REPORTAGE DA GOLI OTOK, IL GULAG DIMENTICATO DI TITO
USATO PER SPEDIRVI I DISSIDENTI, ERA UNO DEI PIU’ TERRIBILI D’EUROPA… LE STORIE DEI SUPERSTITI E DEI LORO DISCENDENTI
«La stiva della nave Punat si aprì all’alba. «Dall’esterno sentivo grida confuse: “Uaaaaa bandaaa”, abbasso i banditi. “Doleee izdainiciiii”, abbasso i traditori. A un tratto, arrivò sulla nave un gruppo di persone che iniziò a picchiarci all’impazzata, e si scatenò una fuga generale verso la scaletta che portava fuori. Davanti a noi si presentava una scena impressionante: due lunghissime file di individui che si snodavano dalla riva dell’isola verso una serie di baracche. Era lo “stroj”, il sentiero: il saluto di benvenuto sull’isola dei dannati. Noi dovevamo passare tra le due file di uomini, che ci colpivano forte con calci e pugni, sfigurando i nostri volti fino a farli diventare irriconoscibili. Nessuno riusciva ad attraversarlo tutto: dopo qualche decina di metri, si rovinava a terra, sfiancati dalle botte. La cosa che mi lasciò sbalordito è che non erano i militari a picchiarci, ma gli stessi detenuti del campo: stavano dando prova alle guardie della loro avvenuta “rieducazione”. Prigionieri trasformati in aguzzini degli altri prigionieri. Gli agenti dell’Udba erano posizionati lungo il percorso, e controllavano attentamente che tutti picchiassero con la dovuta violenza. Pena? Unirsi alla “nova banda”, ed essere pestati a loro volta. Ogni volta che un nuovo gruppo di detenuti arrivava sull’isola, i militari organizzavano lo “stroj”. Anch’io, come tutti gli altri, ne presi parte picchiando forte i nuovi sventurati, per non dover subire ancora quel supplizio».
Ci sono luoghi che non hanno bisogno di targhe alla memoria, dove qualcosa è successo tanto tempo fa, muri che non possono fare a meno di tacere. Luoghi dove i sassi, se avessero una voce, sarebbero capaci di raccontare la loro storia.
Una storia che ti si attacca addosso come salsedine e che ti resta dentro come un nodo alla gola che non si scioglie. E anche se dopo tanti anni la pioggia ha lavato via il sangue dalle pietre, rimangono parole mute inchiodate alle pareti, che attendono di essere raccolte.
Uno di questi luoghi si trova al largo della Dalmazia settentrionale, e si erge in mezzo all’Adriatico come una roccaforte naturale di una bellezza terrificante: si chiama Goli Otok (isola calva), e tra il 1949 e il 1956 è stata una delle più terribili prigioni in Europa dopo la Seconda guerra mondiale.
Per sette lunghissimi anni, il dittatore comunista jugoslavo Josip Broz Tito fece rinchiudere su questa arida pietraia in mezzo al mare non solo tutti i suoi avversari politici, ma anche chi fosse minimamente sospettato di esserlo: tra questi, un gran numero dei suoi combattenti, ufficiali, generali, ex partigiani.
E il 90 per cento dell’intellighenzia di un’intera nazione: studenti, intellettuali, giornalisti, professori, scrittori.
Tutto iniziò nel giugno del 1948, quando vi fu la “rottura” tra la Jugoslavia di Tito e l’Unione Sovietica di Stalin.
Dopo la scomunica di Mosca al governo di Belgrado (accusato di “deviazionismo nazionalista”), in Jugoslavia vennero delineandosi due schieramenti contrapposti: da una parte i comunisti solidali con Tito; dall’altra, quelli che scelsero di restare fedeli alla linea politica del Cremlino.
Per questi ultimi la repressione arrivò all’improvviso, devastando vite e famiglie da un giorno all’altro.
Era l’Udba – la polizia segreta jugoslava – ad avere il compito di individuare e colpire i non-allineati al regime, incriminandoli come “nemici del popolo”, anche solo per aver detto una parola di troppo – il cosiddetto “delitto verbale” – o per aver espresso una minima perplessità in pubblico.
Molti altri non seppero mai il motivo della propria condanna. Dopo la delazione di un compagno e un processo farsa, per tutti i “cominformisti traditori” si aprivano le porte dei campi di rieducazione, come venivano chiamati.
Ancora oggi nel campo di Goli Otok, di cui fino a pochi anni fa si ignorava l’esistenza, il soffio incessante della bora solleva polvere di sale che impedisce all’erba di crescere tra le rovine delle prigioni e i bunker che ospitarono circa 30 mila detenuti, quasi tutti comunisti torturati da altri comunisti.
Grazie a un’accurata ricerca compiuta da una commissione dell’associazione croata degli ex deportati “Ante Zemljar”, oggi sappiamo che oltre 16 mila subirono le più sadiche sevizie e 446 persone morirono a seguito della “rieducazione”.
Racconta il sopravvissuto rovignese Sergio Borme: «Sull’isola c’erano ventiquattro baracche. In ognuna, duecento prigionieri. Dormivamo su tavolacci a tre piani, stipati come sardine, e potevamo coricarci soltanto di fianco. E di fianco ci risvegliavamo la mattina seguente. Sull’isola eravamo obbligati a trasportare pesanti massi di pietra da un luogo all’altro, senza alcuna ragione o utilità : era solo una tecnica per stremarci. Passavamo 8-10 ore al giorno, sotto il sole o la pioggia, immersi fino al collo nell’acqua del mare, a spalare sabbia. Ma il peggiore supplizio era la fame. Una fame nera che non dava tregua, e che ti faceva perdere il lume della ragione, portandoti al degrado umano più totale: senza più coscienza, senza più inibizioni, senza più rispetto per te stesso».
Sull’isola il sadismo era la normalità , e più gli aguzzini punivano i compagni, più diventavano potenti e rispettabili. I responsabili di quelle torture non vennero mai puniti per i loro soprusi.
Racconta Ratko Radosevic, figlio del sopravvissuto Petar: «Un’altra delle torture consisteva nello stare dritti come pali sotto il sole cocente d’estate a fare da ombra ai pini appena piantati, girando tutto intorno per seguire il movimento del sole».
A causa della carenza vitaminica, le gambe dei prigionieri nel tempo si gonfiavano come travi e le falangi delle dita andavano in cancrena. Molti morivano per fame o dissenteria, altri stroncati da tifo, epatite, distrofia o insolazione. In diversi casi i cadaveri non venivano sepolti, ma gettati direttamente in mare.
Come accadde a Mario Quarantotto, originario di Rovigno, che venne ucciso durante un feroce pestaggio, dopo essere tornato per la seconda volta sull’isola-lager.
Nei ricordi dei suoi compagni di prigionia, Mario urlava rifiutandosi di indossare la camicia nera, marchio riservato agli “irriducibili”. La sua famiglia non ebbe mai notizie del cadavere, nè del luogo della sua sepoltura: solo un documento attestante «morte per insolazione».
A volte, per aver contravvenuto a qualche regola o semplicemente per la delazione dei propri compagni, si subiva il “boikot”: il boicottaggio.
Ed era quanto di peggio potesse capitare, visto che al boicottato venivano affidati i lavori più pesanti. Bisognava lavorare in coppia con un altro prigioniero, che a sua volta era costretto a fare da aguzzino, tutto di corsa, senza un attimo di tregua, con i piedi protetti solamente da un copertone di gomma legato con un filo di ferro.
Ogni sera i boicottati dovevano attraversare lo “stroj” formato dai detenuti della sua baracca e ricevere la dose quotidiana di botte. Prima di andare a dormire, l’aguzzino di guardia spingeva la testa dei boicottati nel kibla, l’orinatoio della baracca. E questo strano tipo di inferno poteva durare anche qualche mese. Pochi sopravvivevano.
«A Goli Otok ho subito tanti boikot, non ricordo neanche quanti. Soprattutto all’inizio. E non capivo perchè. Con i miei compaesani arrivati prima di me, mi sfogavo raccontando il mio tormento, la mia disperazione. Loro mi ascoltavano, dandomi consigli sulle regole del campo e su come comportarsi. A distanza di poco però, venivo sempre condannato al boikot. Mi sembrava impossibile che compagni di sventura, potessero andare dalle guardie a riferire tutto. Poi, con il tempo e con l’esperienza, mi resi conto che invece erano proprio loro a fare la spia. Se non mi avessero denunciato alle guardie, a loro volta avrebbero subito il boikot. Eravamo obbligati periodicamente a fare rapporto al funzionario dell’Udba, riferendo tutte le confidenze e le espressioni di sconforto sentite dai compagni. Se non si era sentito nulla, allora non restava che inventarsi qualcosa e denunciare qualcuno a caso, meglio se parenti o amici ancora in libertà . Ci avevano trasformati in un esercito di delatori, messi gli uni contro gli altri, in modo da non poterci fidare di nessuno. Eravamo completamente soli, soli contro tutti. Dopo qualche mese e i primi boikot, ero arrivato a pesare 43 chili. Uno scheletro, l’ombra di me stesso. La stessa ombra umana che tante volte avete visto in televisione quando raccontano le atrocità di Auschwitz. Eravamo degli zombi, denutriti, distrutti nel fisico e nell’animo. Diventava un tormento anche lo stare seduti, perchè le ossa erano ricoperte soltanto da pelle. Ma la cosa che rendeva peculiare quel campo, non era tanto l’annientamento fisico, quanto quello morale. Tutti, me compreso, abbiamo pensato al suicidio come possibile via d’uscita a quell’inferno. Un atto estremo di liberazione. Ma a Goli Otok, persino morire era un sogno irrealizzabile, visto che la sorveglianza era strettissima. Ci tenevano in vita quel tanto che bastava per costringerci a subire quell’incubo, solo per il gusto di tormentarci».
Costretti in una buca
Spiega Darko Bavoljak, attuale Presidente dell’Associazione “Ante Zemljar” e autore di un documentario su Goli Otok: «Le dinamiche dei gulag sovietici, la violenza fisica e psicologica dei lager nazisti, un perverso metodo di rieducazione e l’asprezza della natura: sono questi i fattori che rendono l’isola un’inquietante anomalia tra i campi di detenzione, una fabbrica del terrore dove la dignità della persona veniva calpestata, palcoscenico spettrale e disumano di crimini che tuttora pesano come un macigno sul corso della Storia».
Tra le altre cose, Darko ci mostra ciò che resta del famigerato “R-101”: il temutissimo campo all’interno dell’isola – una sorta di prigione nella prigione – riservato ai detenuti più resistenti alla rieducazione, che meritavano un trattamento particolarmente violento.
È una buca profonda otto metri e mezzo, larga 25, e poteva contenere circa 20 detenuti in isolamento totale, dove tra torture e lavori forzati difficilmente riuscivano a sopravvivere, o a evitare l’impazzimento.
Su questa vergogna venne posta scientemente una pietra tombale. E un silenzio durato decenni, finito soltanto negli anni Novanta del secolo scorso. Con la dissoluzione dell’ex Jugoslavia, e il crollo del muro di Berlino, alcuni testimoni cominciarono a raccontare l’orrore vissuto sull’isola dei dannati.
Giacomo Scotti, giornalista e scrittore che vive a Fiume dal 1947, fu il primo a raccogliere le loro testimonianze, a renderle pubbliche dalle pagine de “La Voce del Popolo”, e poi nel suo libro-inchiesta “Ritorno all’Isola Calva”, pubblicato in Italia nel 1991, che all’epoca destò un enorme scalpore e molto interesse.
Dalle memorie di Sergio Borme: «Eravamo negli anni Cinquanta, quando l’Europa aveva già voltato pagina dagli orrori della Seconda guerra mondiale: noi vivevamo ancora le stesse condizioni dei lager nazisti. La mia scarcerazione arrivò un giorno qualsiasi. Uno come tanti trascorsi a Goli Otok in tre anni e tre mesi di reclusione. All’immediata felicità , subentrò un’infinita tristezza per l’abisso morale nel quale ero precipitato».
Ritorno alla libertà
I figli degli internati conservano oggi vecchie fotografie in bianco e nero, frammenti di lettere, manoscritti e qualche articolo di giornale: cimeli che mostrano durante le interviste, mentre cercano le parole giuste che possano raccontare il dramma delle loro famiglie segnate per sempre. Da Buie a Zagabria, da Pola a Fiume, la stessa espressione malinconica negli occhi, lo stesso strazio nel ricordare le tristi vicende dei loro padri.
Racconta Irene Mestrovich, figlia di Gino Kmet, che anche una volta rientrato a Fiume, il dramma di suo padre proseguì: i familiari e i vecchi amici lo evitavano come un appestato, poi arrivarono lo sfratto da casa, la miseria, la ricerca disperata di un impiego che gli permettesse di mantenere la famiglia.
Ma su Goli Otok non diceva una parola: prima di tornare in libertà , i detenuti erano costretti a firmare una dichiarazione in cui si impegnavano a non rivelare mai a nessuno ciò che avevano vissuto.
Sicchè Gino non ne parlò mai nemmeno coi propri figli: si limitava a raccontare che, essendo un bravo meccanico, era stato messo a lavorare in un’officina, evitando così le torture riservate agli altri. Solo dopo la morte di Tito, Gino cominciò a rintracciare gli ex compagni, impegnandosi in prima persona per divulgare questa storia, anche se per tutta la sua vita non parlò mai più di politica per il terrore di essere spiato.
Paura non senza fondamento: racconta Jasmina Bavolcav, figlia di un ex internato croato, che quando nel 1995 fu aperto l’archivio dell’Udba trovò il fascicolo di suo padre e casualmente anche un altro che portava il suo nome: «Fu uno choc terribile scoprire di essere stata pedinata e spiata fino al 1970».
Cos’è rimasto oggi
Dice Dolores Barnaba, di Buie: «Mio padre, Emilio Tomaz, raccontava spesso l’episodio di uno sloveno legato al palo mentre tutti gli altri in fila dovevano passargli davanti e sputargli addosso: alla fine non si vedeva più il colore della pelle. Una volta tornato a Montona, gli informatori dell’Udba si presentavano spesso in casa e facevano domande: fu costantemente controllato, fino agli anni Sessanta. Oggi, quando mi capita di passare in auto sulla litoranea, guardo quell’isola e ogni volta sento un nodo alla gola, anche perchè noi figli abbiamo vissuto le conseguenze di quel calvario: ricordo, da bambina, che mio padre aveva incubi notturni, urlava e graffiava il muro con le unghie».
Biancastella, figlia di Licio Zanini – ex detenuto e autore del bellissimo libro “Martin Muma” – ha lavorato alla Radio Rai di Trieste per 40 anni, dedicando molte delle sue trasmissioni alla memoria di Goli Otok e intervistando i sopravvissuti come suo padre. «Papà dopo la mia nascita disse: “Mia figlia si chiamerà Stella Bianca, perchè dopo quello che ho passato, alla stella rossa non credo più”. I nostri genitori per anni furono esclusi ed emarginati persino dagli amici di una vita. A volte mi chiedo qual è il testamento che lascia una vicenda del genere. Oltre a svelare cosa poteva succedere in quegli anni, penso che possa servire a ricordare che cosa vuol dire essere liberi e quanto dolore è costato a quegli uomini quell’anelito di libertà ».
Nel periodo estivo, oggi, l’isola calva è meta di migliaia di imbarcazioni e turisti attratti dalla sua ruvida bellezza; ed è forse per questo che qualcuno ha pensato di trasformare l’ex lager in un resort di lusso. Idea che non piace a chi su quell’isola si è visto strappare un pezzo di vita, ai figli di chi è sopravvissuto, e a chi ha preso a cuore la tutela del ricordo di Goli Otok. Come Furio Radin, che rappresenta la minoranza italiana nel Parlamento croato: «Cosa troviamo oggi a Goli Otok? Solo baracche semidiroccate, edifici sgretolati e pericolanti, mangiati dalla polvere di sale. La natura e l’incuria dell’uomo hanno trasformato quello che dovrebbe essere un luogo della memoria in un cimitero abbandonato di detriti di ferro, legno, cemento. Dieci anni fa la Commissione per i diritti umani del Parlamento croato ha iniziato a occuparsi di un Memoriale sull’isola, voluto fortemente dall’associazione degli ex-deportati. Ma non se n’è fatto nulla: purtroppo, ancora oggi la politica croata preferisce evitare di parlarne. Io penso invece che la memoria di ciò che è successo deve essere mantenuta».
(da “L’Espresso”)
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