MELONI, LA STORIA NON SI PUO’ RISCRIVERE
SIAMO ALL’ATTO FINALE DELLA PROPAGANDA DI REGIME
Se fosse ancora tra noi, Eugenio Scalfari sorriderebbe dell’audace colpo della solita Meloni. Uno degli ultimi grandi intellettuali italiani, europeista e progressista, laico e liberale, accusato di aver condiviso i «principi anti-democratici» del manifesto di Ventotene e di aver teorizzato che «l’unica forma di democrazia è l’oligarchia». Siamo all’atto finale della propaganda di regime.
La presidente del Consiglio che, scimmiottando l’attitudine dei despoti studiati da Hannah Arendt, non è una “bugiarda qualsiasi”, ma è capace di menzogne che nella loro enormità ambiscono “a generare una nuova realtà”.
La statista trasfigurata in anti-Stato che nel tempio della democrazia rappresentativa consuma un’impostura istituzionale, mescolando falsità, ipocrisia, nichilismo.
Non le bastava l’ennesimo stupro della storia compiuto alla Camera, trattata da aula sorda e grigia e poi incendiata a colpi di molotov ideologiche contro i padri fondatori dell’Unione europea. Non le bastava imbrattare con il fango il ricordo di tre eroi perseguitati dalla dittatura fascista, confinati in un’isoletta del Tirreno e ora sviliti ad agenti provocatori del bolscevismo rosso, nemici del popolo e della proprietà privata.
Non le bastava la manipolazione selettiva e strumentale di un testo visionario scritto nel 1941, sotto le bombe dell’Asse e sotto il tallone del Duce, sul quale l’Europa ha pensato e costruito se stessa non più solo come civiltà ma anche come comunità.
Non le bastava occultare la verità, Altiero Spinelli transfuga dal Pci già nel ’38, Ernesto Rossi azionista liberale, Eugenio Colorni massacrato e ucciso dalle camicie nere nel 1944.
Non le bastava tacere che in quegli stessi anni, mentre a Ventotene nasceva «il sogno europeo» raccontato magnificamente da Roberto Benigni, Giorgio Almirante, padre putativo della destra tricolore e fondatore del Msi dal quale figliarono An e poi FdI, vomitava così i suoi deliri xenofobi e antisemiti su La difesa della razza: “Il razzismo ha da essere cibo di tutti e per tutti… il razzismo nostro ha da essere quello della carne e dei muscoli… non c’è che un attestato con il quale si possa imporre l’altolà al meticciato e all’ebraismo: l’attestato del sangue”.
Non le bastava tutto questo. La Sorella d’Italia ha voluto aggiungere ancora una dose di veleno, alla pozione già altamente tossica impastrocchiata a palazzo Chigi dai patrioti al servizio del Rasputin post-missino Giovanbattista Fazzolari: quelli che incubavano da giorni “l’operazione Ventotene”, che ne avevano dettato subito
l’infame contronarrazione ai giornali-cognati e che adesso, in piena trance delmastriana, provano intima gioia nell’aver teso la «trappola alla sinistra» e nell’aver «abbattuto il muro rosso». Come se il manifesto di Spinelli e Rossi fosse il Manifesto di Marx e Engels. Come se il federalismo europeo fosse lo stalinismo sovietico.
Quella dose supplementare di veleno ci riguarda direttamente, perché integra il piano di killeraggio politico orchestrato contro i cinquantamila europeisti irriducibili chiamati a Roma da Michele Serra esattamente una settimana fa. Bisognava buttare a ogni costo giù il totem di Ventotene, intorno al quale quella splendida piazza si era riunita il 15 marzo. L’hanno fatto, Giorgia e i suoi bravi.
Ma ora lei, evidentemente non del tutto paga del risultato, completa la missione con l’attacco a Scalfari, e quindi a Repubblica, che in piazza del Popolo era presente con il corpo e con lo spirito. Ripeto: sono convinto che il fondatore di questo giornale liquiderebbe con un sorriso questo fetido venticello di calunnia. Buttato nel tritacarne di una montatura miserabile e bollato come simbolo di una sinistra «dall’anima illiberale e nostalgica» (sic!) dai rozzi agit-prop della destra più estrema, che prima di pronunciare il suo nome dovrebbero sciacquarsi la bocca.
Lui, che in quell’editoriale su “democrazia e oligarchia” volava così alto che nessuna Meloni potrà mai riuscire a raggiungerlo, e innescava un dibattito filosofico-politico con Gustavo Zagrebelsky che scriveva “tutti i governi sono sempre e solo oligarchie più o meno ristrette, cambia solo la forma, democratica o dittatoriale”. Lui, che in uno dei suoi ultimi libri denunciava come “grave rischio” la frattura tra opinione pubblica e classi dirigenti, il populismo accompagnato dall’astensionismo e dall’indifferenza, e quindi “il completo stravolgimento della democrazia partecipata” e il “declino dei partiti liquidi” con “un capo e un gruppo dirigente a lui devoto”.
Meloni, allora, faceva opposizione dura e pura. Invocava l’uscita dall’euro, chiedeva i blocchi navali, inneggiava a Putin e — si stenta a crederlo — lodava «i firmatari del manifesto di Ventotene detenuti in un carcere», che nel 1941 «avevano le idee più chiare» di «Renzi, Hollande e Merkel» nel 2016
Questa è la Sorella d’Italia, dispersa su una zattera nell’Atlantico e sempre più propensa ad approdare sulla costa americana. Per le sue sparate sfasciste ci si può indignare, ma non ci si deve meravigliare. Nell’arena di Montecitorio come al roof-garden del The Hotel, la premier ci regala “melonismo in purezza”.
Un po’ alla volta, l’Underdog della Garbatella cresciuta nel Fronte della Gioventù lascia cadere tutte le maschere con le quali si è mimetizzata in questi due anni e mezzo. Mostra il suo vero volto: a-fascista, nazional-populista, non-europeista. La Meloni autentica è quella che nell’emiciclo svilisce i martiri dell’antifascismo e tradisce i valori dell’europeismo. Lo spirito di Ventotene non le appartiene, perché lei ha davvero un’altra “matrice”.
Certo, cadono le braccia a vedere le convulsioni dei 27, che da un Consiglio Ue considerato “decisivo” alla vigilia non hanno cavato un ragno dal buco. Nonostante Trump che spaccia per pace la resa ucraina e brandisce il suo jet F-47 come «l’arma più letale di sempre»; nonostante Putin che minaccia di prendersi anche Odessa ed esige oggi lo stop degli aiuti a Kiev per poterla invadere domani; nonostante Netanyahu che per non mollare il suo potere riprende il massacro dei bambini a Gaza; nonostante tutto questo, la Ue non fa un solo passo avanti, né sulla difesa comune né sulle risorse per finanziarla. Se ne riparla al vertice di giugno.
Un mezzo disastro: ma abbiamo alternative a questa comunità di destino imperfetta e irrisolta? Soprattutto ne ha la nostra premier, che definisce «rappresaglia» le contromisure di Bruxelles da opporre ai dazi di Washington?
Non chiediamole più di rinnegare il Ventennio e di rilanciare l’Unione: non farà mai né l’una né l’altra cosa. Continuerà a galleggiare, alternando furore e finzione, vittimismo e autoritarismo. Espedienti utilissimi a mascherare i fallimenti del governo e i tormenti della maggioranza. Ma oggi come allora, vale l’antica lezione di Antonio Gramsci. Correva l’anno 1918, e lui — non ancora vittima dello squadrismo nero — già avvertiva i suoi futuri carnefici: «Non basta cambiare le parole, sperando di far dimenticare le cose».
(da Repubblica.it)
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