RIFORME, IL GOLPETTO DI GIORGIA MELONI
IN PARTE E’ UN PUTSCH IN STILE ORBAN, DISPOTICO E AUTOCRATICO, IN PARTE E’ PRETENZIOSO E SGANGHERATO
Dunque, la Sorella d’Italia ha partorito la «Madre di tutte le riforme», come lei stessa ha battezzato la sua creatura appena nata. Nel Paese di Casa Meloni — tra parenti serpenti, fidanzati fuorionda e barbe finte al telefono — fa irruzione il “premierato all’italiana”, forma di governo unica al mondo, mai azzardata da nessun’altra democrazia occidentale. Quindi perfetta per una Repubblica preterintenzionale come la nostra (copyright Ilvo Diamanti), in eterna transizione verso un ignoto vattelapesca.
Secondo la premier, il disegno di legge costituzionale che riscrive quattro articoli della Carta del ’48 è naturalmente «una svolta storica», come del resto tutte quelle prodotte fin qui da una destra ex missina che — assurta al potere dopo decenni di alterità e di marginalità politica — consuma ora molta più Storia di quanta ne produce, immersa com’è nell’ideologia dell’anno zero e nel mito ri-fondativo della Nazione.
E ovviamente anche questo passaggio epocale ci traghetterà «nella Terza Repubblica», aggiunge, saltando a piedi pari la Seconda, di cui dev’esserci sfuggito sia l’inizio che la fine.
E nell’Anno Uno della nuova era meloniana non ci sarà più spazio per ribaltoni, giochi di palazzo, governi tecnici, e finalmente sarà ristabilito «il diritto dei cittadini a decidere da chi farsi governare». Detta così, parrebbe un sogno. Peccato invece che sia un incubo.
Come tutte quelle che l’hanno preceduta — da Bozzi nell’83 a Craxi nell’89, da Cossiga nel ’93 a D’Alema nel ’98, da Berlusconi nel 2006 a Renzi nel 2016 — anche la Grande Riforma lanciata da Giorgia Meloni è un Piccolo Mostro giuridico.
Un “perfetto Frankenstein”, l’avrebbe definita Giovanni Sartori, padre dei comparativisti italiani che inventò questa formula una quindicina d’anni fa, per bollare l’elezione diretta del presidente del Consiglio allora vagheggiata dal Cavaliere. Un modello mai sperimentato da nessuna liberal-democrazia del pianeta (ad eccezione di Israele, che fece retromarcia di lì a poco).
Basterebbe questo per far emergere l’insensatezza e l’irragionevolezza del premierato: un meccanismo del tutto anomalo che, trapiantato nel corpaccione già malaticcio della nostra Repubblica parlamentare, lo snatura, lo contamina e infine lo compromette irrimediabilmente.
Fior di presidenti emeriti della Consulta, da Giovanni Maria Flick a Giancarlo Coraggio, segnalano i pericoli di questo esperimento da laboratorio, concepito dai Dottor Stranamore delle tre destre, che fa saltare il delicato equilibrio tra i poteri dello Stato, la leale collaborazione tra le istituzioni e il check and balance che regge il Sistema-Paese.
Un presidente del Consiglio votato dal popolo — previa indicazione del suo nome sulla scheda elettorale — quindi investito da una legittimazione diretta che lo pone al di sopra di tutte le altre istituzioni, ma lo priva comunque della facoltà di assumere o licenziare i suoi ministri.
Un Presidente della Repubblica ancora eletto dalle Assemblee Legislative — quindi legittimato da una “fonte” subordinata rispetto a quella cui attinge il presidente del Consiglio — che vede ridotte le sue prerogative, perché di fatto non può più sciogliere le Camere e deve limitarsi a “conferire l’incarico” al premier vincitore.
Un Parlamento già esanime di suo — costretto a ratificare 43 decreti-legge e 21 fiducie in 378 giorni — che nella sostanza è già svilito a votificio e ora lo è anche nella forma. In mezzo a questo strambo “triangolo delle Bermude” dove i poteri cozzano e sbiadiscono, si inabissano poi altre garanzie costituzionali e funzionali, con un risultato opposto a quello che i patrioti dicono di voler perseguire.
C’è un cortocircuito sulla stabilità dei governi: Meloni e i suoi bravi inseguono l’araba fenice, visto che in 75 anni ne abbiamo avuti 68, di cui ben 12 solo negli ultimi 20 anni?
Ebbene, la grottesca “clausola anti-ribaltone” — che in caso di caduta di un premier prevede per una sola volta o il reincarico al medesimo o l’incarico a un altro eletto nello stesso partito — genera un micidiale paradosso, perché consegna solo a quest’ultimo (e non invece al primo) l’arma-fine-di-mondo del ricorso alle elezioni anticipate.
Così, nel gioco a due tra il premier e il suo “secondo”, i governi invece di stabilizzarsi si destabilizzano. C’è un cortocircuito sulla legge elettorale: Meloni e i suoi bravi ambiscono alle coalizioni blindate e alla fine delle transumanze tra i gruppi parlamentari?
Se è così, la proposta annunciata dall’esecutivo — che in miope continuità coi vari Porcellum, Italicum e Rosatellum prevede il solito super-premio di maggioranza del 55 per cento senza soglia minima di consensi per ottenerlo — non centra l’obiettivo, anzi muore in culla perché la Consulta l’ha già bocciata con ben due sentenze del 2014 e del 2017. Così il quadro è davvero completo. E benvenuti nella macelleria costituzionale della Sorella e dei Fratelli d’Italia.
Questo, a ben vedere, è solo in parte un putsch in stile Orbán, dispotico e autocratico. Semmai è un “golpetto all’amatriciana”, pretenzioso e sgangherato. Qui, più che alla Donna-sola-al-comando, siamo alla Patria-persa-nel-Caos. Ma la nostra Presidente è tutto fuorché una sprovveduta.
E allora c’è da interrogare la Ragion Politica per provare a capire perché Casa Meloni sforni adesso, in fretta e furia, un simile intruglio di velleitarismo e di avventurismo. E ce lo propini in pompa magna, insieme a una manovra claudicante, a un’Autonomia Differenziata inesistente, a un Piano Mattei evanescente. Come se la quantità della “merce” venduta all’opinione pubblica supplisse alla sua scarsa qualità.
Realisticamente, questa Grande Riforma non vedrà mai la luce, avendo bisogno di una duplice lettura parlamentare a distanza di tre mesi l’una dall’altra e poi di un rischiosissimo referendum confermativo (come insegnano i due “nazareni” Silvio e Matteo, colpiti e affondati dal no del popolo sovrano). Ma tenere quel disegno di legge lì, sul tavolo di Palazzo Chigi, può tornare utile alla premier per due usi.
Il primo uso è l’arma di distrazione per gli elettori: se non riuscirà a risolvere i tanti guai del Paese, dall’emergenza economica ai migranti, lei potrà sempre dire agli italiani che la colpa non è sua ma di un sistema ingovernabile, e per questo urge una riforma che le dia i pieni poteri.
Il secondo uso è l’arma di pressione sul Quirinale: se nel corso della legislatura il Colle diventa pietra d’inciampo per l’azione di governo, lei potrà sempre puntare la pistola del “premierato all’italiana” sulla tempia di Sergio Mattarella.
In tutti e due i casi, anche questa “svolta storica” meloniana perpetua la malattia mortale della politica di questi decenni, che abusa della Costituzione e delle istituzioni. Mai modernizzate per accrescere le virtù della democrazia e per migliorare la vita dei cittadini.
Spesso manomesse per obiettivi di parte e di partito, con fini strumentali e congiunturali. Sempre infettate con la sindrome del “debolismo” (cioè l’idea malsana che l’inefficienza dei governi non dipenda mai dalla loro insipienza politica ma solo dalla farraginosità delle regole) e poi curate con la falsa terapia del “direttismo” (cioè l’illusione che per risolvere il problema basti l’autarchia elettiva innescata dall’investitura del leader).
È il vero inganno della lunga stagione populista, che continua a sopravvivere a se stessa. Peccato che, nel frattempo, dalle urne stia scomparendo il popolo.
(da La Repubblica)
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