PD, TUTTI COLPEVOLI IN UNA SCISSIONE SENZA VALORI
LA RESPONSABILITA’ PRIMARIA E’ DI RENZI, MA PURE DI CHI HA TACIUTO ANCHE IERI E CHE ORA DOVRA’ RIEMPIRE LA PROPRIA DECISIONE DI CONTENUTI POLITICI E NON SOLO DI CAVILLI BUROCRATICI
Tanto fu tormentata e complessa la nascita del Partito democratico, quanto sarà lenta e penosa la sua agonia.
Ma la “cerimonia degli addii” è cominciata. Se non si è consumata definitivamente al Parco dei Principi è solo per il solito gioco del cerino. nessuno, di fronte a uno sgomento “popolo della sinistra”, vuole assumersi la responsabilità formale della rottura.
Ma il partito “nato morto” (secondo la cruda ma purtroppo vera definizione di Massimo Cacciari) ha perso l’ultima occasione per dimostrarsi all’altezza della Storia. Non c’erano grandi speranze, dopo l’inutile spargimento di veleni degli ultimi giorni. Ma all’assemblea di ieri nessuno, tra quelli che avrebbero dovuto evitare lo strappo, è stato in grado di riempire il ruolo, con la serietà e la solennità che il momento richiede.
Gianni Cuperlo ha evocato un’immagine: la corsa suicida di “Gioventù bruciata”, dove il leggendario James Dean e il suo rivale Buzz si lanciano la “sfida senza pareggio”.
Due macchine a tutta velocità verso il burrone: vince chi si butta dalla macchina per ultimo. Citazione drammatica, ma perfetta. Renzi e i suoi avversari non hanno fermato la corsa, nè si sono buttati dalle rispettive macchine, che ora viaggiano serenamente verso il baratro.
La responsabilità primaria pesa tutta sull’ex segretario.
Toccava a lui, non da oggi, farsi carico di tenere unita quella “comunità di senso e di destino” che dovrebbe ma non è mai riuscito ad essere il Pd.
Toccava a lui, anche solo per un giorno, mettere da parte le ragioni e i torti dei due schieramenti, e indicare una via d’uscita condivisa. E invece, ancora una volta, Renzi non è riuscito ad andare oltre se stesso.
Non ha saputo o non ha voluto aprire spiragli, rimettendo in discussione la sua road map “da combattimento” e i suoi tre anni di governo.
Ha riproposto il solito linguaggio conflittuale (dalla “sfida” ai “ricatti”) e il solito schema concorrenziale (“Se siete capaci, sconfiggetemi al congresso”).
Soprattutto, non ha fugato l’atroce sospetto rivelato dal “fuorionda” di Delrio: “I renziani pensano che la scissione convenga, perchè così diminuiscono le poltrone da distribuire…”. La vera posta in gioco può essere il potere, e non l’identità ?
La responsabilità secondaria grava sugli “scissionisti”.
Quelli sicuri (come Rossi), quelli probabili (come Bersani e Speranza) e quelli indecifrabili (come Emiliano).
I primi hanno taciuto, mentre nel giorno dell’Armageddon democratico sarebbe stato doveroso sentir parlare dal palco (e non dalle telecamere Rai) chi ha sempre detto di avere a cuore il destino della “ditta”.
Il terzo ha tentato una furba mediazione finale, imprevista e improbabile. Ora tutti i “compagni del Teatro Vittoria” avranno comunque un gigantesco problema: riempire la scissione di nobili contenuti politici, e svuotarla di incomprensibili cavilli burocratici. Una grande forza di sinistra, che pensa se stessa come partito riformatore di massa, può sfasciarsi solo in nome dei valori fondanti: una diversa idea dell’Europa, della difesa del welfare universalistico e dei diritti del lavoro, della Costituzione formale e materiale.
La vera posta in gioco può essere la data di un congresso o la “gazebata” delle primarie?
Sullo sfondo, rimane la testimonianza più convincente, ma anche più dolente, di chi le guerre intestine del Pd le ha patite sulla sua pelle.
Veltroni, Fassino, lo stesso Cuperlo difendono le ragioni di un’idea che, se mai è esistita, si è smarrita da tempo, seminando il campo di troppe macerie.
E anche qui sta la miopia di chi oggi, nel Palazzo d’Inverno renziano, crede di poter resistere tranquillamente ma ferocemente all’amputazione di una sua parte.
Solo chi resta in macchina con il piede fisso sull’acceleratore può non capire che, dopo la scissione, il congresso-lampo con il “candidato unico” sarà una farsa.
E il tentativo di fare del Pd una forza popolare, riformista e progressista, sarà precipitata per sempre nel burrone.
Al suo posto, invece del grande partito-baricentro del sistema politico italiano, resterà un medio partito di centro, che non intercetterà il mitico “voto moderato”, ma raccoglierà tutt’al più qualche rottame della nomenklatura ex democristiana.
Nel frattempo, arriveranno il referendum sui voucher e le elezioni amministrative.
Con che faccia li affronta, questo centrosinistra in frantumi, è impossibile capirlo.
E fanno pietà i “volontari carnefici” dei due fronti divisi, che fanno calcoli patetici, sondaggi alla mano, sul “potenziale elettorale” del Pd ridotto a Renzi e della Cosa Rossa ridotta a D’Alema.
Dopo un trauma come questo, sono conti della serva, di cui le urne faranno giustizia.
E sempre nel frattempo, come già successe a Prodi nel 2008, sul governo Gentiloni precipiteranno tutti i tormenti e i risentimenti di questa sinistra pulviscolare e neo-proporzionale.
Un governo che deve durare fino al 2018, e che senza più l’ombrello di Draghi deve gestire una legge di stabilità che incorpora già 20 miliardi di clausole di salvaguardia e una crisi delle banche sempre più acuta. Con che spalle li sostiene, questo premier “a responsabilità limitata”, è difficile immaginarlo.
In questo penosa “eutanasia democratica” riecheggia una delle grandi figure della sinistra novecentesca: quel Pietro Ingrao che nel 1993, dopo la Bolognina e la svolta di Occhetto (che non condivideva), decise comunque di “restare nel gorgo”, perchè il neonato Pds era l’unico luogo di un possibile cambiamento di un’Italia devastata dal dopo Tangentopoli. Allora come oggi, il Pd sarebbe stato il posto per azzardare lo stesso tentativo.
Ma è troppo tardi.
Il “gorgo” non è più sinonimo di un formidabile movimento, ma solo metafora di un inesorabile inabissamento.
E mentre risucchia le schegge impazzite del centrosinistra, quel “gorgo” alimenta l’onda populista e sovranista.
Massimo Giannini
(da “La Repubblica”)
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