PARLA POCO E FA MOLTO: ALESSIO D’AMATO, L’EX COMUNISTA CHE HA SALVATO IL LAZIO
RITRATTO DELL’ASSESSORE CHE HA MESSO IN PIEDI LA MIGLIORE MACCHINA VACCINALE D’ITALIA
“Se non arrivano vaccini nelle prossime 24 ore saremo costretti a sospendere le vaccinazioni” dice Alessio D’Amato, classe 68, un grido di allarme e preoccupazione che contiene al suo interno l’idea che la sua continui ad essere una Regione virtuosa nelle somministrazioni – che fosse per lui si andrebbe avanti a tutta birra – quella che ormai al bar e in ufficio viene presa a modello nelle discussioni su ritardi e impreparazioni, un claim per chiudere senza appello la discussione: “Ah, se tutti adottassimo il modello Lazio”.
All’interno di quei confini c’è l’anomalia demografica di Roma, che vi concentra la metà della popolazione, ci sono le copertine della politica, tra Sergio Mattarella ordinatamante in fila allo Spallanzani e Mario Draghi in attesa con la moglie all’hub della stazione Termini, ci sono pressioni e riflettori, c’è l’ingombrante ruolo di Nicola Zingaretti, per mesi capo del Pd di governo che intorno ai vaccini si affannava e anche oggi proprio un pesce piccolo non è. Ma se parli di gestione della pandemia parli di D’Amato, l’assessore alla Sanità il cui nome è diventato sempre più noto al grande pubblico, diligente funzionario di partito che quando parla viene segnalato con flash da breaking news dalle agenzie di stampa e si guadagna un posto fisso nei sommari negli articoli dei giornali.
L’eccezionalità del caso Lazio l’ha spiegata l’assessore stesso in un’intervista a Repubblica di qualche giorno fa: “Noi abbiamo vaccinato 306mila over 80 [era il 24 marzo, n.d.r.], cioè l’88% hanno ricevuto la prima dose, e circa un terzo di loro hanno già avuto anche il richiamo”. Senza far ricorso alle strutture commissariali, il cui personale pesa per il 5% appena tra il totale dei somministratori, ma soprattutto senza “perdersi dietro le categorie, i notai, gli avvocati, i magistrati o altri, con tutto il rispetto”.
“Se serve una mano alla Lombardia noi ci siamo, se ci chiamano possiamo anche andare”, dice oggi D’Amato, un Gallera che ce l’ha fatta, testa bassa su quel che c’è da fare e poche (zero) dirette Facebook quotidiane, “anche perché – spiega un suo collega di partito – è tutto tranne che un’oratore, infarcisce i suoi interventi con mille ‘diciamo’” e vai a capire se sia un’eredità dalemiana.
Con D’Alema ha in comune un passato nel Partito comunista, un passaggio in Rifondazione, le origini nel Pdci di Oliviero Diliberto, il professore di Diritto romano che proprio di D’Alema fu ministro della Giustizia. “Era bravo, tra i più promettenti”, ricorda oggi Diliberto, un giovane che si faceva strada nel partito di cui era il leader. “Non abbiamo avuto modo di frequentarci molto, anche per la differenza di età, ma me lo ricordo bene a capo della nostra federazione romana”, aggiunge l’ex ministro. Che aggiunge un dettaglio: “Ha sempre avuto una forte base elettorale a Labaro, quartiere di Roma nord, che a differenza di tante zone ricche a nord della Capitale ha una forte connotazione popolare”.
La passione di D’Amato per il filone sanità nell’amministrazione della cosa pubblica è antica eppure più recente di quegli antichi tempi di falci e martelli. Inizia a interessarsene ai tempi della giunta di Francesco Storace, anche grazie agli studi universitari (una laurea in Teorie e metodi della pianificazione sociale sugli “Aspetti critici della riforma sanitaria”), intuendo da avversario politico che proprio lì poteva celarsi il tallone d’Achille dell’allora giunta di centrodestra. Non solo lo trovò, ma lo fece diventare un bestseller: “Lady Asl. La casta della Sanità” uscì nel 2005, “un’indagine iniziata per caso nel 2004, in tre anni quasi 100 arresti per un totale di oltre 82 milioni di euro sottratti alla Sanità pubblica laziale”, come spiegavano gli autori (insieme a lui Dario Petti). Nella quarta di copertina il lettore veniva informato che D’Amato e Petti “raccontano di un sistema fatto di tangenti, accreditamenti presso la Sanità laziale di strutture fantasma, falsi mandati di pagamento, emissioni di fatture per prestazioni mai erogate e sparizione di fascicoli”.
Il libro non cambiò il destino di Anna Giuseppina lannuzzi, il pivot insieme al marito di quel sistema, condannata per associazione a delinquere, corruzione, truffa aggravata e frode processuale. Ma cambiò quello del giovane funzionario di partito, che nel frattempo stava cambiando anche il partito. È del 2010 la prima candidatura alla Pisana con il Pd, che si concluse con un insuccesso. Complice la caduta di Renata Polverini e della sua legislatura, fu il 2012 l’anno buono. In forza del nome che si era ormai ritagliato sulle vicende della sanità pubblica, a settembre Zingaretti gli chiese di scrivere parte del suo programma elettorale insieme a Lionello Cosentino, del forum sanità del Pd. Vinse Zingaretti e vinse lui, rientrando nel parlamentino regionale, e a febbraio da subito il neo presidente gli affidò la guida della Cabina di regia sulla sanità del Lazio.
Non un ruolo burocratico, tutt’altro: perché la sanità regionale era commissariata, e tra il commissario Zingaretti e i sub commissari inviati dal ministero D’Amato si ritrovò a coprire un ruolo a metà tra l’assessore occulto e il risanatore dei conti. Cosa che fece tirando fuori il Lazio dal commissariamento nel giro di qualche anno, anche per il buon rapporto e il lavoro di squadra messo in piedi insieme ad Alessandra Sartore, assessora al Bilancio con il governo Draghi “promossa” a sottosegretaria al ministero dell’Economia. Nel 2017 nuove elezioni e nuova giunta, nella quale finalmente l’ex ragazzo comunista entra nel governo regionale, ormai da zingarettiano di ferro.
Eppure non sempre i due hanno marciato all’unisono. Un suo collega spiega che “quando stava arrivando la prima ondata Nicola minimizzava e chiedeva di continuare a vivere normalmente facendo aperitivi, mentre la forza di Alessio è stata quella di non aver mai sottovalutato il problema”. C’è un dato di contesto che c’entra poco con la bravura e un po’ di più con la fortuna, ed è quello che il Lazio è stato investito dalla prima ondata nella primavera del 2020 con due o tre settimane di ritardo rispetto alla Lombardia e agli altri territori del nord flagellati dal virus, e che ha dato alla giunta regionale il tempo di organizzarsi. D’Amato ha capito da subito la gravità del problema: “C’era questa clinica, la Columbus, vicino al Policlinico Gemelli, stava sull’orlo della dismissione. Lui ne ha fatto in tempi rapidissimi un centro Covid, insieme ad altri quattro simili nel giro di pochissimo tempo”. In Regione si sottolinea con un certo vanto che l’11 aprile dell’anno scorso, nel giorno di picco della prima ondata, in tutto il Lazio erano sì occupati 211 posti di terapia intensiva, ma che nel giro di un mese D’Amato ne aveva messi in piedi 450, in aggiunta dei circa 500 a regime fino all’anno prima.
La prima settimana fu drammatica: “Non avevamo mascherine, non avevamo solventi per fare i tamponi, non avevamo gli antigenici”, racconta chi lavorò pancia a terra in quei giorni. D’Amato, con sconcerto di molti dei suoi compagni di partito, convocò i capigruppo, tutti i capigruppo, indipendentemente dal colore politico: “La situazione è grave, chiunque abbia in mente qualche canale per reperire mascherine, per favore, ci metta in contatto”. In quei tempi un sottile filo di tensione lo legò a Marco Vincenzi, che del Pd alla Pisana è capogruppo, ma che soprattutto è un medico, e con l’autorevolezza della sua professione difendeva gli 11mila tamponi fatti al giorno dalla Regione, mentre D’Amato ripeteva che non bastavano, e si adoperava per incrementarli.
Oggi il problema sono i vaccini, di mascherine ne arrivano a sufficienza, tanto che l’assessore si scaglia contro quelle non a norma definendole con un formidabile esercizio di sintesi romanesca: “Farlocche”. Sull’approvigionamento si può far poco, è un problema del governo, è sulle iniezioni quotidiane che si è messa in moto la macchina che ha portato a risultati così buoni soprattutto sulla popolazione più anziana. L’assessore la fa semplice: “Pfizer e Moderna sono stati consegnati a tutte le Regioni in base al numero di cittadini anziani. Chi li ha destinati davvero a loro ce li ha, chi ne ha somministrati più del previsto ad altre categorie evidentemente ha problemi”.
In realtà, spiegano dalla Regione, “è stato un casino”. Ma un casino preso per le corna, visto che l’unità operativa per la predisposizione della macchina organizzativa che oggi sta andando a pieno regime con circa 25mila iniezioni al giorno è stata costituita a inizio settembre, e che la prima dotazione dei frigoriferi per le fiale Pfizer risale addirittura ad agosto. “Abbiamo avuto quattro mesi per prepararci – spiega un consigliere regionale – La Nuvola, l’Auditorium, Fiumicino, Termini, che oggi sono hub da migliaia di vaccini al giorno, non li organizzi in due settimane, c’è dietro un lavoro di contratti, amministrazione e logistica che parte da lontano”. I due centri congressi, uno a sud e uno a nord della capitale, la stazione e l’aeroporto sono i fiori all’occhiello della macchina di D’Amato, che ha replicato sia pure più silenziosamente il modello in provincia, riaprendo strutture a Genzano ed Ariccia, come pure riaprendo un’ala fino a quel momento dismessa dell’ospedale di Tor Vergata.
È Egidio Schiavetti a tenere agenda e contatti di D’Amato, un capo segreteria che in Regione definiscono “un compagno”, un sodalizio che dura da tempo. Tra gli uomini chiave dalla macchina organizzativa anche Albino Ruberti, capo di gabinetto di Zingaretti, e Andrea Cocco, suo vice. “La forza dei zingarettiani da queste parti – spiega un dirigente della Pisana – è che hanno costruito una rete di funzionari efficienti che si portano di incarico in incarico: ognuno sa come lavora l’altro, negli anni hanno costruito un team molto omogeneo e molto affiatato”. Un team che si è attirato negli anni le critiche degli avversari politici per corporativismo: “Fanno favori agli amici degli amici”, lo attaccavano i 5 stelle che oggi siedono al suo fianco in giunta per una vecchia inchiesta che vide coinvolto Paese Sera, giornale di cui fu per un periodo socio. Più recente è quella che lo vede coinvolto con Zingaretti nella nomina di alcuni dei direttori delle Asl, nata da un’esposto di Fratelli d’Italia e proseguita con l’ipotesi di abuso d’ufficio.
D’Amato risponde poco e mal volentieri, poco propenso alla polemica quotidiana, ad eccezione che venga minata l’organizzazione con la quale il Lazio sta rispondendo alla pandemia. In quel caso che i bersagli siano il premier, il ministro della Salute o l’Aifa poco importa: “La sospensione di Astrazeneca è un danno enorme”, disse due settimane fa quando il vaccino di Oxford fu messo in quarantena, “si bloccano a Roma e nel Lazio 35 hub vaccinali e oltre 2mila medici di medicina generale”.
Chi lo conosce bene racconta che D’Amato da grande potrebbe ambire a un posto in Parlamento, magari da sottosegretario: “Ha grandissime capacità organizzative e l’ha dimostrato, ma non è un grande oratore né particolarmente empatico. Però se oggi non siamo nella situazione di altri lo dobbiamo a lui”, al comunista di Labaro che non usa mascherine farlocche.
(da “Huffingtonpost”)
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