TUNISIA, UNA DONNA E LA FIGLIA UCCISE DA CALDO E STENTI. GLI APPELLI DISPERATI DEI MIGRANTI DEPORTATI ALLA FRONTIERA: “STIAMO MORENDO UNO ALLA VOLTA, AIUTATECI”
DA 11 GIORNI SONO BLOCCATI AL CONFINE CON LA LIBIA SENZA ACQUA NE’ CIBO… E I MILITARI SPARANO
Sono strette in ultimo abbraccio, accanto a un cespuglio rachitico. La madre stremata, le braccia aperte, il volto quasi affondato nel terreno. La piccola accoccolata accanto a lei. Ammazzate dalla fame, dal caldo, dalla sete, madre e figlia, sono diventate l’emblema della crisi umanitaria sulla sponda Sud del Mediterraneo.
L’immagine che le ritrae come stracci abbandonati in un mare di sabba è stata diffusa da RefugeesinLibya e altre organizzazioni delle reti di resistenza dei rifugiati che si stanno sviluppando fra la sponda Sud del Mediterraneo e l’Europa.
In Tunisia, qualcuno ha provato a mettere in dubbio la veridicità di quello scatto, ma a confermarlo ai microfoni di Al Jazeera è stato il tenente colonnello Khalifa al Senussi, della guardia di frontiera libica.
“Una donna muore di sete nel deserto con il suo sogno irrealizzato di una vita migliore per sua figlia. Una bambina muore con un sogno mai nato – denuncia RefugeesinLibya – La politica europea uccide. Le autorità tunisine fanno soldi sui neri africani”. Quella donna e la sua bambina non sono le uniche vittime.
Da settimane centinaia, se non migliaia di migranti subsahariani sono intrappolati nell’area desertica fra la Tunisia e la Libia, come al confine con l’Algeria, dove sono stati deportati dalla Garde Nationale. Senza né acqua, né cibo, né assistenza, da giorni chiedono aiuto.
“Mi chiamo Joy – si sente in un audio arrivato dalla frontiera – sono una delle migranti intrappolate alla frontiera fra Tunisia e Libia. Siamo qui da undici giorni”. Parla piano, in un inglese elementare. La voce è provata e insiste più e più volte, “aiutateci, per favore, non ci abbandonate qui”. Dietro, il brusio di un formicaio di gente, bambini che piangono, qualcuno che sommessamente si lamenta.
Non sa dire dove sia Joy, attorno – racconta – c’è solo terra arsa, qualche albero sotto cui lei e altri cercano riparo, e in lontananza le guardie schierate. Da una parte i tunisini, dall’altra i libici. In mezzo, ci sono loro. In trappola
Sono centosessanta o più, sono originari di Sudan, Nigeria, Sierra Leone, Mali, Gambia, ma “noi vivevamo in Tunisia da un sacco di tempo”, dicono due ragazzi arrestati per strada e deportati. E sono esausti. Almeno in due del loro gruppo, racconta un uomo, hanno già perso la vita.
“Ogni volta che tentiamo di rientrare in Tunisia, loro ci bloccano. Ci dicono che fin quando dal governo non arrivano indicazioni, non sono autorizzati a farci passare”, spiega Joy. Qualcuno ci ha provato. Ci sono stati spintoni, cariche, spari in aria. Dal confine, di quelle violenze arrivano filmati che Repubblica ha visionato, verificato ed è in grado di mostrare.
Stando a quanto dichiarato dal presidente Kais Saied, in zona la Croce Rossa starebbe prestando assistenza ai migranti rimasti intrappolati sul confine. “Ma ci danno solo un litro d’acqua da dividere in quattro o cinque, di giorno il sole non ci dà pace, di notte ci sono serpenti e scorpioni da cui non sappiamo come proteggerci”. Il caldo consuma. La sete è una costante. E allora l’unico modo di resistere è stendersi, limitare al massimo gli sforzi, tentare di dimenticare l’arsura, la fame, la paura di rimanere bloccati lì. In attesa di qualcuno che arrivi con acqua o risposte.
Parenti e amici che sono riusciti a sottrarsi alle deportazioni e si nascondono a Sfax o in altre città non possono né soccorrerli, né raggiungerli, perché rischierebbero di rimanere bloccati lì anche loro. Anche le organizzazioni della società civile hanno difficoltà a raggiungere quelle zone.
“Insieme ad altre realtà della società civile tunisina e internazionale stiamo documentando da mesi la situazione, supportando le persone locali e in transito che si trovano a resistere ad una situazione di razzismo di stato e di gravissima crisi economico-politica – spiegano gli attivisti di Mem.Med. – La repressione sociale, le violenze razziste, i respingimenti in mare e in terra, le morti e le scomparse dicono chiaramente che la Tunisia non è un paese sicuro né per le persone migranti né per i suoi cittadini”.
Ma la Tunisia di Kais Saied, con cui l’Ue domenica scorsa ha firmato un memorandum di intesa anche, se non soprattutto, per il controllo delle migrazioni, “è un Paese partner” ha confermato ieri la commissaria Affari Interni Ue, Ilva Johansson. Domenica a Roma, Saied sarà “uno dei protagonisti”, ha annunciato invece nei giorni scorsi palazzo Chigi, della “Conferenza internazione sull’immigrazione” organizzata dal governo italiano.
Nelle stesse ore, dall’altra parte della Capitale, attivisti e portavoce di Sudan, Egitto, Tunisia, Gambia, Sud Sudan, Benin, Burkina Faso, Senegal, Marocco, Somalia, Algeria, Costa d’Avorio, si riuniranno nel controvertice “Africa Counter Summit”, organizzato da Refugees in Libya e Mediterranea Saving Humans
“L’incontro – fanno sapere – si inserisce nell’ambito dell’attività di promozione e costruzione di reti della società civile organizzate mediterranee, che possano contrastare la strategia europea ed italiana di sostegno ai regimi e alle autocrazie che opprimono le popolazioni”. Obiettivo: “continuare a sostenere il soccorso civile in mare, il diritto di asilo, i diritti umani e sociali. Reti capaci di praticare un altro Mediterraneo possibile e giusto, a partire dal sostegno in tutti i paesi africani, delle lotte e mobilitazioni della popolazione contro la fame, la miseria e lo sfruttamento”.
(da La Repubblica)
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