Aprile 5th, 2025 Riccardo Fucile
“NEL NOSTRO PAESE PERCORSI UMILIANTI”
Un padre. Un ricercatore. E una lettera che racchiude l’orgoglio per un figlio brillante
misto al dolore per un Paese che continua a lasciar partire i suoi giovani migliori. È l’appello che Fabio Di Felice, ricercatore dell’Ingv, ha indirizzato al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Inizia così l’accorata lettera: «Le scrivo come ricercatore italiano, ma soprattutto come padre di un giovane neolaureato: so quanto il tema della fuga dei cervelli Le stia a cuore e proprio per questa sua sensibilità mi rivolgo a Lei con fiducia».
«In Italia percorsi umilianti»
Il figlio di Di Felice, Matteo, ha appena concluso un percorso di studi all’università di Copenhagen in Danimarca. Un traguardo che si è subito tradotto in proposte di lavoro concrete. Il padre, nella sua lettera, non parla solo di Matteo. Racconta un’intera generazione: «Sono un esempio di come bravura, impegno e dedizione possano costruire un futuro professionale certo. Con un salario medio di circa 70mila euro lordi annui, lavorano in settori innovativi e di prestigio, riuscendo a vivere serenamente e beneficiando di un sistema di welfare che in Italia resta solo un’aspirazione».
Una differenza sostanziale rispetto alla piega che ha preso il nostro Paese. «In Italia la prospettiva più probabile sarebbe stata quella di stage sottopagati, senza contributi né futuro certo. Un percorso umiliante in cui ci si può ritrovare a fare fotocopie o a
portare il caffè al capo o al professore con cui si collabora, in attesa di un’opportunità che forse non arriverà mai», commenta il ricercatore.
«I ragazzi cercano all’estero quello che qui stenta ad aprirsi»
Il suo è un grido d’allarme. «L’Italia non può più permettersi di perdere le sue menti più brillanti e volenterose», chiosa.
La richiesta al presidente Mattarella è chiara: trasformare questa emergenza in «un imperativo strategico per il futuro del Paese creando le condizioni affinché i giovani possano restare o scegliere di tornare». L’appello è anche simbolico: «Papà ricercatore, anzi il papà di tutti questi ragazzi», si firma infatti Di Felice. Ed è a nome di tutti quei genitori, insegnanti e ricercatori che vedono i propri figli e studenti lasciare l’Italia per costruirsi un futuro altrove. «Tanti ragazzi cercano all’estero un orizzonte che qui stenta ad aprirsi e così la ricerca italiana anela a quello “spazio” – normativo, economico e sociale – per poter respirare, crescere e trattenere i suoi talenti», conclude.
Il sindacato Fgu-Ricerca: «Scarsa considerazione del lavoro»
A raccogliere lo sfogo del ricercatore è il coordinatore nazionale del sindacato Federazione Gilda Unams della sezione ricerca, . «Oggi in Italia un ricercatore guadagna cifre lontanissime dai 70mila euro dei nostri giovani in Danimarca e potrebbe non vederli nemmeno a fine carriera», commenta il sindacalista. «Ma più in generale pesa la scarsa considerazione del Paese nei confronti del nostro lavoro. Un vero peccato, dato che l’economia italiana soffre cronicamente di bassa produttività, figlia anche della carenza di innovazione cui la ricerca, di base e applicata, dà un contributo decisivo».
(da agenzie)
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Aprile 5th, 2025 Riccardo Fucile
COME SPUTTANARE I SOLDI DEGLI ITALIANI: 175 PERSONE AL MESE, MENO DELLA MEDIA ATTUALE… E GLI ALTRI 40.000 SARANNO TUTTI TRASFERITI IN ITALIA
«Funzioneranno». La premier Giorgia Meloni a proposito dei Cpr di Shengjin e Gjader è stata chiarissima. Vuole che il suo progetto di portare in Albania chi non ha diritto a restare nel nostro paese vada in porto. A ogni costo.
E il Fatto Quotidiano fa sapere che il costo sarà impressionante: 70 mila euro a rimpatrio. A dirlo sono i numeri della Direzione centrale dell’Immigrazione e della Polizia delle frontiere del Viminale.
I rimpatri
Nel 2024 solo il 16% delle persone con un ordine di allontanamento è stata effettivamente rimpatriata, contro una media europea del 23%.
L’Italia è al nono posto della classifica europea guidata da Germania, Francia e Svezia, che da sole contano il 43,6% dei rimpatri Ue.
C’è poi da dire che tunisini e algerini tornano a casa da altre direzioni. Quelli dall’Albania sono egiziani e bangladesi. E se la Corte europea desse ragione al governo, i conti per i rimpatri esploderebbero.
Franz Baraggino fa l’ipotesi di riportarne a casa 880 al mese. In base al turnover previsto dall’esecutivo si tratta di 10.560 persone l’anno. Di bangladesi ne abbiamo rimpatriati appena 73 in tutto il 2024, secondo il Viminale.
Egitto e Bangladesh
E l’Egitto? 1.760 procedure accelerate per meno di 200 rimpatri. I dati del Viminale del 2023 dicono poi che su 457 egiziani transitati da un cpr gli espulsi sono stati 249, scesi a 196 nel 2024.
Per i bangladesi: nel 2023 ne abbiamo trattenuti 39 e rimpatriati 5, saliti a 11 nel 2024. A questo punto bisogna fare un conto. «10.560 richiedenti all’anno, con egiziani e bangladesi in un rapporto di 1 a 4, come negli sbarchi di quest’anno. Fingiamo che non esistano persone bisognose di protezione. Dimentichiamo i ricorsi e ipotizziamo il 100% di domande d’asilo bocciate, e tassi di rimpatrio identici a quelli dei cpr: più di così è fantascienza».
Il risultato
Il risultato è impietoso: «Finiremmo per rimpatriare 175 persone al mese, meno della media registrata dagli attuali cpr in Italia. Un fallimento che diventa un disastro a fronte dei costi: alla scadenza del Protocollo da 700 milioni ogni rimpatrio sarà costato almeno 70.000 euro. Gli altri migranti? Più di 40 mila, tutti immediatamente trasferiti in Italia: altri soldi. E questa, ripetiamolo, è solo l’ipotesi più ottimistica».
(da Il Fatto Quotidiano)
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Aprile 5th, 2025 Riccardo Fucile
“PRIMA CI HANNO TOLTO IL DIRITTO ALLA SECONDA SCARPA, PI AL SECONDO TUTORE, ORA QUESTO”… BENVENUTI NELL’ITALIA SOVRANISTA
Mariangela Tarì è autrice del libro Il precipizio dell’amore edito da Mondadori.
Racconta di una famiglia con una diagnosi di disabilità grae. Quella di sua figlia Sofia, 14 anni, nata con la sindrome di Rett. È una patologia neurologica dello sviluppo che interessa il sistema nervoso centrale. E ha un deficit cognitivo. Oggi, spiega in un’intervista a La Stampa: «Stanno tagliando i fondi per le sedie a rotelle. Non presenti la domanda. Quindi Sofia resterà ancora per molto su una sedia a lei molto scomoda perché piccola».
La sedia a rotelle
Nel colloquio con Valentina Petrini spiega che «non ci sono solo liste d’attesa lunghissime per esami diagnostici e visite specialistiche. Il costo della disabilità, della cura, è sempre più a carico nostro. Chi può pagare va dai privati, chi non può si chiude in casa con i figli disabili».
E aggiunge: «Prima ci hanno tolto il diritto alla seconda scarpa, poi al secondo tutore, ora le sedie a rotelle. Avevamo tre terapie a settimana, compresa la logopedia. Adesso le Asl non possono sostenere interi anni di assistenza, quindi ci spettano solo cicli riabilitativi da 6 sedute e quando finiscono, stop fino all’individuazione di nuovi fondi. Sofia è costretta ad assenze a causa dei suoi continui ricoveri e quindi perde anche il diritto a quell’ora gratuita»
La separazione delle spese
Ma c’è di più. Nel disegno di legge sulla disabilità in discussione a Palazzo Madama «la senatrice Cantù della Lega ha presentato un emendamento, approvato al Senato, che di fatto peggiorerà le cose. Si separano le spese socio-assistenziali di rilievo sanitario, dalle spese sanitarie, scorporandole dal budget della sanità pubblica. Il testo prevede che siano a carico del Fondo sanitario nazionale esclusivamente gli oneri delle attività di rilievo sanitario».
E ancora: «Mia figlia ha bisogno di medicine, terapie, ricoveri, cambio peg, ma anche di essere lavata, nutrita, cambiata, di fisioterapia, logopedista, educatrici, trasporti speciali. Per noi spese sanitarie e sociosanitarie sono strettamente collegate. Non vediamo distinzione».
Le altre spese
Poi ci sono le altre spese: «L’educatrice che viene a casa prende 25 euro l’ora, la fisioterapista, 30 euro l’ora. Sofia ha la sindrome di Rett ma è un essere umano che necessita di stimoli: paghiamo anche due educatrici, una per la comunicazione aumentativa alternativa, che a scuola non si fa, l’altra specifica per la formazione sociale e che quindi stimola lo sviluppo neurologico di Sofia attraverso l’arte, la pittura. Offerte didattiche che dovrebbero essere nella scuola pubblica, ma non ci sono. La bicicletta, per lei, è un bene secondario? Lo è solo per mia figlia disabile? Le Asl passano biciclette adattate con ruote grandi, ma i nostri figli hanno bisogno di biciclette a motore perché non riescono a pedalare. Sofia non cammina nemmeno e per lei serve una bici con cassone per la sedia a rotelle, costa 4 mila euro».
Il costo della disabilità
L’abbigliamento di un disabile «non è passato dallo Stato. Eppure la rigidità degli arti, delle gambe, delle braccia, le crisi epilettiche, la testa che non si piega in avanti ti impediscono di comprare vestiti economici, vanno acquistati su siti specializzati e costano tantissimo. Sofia ha una dermatite atopica, le servono creme e cibi che paghiamo noi. Le scarpe costano 180 euro, 200 euro e lo stesso vale per i tutori. Tutta la disabilità è costosa. Io osservo questi tagli in Veneto, regione virtuosa, dove mi sono trasferita da Taranto 13 anni fa proprio per mia figlia. Figuriamoci in regioni più malandate con i conti pubblici cosa sta accadendo», conclude Mariangela.
L’assegno di cura
Infine, quando ha chiesto l’assegno di caregiver «sa cosa mi ha detto l’assistente sociale? I soldi sono pochissimi, lei già prende l’assegno di cura, non faccia domanda per quello caregiver, ci sono genitori che non stanno percependo nulla. Quando gli ho fatto notare che sono due cose completamente diverse e io avrei diritto a tutte e due, mi ha risposto mortificata che ne era consapevole ma la cassa è vuota e loro
conoscendo i bisogni del territorio – cercano di distribuire ciò che hanno. Quindi la domanda per il sostegno come caregiver non l’ho fatta, per aiutare un’altra famiglia. Le ho risposto?».
(da La Stampa)
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Aprile 5th, 2025 Riccardo Fucile
“GLI HANNO SPARATO ADDOSSO PER 5 MINUTI DI FILA”… MASSCRATI COSI’ MEDICI E VIGILI DEL FUOCO: QUESTA E’ LA MORALE DELLA FECCIA DI NETANYAHU
Un video riemerso dal buio di Gaza sembra inchiodare l’esercito israeliano a gravi responsabilità rispetto a quanto accaduto nei dintorni di Rafah lo scorso 23 marzo. Domenica scorsa, dopo giorni di ricerche di un team di paramedici e soccorritori palestinesi scomparsi, l’Onu e la Croce Rossa avevano ritrovato in una fossa comune i corpi di 15 persone. Proprio le persone di cui s’era persa ogni traccia da quando non erano più rientrati da una missione di soccorso nella notte del 23 marzo. «Sono stati uccisi dalle forze israeliane mentre erano impegnati a cercare di salvare vite», aveva accusato il vice-segretario generale dell’Onu per gli affari umanitari Tom Fletcher. Israele aveva sostenuto in risposta che i suoi soldati avevano ingaggiato lo scontro a fuoco perché il gruppo di palestinesi «avanzava in maniera sospetta» e e non si era fatto riconoscere come appartenente a una missione di soccorso: «si muovevano senza coordinamento o luci di emergenza». Ora un filmato, mostrato venerdì all’Onu e ottenuto dal New York Times, contraddice platealmente quella versione: nel video, girato dall’interno di una delle auto poi prese di mira, si vedono chiaramente i medici o paramedici di ambulanza e vigili del fuoco muoversi su una strada con le rispettive divise fluorescenti, le luci d’emergenza dei veicoli accese. I soccorritori si sono fermati in quel punto perché un’auto è finita fuori strada e si è ribaltata. Ma a finire sotto una pioggia di proiettili, poco dopo, sono proprio loro: nel filmato diffuso dal Nyt, che poi diventa buio, si sentono partire i colpi. Proseguiranno senza interruzione per 5 minuti.
Il video mostrato all’Onu e il destino del «regista»
Il video è stato recuperato dal telefonino di una delle persone trovate morte nella fossa comune nel sud della Striscia. Non si conosce il suo nome perché la famiglia teme ora ritorsioni. La Croce Rossa l’ha però mostrato integralmente in una conferenza stampa convocata ieri al Palazzo di Vetro dell’Onu. La portavoce della Mezzaluna Rossa palestinese, Nebal Farsakh, ha detto parlando da Ramallah che l’autore del video era un paramedico che è stato trovato poi ucciso con un proiettile in testa. Nell’estratto pubblicato dal New York Times lo si sente pronunciare la professione di fede islamica nonappena si rende conto di essere in grave pericolo. «Non c’è Dio all’infuori di Dio, Maometto è il suo messaggero». Poi, la richiesta di perdono alla madre per «il percorso che ho scelto – quello di aiutare le persone». Un documento drammatico, al quale Israele per il momento non ha reagito
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Aprile 5th, 2025 Riccardo Fucile
LEO, ANESTESISTA IN INGHILTERRA, E’ FIGLIO E MARITO DI DUE DONNE DI KIEV… HA RACCOLTO OLTRE 40.000 STERLINE
Una traversata lunga 4870 chilometri, la distanza che divide l’isola di Gran Canaria, nel
Mar Mediterraneo, alle Barbados. È il tragitto che Leo Krivskiy, medico anestesista nato a Mosca e membro del Servizio sanitario nazionale inglese, ha attraversato sulla sua canoa Happy Socks – letteralmente “calze felici” – con l’obiettivo di raccogliere fondi per gli operatori sanitari coinvolti nella guerra in Ucraina. Un viaggio in solitaria lungo tre mesi, prima di riabbracciare la moglie, ucraina, e i figli. Il totale raccolto ammonta a oltre 40mila sterline
L’associazione Ukrops e la sfida personale
Partito il giorno di Santo Stefano del 2024, l’arrivo alle Barbados mercoledì 2 aprile. Sbarbato e in forma all’inizio, smunto e irriconoscibile dopo tre mesi di fatiche nell’Oceano Atlantico. L’idea di partire sulla sua canoa “rinforzata”, con tanto di doppia bandiera ucraina e inglese, è nata da una questione prettamente personale: sua madre e sua moglie sono, infatti, di Kiev. Quando la Russia, nel febbraio 2022, ha invaso l’Ucraina ha raccontato di essere rimasto «inorridito» nel vedere la capitale bombardata dall’esercito russo. Per questo ha iniziato immediatamente a mettersi a disposizione, stringendo contatti con i medici sul campo di battaglia e organizzando spedizioni di attrezzature mediche a fronte. Fino a creare la sua associazione di beneficienza Ukrops.
Il messaggio agli ucraini: «Continuate a lottare, anche se vi mandano al tappeto»
Da anestesista dello University Hospital Southampton fino alla traversata atlantica con la sola forza delle braccia. «Dedico a voi la mia piccola vittoria, una vittoria su me stesso, sui miei piccoli demoni del dubbio, dell’autocommiserazione e della disperazione», ha festeggiato Krivskiy rivolto al popolo ucraino. Ha confessato di aver pensato di mollare due volte, ma «ho continuato ad andare avanti, lasciandomi alle spalle i miei fallimenti e rimettendomi ai remi ogni giorno». Poi un appello per tutti: «Vi prego di non arrendervi, di continuare a rialzarvi dopo essere stati messi al tappeto e di continuare a lottare».
(da agenzie)
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Aprile 5th, 2025 Riccardo Fucile
“ADESSO TUTTI CI CHIAMANO”… CERTO, PER MANDARTI A FARE IN CULO
«Adesso tutti ci chiamano, ci siamo messi al comando!» gongola Trump sull’Air Force One, sorvolando le macerie provocate dai suoi dazi e dai suoi strazi.
Ogni sciagura umana, basti pensare a Hitler e a Putin, comincia sempre da un narciso vittimista che si arroga il diritto di interpretare la Storia come un complotto universale ai danni del suo popolo. «Ci siamo messi al comando!».
Ma perché, fino a ieri dove stavate? Da almeno ottant’anni gli Stati Uniti sono la prima potenza mondiale e hanno liberato e condizionato l’Occidente con la forza delle armi, del dollaro, della tecnologia e della cultura popolare.
Hanno pagato un prezzo alto, in soldi e vite umane, ma è il prezzo di qualunque leadership. Invece nel racconto deformato di Trump è come se la Roma dei Cesari si fosse considerata vittima dell’impero romano e la Londra della regina Vittoria di quello britannico.
Dalla viva voce di quest’uomo perennemente ingrugnito apprendiamo che la nazione che si è sempre rappresentata come il faro delle nostre libertà era un carcere di schiavi sfruttati dal resto del pianeta e in particolare da noi europei, noti scrocconi e parassiti.
Mi creda, mister Trump, mi sono sciroppato più libri, film e dischi americani di quanti Lei ne possa avere letti, visti e ascoltati in tutta la sua vita, eppure non me n’ero mai accorto.
Pagheremo dazio per questo, ma nel farlo smetteremo di riconoscerle il diritto di esercitare proprio quel comando a cui tiene tanto. Sicuro ne valga la pena?
(da Il Corriere della Sera)
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Aprile 5th, 2025 Riccardo Fucile
IL GOVERNO NON HA ALCUN PIANO ECONOMICO
Per fortuna che per Giorgia Meloni i dazi «non sono una catastrofe». Nel day after dalla
promulgazione, la Borsa di Milano è per il secondo giorno maglia nera d’Europa, dallo sprofondo del -6,5 per cento. Eppure, dopo le rassicurazioni attraverso un’intervista al Tg1, la premier sembra aver esaurito gli argomenti su
quella che ha tutti i connotati per essere una guerra commerciale di proporzioni globali, con gli Stati Uniti dalla parte del nemico.
Nella sua giornata, Meloni si è dedicata alle attività istituzionali tipiche di ogni tranquillo venerdì di pace economica, privilegiando platee elettoralmente utili. È intervenuta con un video agli Stati generali della Protezione civile, dove ha detto che «la cultura della prevenzione è sempre un investimento», poi si è fatta vedere in una piazza Duomo gremita a L’Aquila, dove ha assistito al giuramento degli allievi dei Vigili del fuoco. Infine si è spostata a Ortona per visitare la nave scuola Amerigo Vespucci, e lì non ha potuto dribblare la domanda sui pericoli incombenti sull’economia italiana, fatta soprattutto di export. «Sono ovviamente preoccupata, è un problema che va risolto», e addirittura «la catastrofe che se ne fa in questi giorni mi preoccupa paradossalmente più del fatto in sé». Insomma, tutta colpa della stampa che enfatizza troppo. Perché sì, «parliamo di un mercato che vale circa il 10 per cento della nostra esportazione, ma non smetteremo di esportare negli Usa».
Parole identiche a quelle pronunciate al Tg1 ed evidentemente frutto della linea da cui la premier non ha intenzione di sgarrare. L’obiettivo è quello di sedare le paure, ridurre l’enfasi, minimizzare gli effetti anche davanti ai numeri e al crollo della borsa. Nella speranza che nel corso delle prossime settimane il dialogo con gli Stati Uniti si sblocchi e arrivi al finale auspicato dell’«eliminazione dei dazi». Anche per questo la visita in Italia del vicepresidente JD Vance di metà aprile è attesa impazientemente. Nel frattempo, però, l’obiettivo della premier è quello di frenare ogni possibile risposta europea che possa peggiorare l’umore di Donald Trump infilando l’Europa in un vicolo cieco, secondo Fratelli d’Italia.
Per questo, per ora, il governo si è limitato ad annunciare una roadmap di riflessione e contemplazione: prima serve uno studio per valutare il reale impatto economico dei dazi sull’Italia, poi – martedì – il governo incontrerà le categorie per valutare eventuali soluzioni. Nel mentre, qualsiasi dialogo con l’Unione europea andrà nella direzione di scoraggiare iniziative considerate ritorsive, come i controdazi. Anzi, la richiesta sarà quella di concentrarsi sui «dazi che l’Ue si autoimpone», come ha detto la premier, che è tornata a chiedere la sospensione del Green Deal sulle auto e un ripensamento del Patto di stabilità. Un modo per sviare il focus dagli Usa all’Ue, mentre Meloni sembra ancora convinta di essere la «cinghia di congiunzione» tra i due, come da illusione di qualche mese fa. A confermarlo è stato il ministro degli Esteri Antonio Tajani, che a Cinque minuti ha detto che «attraverso un’azione facilitatrice l’Italia può giocare un ruolo positivo per calmare le acque e favorire la crescita economica». Una visione più che rosea che cozza con la realtà dei fatti, dai numeri di Piazza Affari alle preoccupazioni delle categorie produttive.
Il «piano Poste»
Il governo, dunque, si ostina a non riflettere su nessuna misura concreta, a differenza di quanto si stanno attrezzando a fare altri paesi europei come la Spagna di Pedro Sánchez, che ha annunciato un piano da 14 miliardi per sostenere le imprese colpite. Secondo il ministro Tajani, infatti, «se continua un’azione forte sull’aumento dei dazi, dobbiamo assolutamente diminuire i costi di produzione», per aiutare le imprese. Come, però, rimane un mistero. Il vicepremier ha parlato di un «piano di azione» diffuso venti giorni fa che immagina Poste italiane come leva logistica, «da utilizzare per distribuire sui mercati i prodotti anche delle piccole imprese», e un «piano italo-indiano» già siglato in passato per favorire il business tra i due paesi. Poco e niente, ma in linea con la filosofia dello struzzo di scommettere che i dazi vengano cancellati.
Eppure c’è un limite che Forza Italia non è disposta a superare. «Le trattative individuali non si possono fare perché è l’Unione europea che tratta le politiche commerciali». Tradotto: Ursula von der Leyen rimane esponente di punta della famiglia popolare europea, e scavalcarla non è immaginabile. L’unica strada dunque sarà quella della diplomazia europea, nella speranza di poter fare da argine davanti all’attivismo della Francia dell’odiato Emmanuel Macron.
Eppure, anche se l’Italia predica prudenza, lunedì sarà il momento di scoprire le carte. A Bruxelles si terrà il Consiglio dei ministri del Commercio dell’Ue, in cui si discuterà l’ipotesi di imporre dazi sui prodotti americani. L’Italia dirà no, perché il rischio è che «possano provocare una reazione più dannosa per i nostri prodotti», chiedendo invece che l’Ue dia un «segnale politico agli Stati Uniti per dire basta», ha spiegato Tajani. La scommessa è che l’Ue converga sulla mano tesa agli Usa, la realtà è che sul governo rischia di abbattersi la tempesta perfetta della speculazione finanziaria insieme alla contrazione dell’export per svariati miliardi di euro, con effetti su Pil e occupazione.
(da editorialedomani.it)
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Aprile 5th, 2025 Riccardo Fucile
L’ORDINE DII SCUDERIA AI MEDIA ITALIA ASSERVITI AI SOVRANISTI: “MINIMIZZARE LA CATASTROFE”…. VESPA ORMAI E’ UN VIETCONG MELONIANO (SENZA OFFESA PER I VIETCONG)
Comincia a diventare avvincente, con veri e propri casi di virtuosismo, lo spettacolo
“Non è successo niente”, che vede i governanti italiani minimizzare gli effetti dei dazi di Trump sull’economia mondiale (quella americana compresa).
Magnifico, al Tg2, il fratello d’Italia Scurria (una new entry, si direbbe) che, con il volto terreo, dichiara che «il governo è impegnato a evitare guerre commerciali», come se nessuno lo avesse avvertito che la guerra già divampa e le Borse hanno accolto i dazi con lo stesso ottimismo con il quale accolsero il Covid.
Fa l’effetto di uno scampato a un bombardamento aereo che, uscendo dalle macerie, si scrolla la polvere dal pigiama e dichiara di essere fermamente intenzionato a evitare i bombardamenti aerei. Ipotesi alternativa (e di alleggerimento per Scurria): l’intervista risale a qualche mese fa, giaceva da mesi in un deposito di file inutili ed è stata mandata in onda per errore.
Di spicco anche la performance di Bruno Vespa, la cui fase senile coincide con una impressionante recrudescenza dello zelo filogovernativo. Prima era un governativo curiale, ora sembra una specie di vietcong meloniano, disposto a tutto, anche all’assalto all’arma bianca. L’impatto mondiale dei dazi, nel suo raccontino serale, è il modesto aumento di prezzo di una pizza a New York, un dollaro o due, mica cadrà il mondo…
Trattare è la parola d’ordine, il pensiero magico, il mantra che salva. Anche Tajani, facilitato dalla romanità paciosa, si dice fiducioso nelle trattative. La domanda sarebbe: quali? Rischiano di rimanerci male quando, recandosi alle trattative, scopriranno che Trump non ha mandato nessuno. Tratteranno in famiglia sul prezzo della pizza..
(da La Repubblica)
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Aprile 5th, 2025 Riccardo Fucile
LA MOSSA POTREBBE IRRITARE BRUXELLES CHE NON AMMETTE SMARCAMENTI… L’IMPORTANTE E’ CHE NON DIMENTICHI LA DIVISA DA CAMERIERA
È qualcosa in più di un’idea: è un’ambizione che in queste ore diventa sempre più
concreta. Giorgia Meloni, stravolgendo di nuovo la strategia più recente, intende volare subito negli Stati Uniti. Avrebbe già ricevuto un via libera, pare durante un contatto telefonico diretto con Donald Trump.
Il viaggio potrebbe tenersi prima di Pasqua, così circola ai massimi livelli politici e diplomatici del governo. Dunque prima della visita in Italia del vicepresidente Usa J.D. Vance. E ci sarebbe già una finestra di massima, compresa tra il 14 e il 17 aprile. Forse anche per questo la missione di Erdogan in Italia, programmata a Roma per il 17 aprile, nelle ultime ore sarebbe slittata.
Non c’è niente di ordinario, in questa mossa. Perché volare a Washington prima del 20 aprile, nel bel mezzo della trattativa sui dazi, è un oggettivo azzardo. Cosa dirà infatti Meloni al fianco del Presidente americano che magnifica le barriere doganali che stanno massacrando le borse mondiali e spegnendo il sonno di imprese e lavoratori italiani?
Certo, potrebbe strappare clemenza dal tycoon per alcuni prodotti del made in Italy. Ma non basterà certo a depotenziare il tornado in arrivo sulle economie europee. E
sull’Italia, assai esposta.
La presidente del Consiglio, inoltre, varcherebbe la soglia dello Studio Ovale mentre l’Europa battaglia con Trump. È vero, i prossimi venti giorni serviranno soprattutto a trattare, prima che Bruxelles decida se mettere davvero nel mirino le big tech americane. Ma non è detto che i partner continentali accolgano con favore un viaggio che potrebbe essere interpretato anche come uno smarcamento dall’unità europea. Quell’unità che anche il Colle ha indicato come fondamentale per gestire la partita con gli Stati Uniti.
Emblematico, in questo senso, l’articolo con cui il Financial Times ricordava la difficoltà del momento: “Pressing in Ue su Meloni perché scelga da che parte stare”. E lo stesso può dirsi per il dossier del centro studi di Fdi destinato ai parlamentari, che per la prima volta in modo critico sosteneva: Trump ha confuso i dazi con l’Iva. Ciononostante, la premier è determinata a tentare l’azzardo. E a tentarlo il prima possibile. Per questo ha chiesto informalmente a Ursula von der Leyen di organizzare per l’8 aprile un consiglio europeo straordinario. Da lì sarebbe partita per gli Usa, anticipando la visita al 9-10 aprile. Bruxelles ha però preso tempo e Palazzo Chigi si è concentrato sul 14-17 aprile.
C’è un altro motivo che la spinge a muoversi: inaugurare il rapporto con la nuova amministrazione attraverso un bilaterale con Vance – che è vicepresidente – non sarebbe considerato un esordio “ortodosso”. E capace di trasmettere, soprattutto in questa fase, un’immagine sufficientemente forte per la sua leadership.
Infine: il nodo del consenso. Quanto sta accadendo rimette in discussione certezze consolidate. Una recessione provocata dall’amico Trump sarebbe un autentico dolore per chi ha presenziato – unica leader occidentale – al giuramento del tycoon. I sondaggi possono virare in fretta. E Meloni vuole raccogliere tutti gli elementi prima di valutare come muoversi nel prossimo futuro. Non attenderà infatti di logorarsi, consapevole che il prossimo Parlamento sarà quello chiamato ad eleggere il successore di Sergio Mattarella. Un’occasione a cui non intende rinunciare.
(da La Repubblica)
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