentare.
Scilipoti non commenta: «Non ho nessuna causa» si limita a dire.
Impossibile avere un’idea di quanti casi simili possano esserci.
Benchè sotto schiaffo, molti preferiscono tenere la testa bassa: la paura di farsi terra bruciata intorno e non lavorare più nell’ambiente è forte.
Così, per una media di 1.200 euro, si può finire anche a dover pagare bollette, fare la spesa o ritirare le camicie in lavanderia del proprio datore.
Per quanto rare, le controversie finite in tribunale però non mancano.
Da poco si è tenuta la prima udienza del processo fra Paolo Bernini (M5S) e il suo ex assistente Lorenzo Andraghetti, uno storico ex militante bolognese che lo accusa di licenziamento illegittimo per ragioni politiche e chiede 70 mila euro di risarcimento.
Per la difesa, invece, l’allontanamento sarebbe giustificato dalla redazione di scritti critici col Movimento, culminata nella partecipazione a una iniziativa di fuoriusciti, tale da compromettere “l’elemento fiduciario”.
A Lecce è in corso una causa fra la dem Teresa Bellanova e il suo ex collaboratore locale Maurizio Pascali.
Al centro della disputa, le immancabili questioni fiscali e i risparmi connessi all’apertura della partita Iva. Falsa secondo l’assistente, che aveva un unico committente e operava nella sede della federazione del Pd; del tutto in regola per l’onorevole, trattandosi di lavoro autonomo.
(da “L’Espresso“)
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