Aprile 29th, 2025 Riccardo Fucile
DUE MESI FA I LBERALI ERANO INDIETRO DI 24 PUNTI, HANNO VINTO CON 11 PUNTI DI DISTACCO…TRUMP E’ RUSCITO NEL MIRACOLO DI FAR PERDERE I SUOI AMICI CONSERVATORI
Il Partito Liberale del primo ministro Mark Carney ha vinto a sorpresa le elezioni federali canadesi. Si tratta del quarto mandato consecutivo dei Liberali che hanno sorprendentemente ribaltato le previsioni della vigilia che davano favorito il leader dell’opposizione populista Pierre Poilievre e che ha tentato di trasformare le elezioni in un referendum sull’ex primo ministro, Justin Trudeau, la cui popolarità è diminuita verso la fine del suo decennio al potere a causa dell’aumento dei prezzi di cibo e case.
Secondo gli osservatori sul voto canadese hanno pesato le minacce di annessione e di guerra commerciale annunciate dal Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, che hanno alimentato un’ondata di nazionalismo negli elettori che ha aiutato i Liberali a ribaltare il risultato.
Carnery, ex governatore della Banca centrale canadese, ha infatti condotto la campagna elettorale all’insegna della forte opposizione ai dazi imposti dal
presidente americano e alle sue minacce di annessione del Paese.
Queste le sue prime parole dopo la vittoria: «L’America di Donald Trump ha tradito il Canada e i rapporti non saranno più gli stessi». Il primo ministro canadese Mark Carney ha usato parole durissime contro gli Usa, nel suo discorso per celebrare la vittoria dei liberali alle elezioni di ieri. «Il Canada – ha detto a Ottawa – non dovrà mai dimenticare il tradimento americano».
E ancora: «Il nostro vecchio rapporto con gli Stati Uniti è finito perché il presidente Trump sta cercando di spezzarci per possederci», ha scandito. Ora serve unità per i «mesi difficili che ci attendono e che richiederanno sacrifici», ha ammonito.
Nelle proiezioni dopo la chiusura dei seggi secondo la Canadian Broadcasting Corporation, l’emittente pubblica nazionale, i liberali otterranno la maggioranza relativa dei 343 seggi totali al Parlamento rispetto ai conservatori ma non è ancora chiaro se raggiungeranno la maggioranza assoluta, che consentirebbe loro di approvare le leggi senza bisogno di aiuto alleanza con partiti minori.
Intanto il leader del partito conservatore canadese Pierre Poilievre ha ammesso la sconfitta e ha promesso di lavorare con il governo liberale per contrastare Donald Trump.
(da agenzie)
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Aprile 29th, 2025 Riccardo Fucile
“LA RICETTA DA SEGUIRE È GIÀ STATA ILLUSTRATA DA DRAGHI NEL SUO RAPPORTO SULLA COMPETITIVITÀ. SCOPRIREMO SE LE SUE IDEE SONO STATE PORTATE AVANTI CON MAGGIORE EFFICACIA DA BRUXELLES E DA BERLINO, RISPETTO A COME HA FATTO PALAZZO CHIGI”
Bene, la geopolitica non ci solleverà il morale, a meno di considerare una forma di
intrattenimento il caos, le stupidaggini e i voltafaccia che stanno arrivando dall’Amministrazione Trump.
Il funerale del Papa e il conclave raccontano emozioni diverse, anche se – come scuse per guardare Ralph Fiennes e Stanley Tucci recitare in Conclave o, ancora meglio, il più divertente Habemus Papam di Nanni Moretti del 2011 – di fatto ci offrono qualche diversivo. Lasciate però che vi dia un sorprendente motivo di ottimismo, quanto meno parziale: l’economia.
Il motivo per essere ottimisti sull’economia europea, e quindi italiana, non riguarda il breve periodo. Quest’anno, le previsioni di crescita dei posti di lavoro e delle entrate sono misere, tenuto conto dell’impatto nell’immediato delle tariffe doganali di Donald Trump sulle nostre esportazioni, e tenuto conto anche della pervasiva sensazione di insicurezza che sta influenzando ovunque le decisioni di investire.
Con il governo tedesco che prevede che il 2025 rappresenterà il terzo anno consecutivo di recessione, l’Europa è priva di una “locomotiva” economica che ne traini la crescita nel continente. La prospettiva non è quella di un disastro, bensì di una stagnazione in gran parte dell’Europa e nella stessa Italia. Il Regno Unito si trova in una situazione simile
Se guardiamo oltre il 2025, però, possiamo avvistare alcuni segnali decisamente più luminosi. Il primo è la programmata espansione degli investimenti pubblici in Germania che il nuovo governo, che si insedierà subito dopo il 6 maggio, intende realizzare. La Germania è l’unica grande economia europea con un ampio margine per una sostanziale espansione fiscale, e lo ha grazie alla
parsimonia dei suoi governi passati.
Ora che il governo entrante ha rilasciato il “freno dell’indebitamento” che ha prodotto quella parsimonia, la sua pianificata spesa supplementare – perlopiù per la Difesa e le infrastrutture – di circa mille miliardi di euro nel giro dei prossimi dieci anni verosimilmente rappresenterà un aumento della domanda che gioverà a un’ampia varietà di Paesi, tra cui l’Italia settentrionale e centrale, dove molte aziende fanno parte delle catene di approvvigionamento della Germania. Si prevede che a questa espansione tedesca si accompagneranno nuovi meccanismi comuni di prestito per finanziare l’aumento delle spese per la Difesa da parte di tutti i membri Nato dell’Ue e anche da parte del Regno Unito, in base a un accordo UK-Ue per la Difesa la cui firma è attesa entro le prossime due settimane.
Gli analisti economici che guardano a un orizzonte di tre o quattro anni hanno il complesso compito di cercare di controbilanciare gli effetti negativi dei dazi americani con le altre forze note o probabili, oltre che con l’aumento della domanda derivante dalla spesa pubblica extra: l’ascesa dell’euro nei confronti del dollaro, che sta rendendo le esportazioni dell’Ue meno competitive; la possibilità concreta che le aziende europee riescano a guadagnare quote di mercato da quelle americane in Paesi come la Cina, dato che le loro merci non dovranno far fronte a dazi ritorsivi; il calo dei costi dell’energia dovuto alla diminuzione dei prezzi di petrolio e gas derivante dalla recessione americana; e, infine, l’impatto teoricamente negativo sui tassi di interesse a lungo termine prodotto dall’aumento del debito pubblico europeo.
Non c’è certezza sul risultato finale. Un punto cruciale da tenere bene a mente è che la spesa pubblica aggiuntiva rappresenta sì un’opportunità di rinascita economica, ma non rende inevitabile una rinascita prolungata. La prosperità sostenibile non si può creare semplicemente aumentando il debito pubblico: se così fosse, l’Italia sarebbe il Paese più ricco del pianeta. Un aumento del debito tedesco, unitamente a un nuovo ciclo di prestiti collettivi erogati dalla Commissione Europea, darà slancio sul breve periodo, ma potrà creare una
crescita a lungo termine soltanto se il denaro sarà utilizzato per migliorare efficienza e produttività, e se a ciò si accompagneranno riforme destinate a sostenere l’intero processo.
L’esperienza dell’Italia con i Recovery Fund dell’Ue per il PNRR lo illustra chiaramente. Gli oltre duecento miliardi di euro in sovvenzioni e prestiti dell’Ue in arrivo in Italia nel quinquennio che si concluderà con il 2026 sicuramente hanno sorretto la crescita economica. Nulla prova, però, che la spesa risultante abbia fatto una differenza significativa ai fini della capacità produttiva del Paese o del suo dinamismo. È probabile che il beneficio sarà temporaneo, non a lungo termine.
Ciò nonostante, l’Italia ha dato un contributo alquanto positivo al dibattito europeo sui prestiti collettivi. Il contributo italiano sta nella sua buona, seppur lenta, gestione dei fondi del PNRR, senza quel tipo di corruzione o di sprechi che alcuni scettici dell’Europa settentrionale avevano minacciato che ci sarebbero stati.
Essendo un piano finalizzato ad alimentare la crescita sul lungo periodo, il PNRR è una delusione, ma nel dibattito europeo conta come una rassicurazione. Mario Draghi prima e Giorgia Meloni adesso hanno fatto apparire meno rischiosi i prestiti collettivi europei, e questo rende più fattibile l’ulteriore utilizzo del debito dell’Ue.
La percezione internazionale della gestione dell’economia italiana da parte del governo Meloni è enigmaticamente contraddittoria: la buona notizia è che Meloni e il suo ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti hanno fatto molto poco per intervenire nell’economia. La cattiva notizia è la stessa: hanno fatto molto poco.
Il governo è stato prudente, abbastanza disciplinato e poco ambizioso, e questo atteggiamento ha fatto sì che restasse popolare presso l’elettorato e altresì nei mercati finanziari. Eppure, tutto questo significa che delle riforme strutturali promesse in connubio con il PNRR dal governo Draghi in ambito giudiziario, in quello della competitività e in quello dell’amministrazione pubblica ne sono
state concretizzate o portate avanti pochissime dal suo successore. I rischi sono stati ridotti, ma si è persa un’occasione.
Il grosso interrogativo per l’Europa – al di là della sfida immediata e cruciale del sostegno all’Ucraina, a fronte del tradimento americano e del perdurare dell’aggressione russa – è se riuscirà ad apprendere qualcosa dall’occasione perduta dell’Italia con il PNRR e a trasformare la prossima fase dell’espansione economica alimentata dal debito in una ripresa a lungo termine.
La ricetta da seguire è già stata illustrata all’Europa da Draghi nel suo importante rapporto sulla competitività dell’anno scorso per la Commissione Europea, nel quale si auspicava quel tipo di rilancio degli investimenti pubblici e privati adesso in arrivo. Scopriremo se le sue idee sono state portate avanti con maggiore efficacia da Bruxelles e da Berlino, rispetto a come ha fatto Palazzo Chigi. Se così sarà, per l’Europa un luminoso futuro economico potrebbe durare una generazione. In caso contrario, sarà solo per quattro o cinque anni, forse.
Bill Emmott
per “La Stampa
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Aprile 29th, 2025 Riccardo Fucile
COME IN UNA PIRAMIDE DI BICCHIERI LO CHAMPAGNE VERSATO IN CIMA “SGOCCIOLA” E RIEMPIE QUELLI SOTTO … PER PAPA FRANCESCO ERA UNA STRONZATA: “QUANDO È COLMO, IL BICCHIERE MAGICAMENTE S’INGRANDISCE, E COSÌ NON ESCE MAI NIENTE PER I POVERI”
Estratto da “Lo scisma americano”, di Nicolas Senèze (ed. Mondadori), pubblicato da “Anteprima. La spremuta di giornali di Giorgio Dell’Arti”
Papa Francesco, che nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium – discorso programmatico del suo pontificato – criticò senza giri di parole la famosa «teoria del gocciolamento», detta anche «della ricaduta favorevole».
Definita trickle down in inglese, tale teoria, che riprende l’immagine delle fontane di coppe di cristallo nei cui elementi superiori viene versato lo champagne che scorre di bicchiere in bicchiere fino a quelli collocati più in basso, sostiene che i redditi dei più ricchi vengono sempre reimmessi nell’economia per contribuire all’attività economica, cosicché sia la stessa economia a beneficiarne.
È la teoria cui si richiamano gli economisti della destra neoliberista, secondo cui, per far funzionare bene il sistema, bisogna che i ricchi, in proporzione, paghino meno tasse dei poveri.
Bergoglio fu durissimo. Definì la cosa «un’ingenuità»: «C’era la promessa che quando il bicchiere fosse stato pieno, sarebbe trasbordato e i poveri ne avrebbero beneficiato. Accade invece che quando è colmo, il bicchiere magicamente s’ingrandisce, e così non esce mai niente per i poveri». Una critica fortissima ai dogmi del neoliberismo americano. Nemmeno quelli di Occupy Wall Street erano mai arrivati a tanto.
(da agenzie)
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Aprile 29th, 2025 Riccardo Fucile
LA SCHIZOFRENICA POLITICA DI TRUMP, CAPACE DI CAMBIARE OPINIONE PIÙ VOLTE SULLO STESSO ARGOMENTO, HA SOLO SCOSSO I MERCATI: NEI PRIMI 100 GIORNI LE AZIONI HANNO SOLO SUBITO DANNI
Sembra improbabile che il presidente Donald Trump abbia letto molto Lenin, ma se
lo avesse fatto, avrebbe potuto imbattersi nella seguente osservazione: ci vogliono degli organizzatori per fare una rivoluzione.
Tra brusche sterzate, politiche improvvisate e comunicazione confusa ed esasperata è stata un’altra settimana di caos a Washington.
Se qualcuno sa cosa diavolo stia cercando di ottenere gli Stati Uniti sul commercio — e su molto altro — mi piacerebbe saperlo, perché, essendo venuto nella capitale americana sperando di ottenere qualche intuizione, sono rimasto altrettanto confuso
Quello che ora appare sempre più evidente, però, è che Trump è in una ritirata disordinata; sta facendo compromessi ovunque, tanto che, se il piano era quello di sovvertire l’ordine globale stabilito, si può quasi sicuramente affermare che, al di là della retorica, sia già tutto finito.
La mancanza totale di professionalità e organizzazione ha caratterizzato questo sforzo fin dall’inizio, e ora sta crollando a pezzi. Percependo un’amministrazione in fuga, nessuno ha più fretta di concludere un accordo commerciale con gli Stati Uniti. Dal Regno Unito al Canada e oltre, ottenere l’accordo giusto piuttosto che uno rapido è diventato il nuovo mantra.
Nel frattempo, Trump ha trasformato sé stesso — e gli Stati Uniti — in uno
zimbello internazionale, senza contare i danni che l’incertezza politica sta arrecando all’economia globale. Si potrebbe perdonare chi pensa che il caos sia diventato l’obiettivo stesso della politica.
Costretta a fare marcia indietro ripetutamente su richieste e ambizioni, la Casa Bianca appare goffa e ridicola.
Trump deve mostrare una sorta di “vittoria”, quindi senza dubbio qualcosa che possa sembrare tale sarà alla fine estratta dal caos, ma sarà qualcosa di puramente simbolico.
Ci sono stati due ritiri particolarmente significativi: primo, la sospensione dei dazi “reciproci” di fronte a un possibile crollo catastrofico dei mercati, e secondo, il tentativo — rapidamente abbandonato — di licenziare il presidente della Federal Reserve, Jerome Powell, quando i mercati sono andati nel panico.
In ogni caso, il prossimo vertice dei leader del G7 in Canada, previsto tra sei settimane, è visto come una possibile occasione per formare una “coalizione dei volenterosi” contro il bullismo di Trump.
Il grande inchino di Keir Starmer a Trump, nella speranza di un accordo rapido da “primo arrivato”, è stato praticamente abbandonato in favore di un approccio più deciso. Rachel Reeves, la cancelliera, ha finalmente avuto il coraggio di affermare l’ovvio: che una migliore relazione commerciale con l’Europa è più importante di quella con gli Stati Uniti.
Prendendo in prestito dal vocabolario di Trump, la Cina ha nel frattempo respinto come “fake news” le affermazioni secondo cui sarebbe vicina a un accordo con Washington, chiedendo agli Stati Uniti di annullare tutti i dazi unilaterali se vogliono negoziare.
Tutti i segnali indicano che gli Stati Uniti si stanno preparando ad allentare i dazi contro la Cina, con prove crescenti di gravi disagi nelle catene di approvvigionamento americane.
“Le guerre commerciali sono buone e facili da vincere”, aveva detto una volta Trump; nella pratica, si stanno rivelando né buone né facili.
Secondo Anthony Scaramucci, ex (e breve) direttore delle comunicazioni di
Trump, il modo corretto di interpretarlo è prenderlo sul serio ma non alla lettera. Ora stiamo imparando che dovrebbe essere il contrario: prenderlo alla lettera, ma non sul serio.
Le sue posizioni politiche cambiano con tale frequenza — spesso in modo drammatico — che è impossibile sapere cosa sia reale e cosa no. […] Sarebbe bello pensare che domani potremmo svegliarci e scoprire che è stato tutto un brutto sogno, ma purtroppo non è un incubo: la confusione sconcertante è del tutto reale.
Solo nell’ultima settimana, gli Stati Uniti sono passati dal minacciare dazi reciproci per isolare la Cina, a essere “gentili” con la Cina, a ridurre “sostanzialmente” i dazi imposti, e poi di nuovo a prevedere poche possibilità di un accordo imminente.
Questi cambiamenti sono stati inoltre annunciati in modi molto discutibili, facendo oscillare i mercati e suscitando sospetti di operazioni speculative.
Il picco di attività di trading originato da una riunione privata di JP Morgan con Scott Bessent, il segretario al tesoro americano, è stato così evidente che si poteva vedere fino a Marte.
Durante l’incontro, si dice che Bessent abbia detto agli hedge fund presenti che si aspettava una de-escalation dei dazi con la Cina, definendo insostenibile l’attuale situazione di stallo.
Dovremmo essere grati, suppongo, che dopo intense pressioni da parte dei maggiori esponenti di Wall Street e Main Street, Trump sembri aver ascoltato la voce della ragione, facendo marcia indietro su alcune delle sue posizioni più estreme.
Ma è nauseante pensare ai profitti realizzati da amici e insider grazie a questi cambiamenti repentini della politica. La situazione richiederebbe un’indagine completa del Congresso e della SEC (Securities and Exchange Commission), ma entrambe sono talmente piegate, intimorite e piene di lealisti trumpiani che è improbabile che ciò avvenga.
Nessuno sembra preoccuparsi, per quanto scandaloso possa sembrare
dall’esterno. Nel frattempo, l’incertezza grava come una nube su tutte le attività economiche, mentre aziende e consumatori rimangono in attesa, pronti a qualsiasi nuova sorpresa.
La grande forza moderatrice è Scott Bessent, che è emerso come una voce solida di ragione in un gabinetto di opportunisti e squilibrati. Lentamente ma inesorabilmente, il suo consiglio sembra prevalere. Ma finché Peter Navarro — consigliere senior per il commercio e la manifattura, e uno degli artefici delle guerre commerciali — rimarrà in carica, sarà difficile prendere Trump sul serio.
Non che ci siano molte possibilità che Navarro venga licenziato. Descritto da Elon Musk come “più stupido di un sacco di mattoni”, Navarro è considerato da Trump come un membro della famiglia, un lealista di tale devozione che si è persino detto disposto a finire in prigione pur di non testimoniare contro Trump riguardo agli attacchi a Capitol Hill del gennaio 2021.
(da Telegraph)
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Aprile 29th, 2025 Riccardo Fucile
L’ULTIMA PRESIDENTE LEGITTIMA DELLA REPUBBLICA GEORGIANA RACCONTA COME IL PARTITO FILORUSSO MANIPOLA LA DEMOCRAZIA
A poche ore dai funerali di Papa Francesco, Piazza San Pietro è ancora invasa dai turisti. I cardinali e i pochi capi di Stato ancora a Roma si raccolgono a Santa Maria Maggiore, davanti alla tomba del Pontefice. Di questi giorni rimarrà forse una sola immagine su tutte: Volodymyr Zelensky e Donald Trump, seduti uno di fronte all’altro, su due sedie spoglie, nella grande basilica vaticana. Tra i leader europei in questi giorni a Roma c’è anche Salomé Zourabichvili, l’ultima presidente legittima della Georgia, che porta addosso la battaglia di chi non ha più un palazzo, ma ha ancora un popolo.
Il partito Sogno Georgiano, rimasto al potere dopo elezioni contestate per irregolarità, ha imposto l’elezione di un nuovo presidente. Un passaggio che ampi settori della popolazione non riconoscono come legittimo per le irregolarità delle elezioni politiche. Salomé Zourabichvili vive una situazione istituzionale senza precedenti: priva di incarichi ufficiali, rappresenta il volto della resistenza democratica, raccogliendo le opposizioni in una piattaforma politica per cercare di indire nuove elezioni, questa volta regolari. La incontriamo in un hotel di Via Veneto, subito dopo aver partecipato alla messa nella Chiesa ortodossa di San Salvatore ai Monti; una funzione raccolta tra i suoi connazionali.
Presidente, cosa è emerso dai dialoghi informali che ha avuto in questi giorni
con i leader di tutto il mondo riuniti qui a Roma? Ha percepito attenzione, preoccupazione o disinteresse per la situazione della Georgia?
Il funerale di Papa Francesco è stato un momento importante e altamente simbolico. Il fatto che sia stato anche un’occasione per fare passi avanti sulla questione ucraina è forse l’aspetto più rilevante. Personalmente non avevo un messaggio urgente da portare ai leader mondiali: il centro dell’attenzione è stato giustamente su Zelensky. Personalmente ho avuto contatti soprattutto con il presidente Emmanuel Macron e con altri capi di Stato, ma per Zelensky si trattava di una sfida diversa: riuscire a cambiare il tono rispetto all’incontro di Washington e affermare una propria linea, più autonoma, in questo consesso informale. Credo che ci sia riuscito.
E lei ha raggiunto il suo?
La Georgia, purtroppo, non era una priorità per i leader riuniti. Ed è questo uno dei problemi principali che affrontiamo oggi: il mondo è travolto da emergenze continue — dall’Ucraina, al Medio Oriente, ai rapporti con gli Stati Uniti — e la questione georgiana rischia di perdersi tra queste urgenze. È proprio per questo che, oltre agli incontri ufficiali, sono importanti anche le interviste e la comunicazione con l’opinione pubblica: se i cittadini europei non conoscono la nostra situazione, sarà ancora più difficile mobilitare l’attenzione dei loro governi.
E allora parliamone partendo da come sta vivendo questo intervallo di proteste tra due date simboliche: il 26 ottobre 2024, il giorno delle elezioni irregolari in Georgia che hanno confermato al potere Sogno Georgiano e il 26 maggio 2025, ovvero l’anniversario dell’indipendenza, quando tutto il mondo tornerà a parlare di Georgia, almeno per un po’. Mantenere alta l’attenzione non è facile.
È una vera sfida. È normale che una popolazione non possa protestare con la stessa intensità per sei mesi consecutivi, ovvero da quando sono state indette le elezioni o da cinque mesi dal momento in cui il Primo Ministro ha dichiarato di voler interrompere il percorso di integrazione europea. Ma, a dire il vero, i georgiani protestano da due anni, da quando nel 2023 fu introdotta la prima legge filorussa. Da allora, non si sono mai realmente fermati, salvo brevi pause
Percepisce una certa stanchezza all’interno della coalizione della Piattaforma della resistenza, e dei manifestanti che protestano da mesi in via Rustaveli?
Sì, è vero: le persone sono stanche, noi siamo stanchi. È umano. Ma allo stesso tempo c’è un grande spirito di determinazione e resilienza nel popolo georgiano. Siamo ambiziosi: per consolarci ci diciamo che, se siamo sopravvissuti per ventisei secoli, sopravviveremo anche a questo periodo. Anche il regime soffre: non si può governare un paese in stato di paralisi per sei mesi senza subire conseguenze.
Da cosa lo deduce?
Da persone insospettabili che stanno abbandonando la barca, cambiando posizione. Due giorni fa, Irakli Garibashvili, un ex primo ministro — persona molto vicina al leader e fondatore di Sogno Georgiano, Bidzina Ivanishvili — si è ritirato dalla politica senza spiegazioni. Sono segnali che anche all’interno del regime ci sono crepe. La situazione è un vero stallo: anche loro sono stanchi, anche loro stanno subendo le sanzioni — nonostante non siano enormi — che pesano su un paese piccolo e privo di risorse alternative. L’isolamento è un problema. Cercano di compensare costruendo legami con altri paesi, come la Cina o alcuni Stati del Medio Oriente, arrivando perfino ad aprire le frontiere a cittadini di diciassette paesi che, paradossalmente, non sarebbero accolti neanche in Europa. Un modo alquanto discutibile per compensare la crescente emarginazione europea. Tutto ciò dimostra che non sono sicuri della loro posizione e cercano alternative.
Come si evolverà questo stallo?
Nessuno lo sa con certezza. Ma quello che so è che le proteste continueranno “fino alla fine”, come recita il motto ufficiale delle manifestazioni. L’opposizione, pur divisa, si sta unendo sempre di più: ora esiste una piattaforma di resistenza che coordina le azioni (creata su impulso di Zourabichvili, ndr). Non è perfetta, ma è un progresso. E, soprattutto, non c’è possibilità di tornare indietro: per la società civile, i giornalisti e i partiti di opposizione, la repressione è talmente pervasiva che fermarsi significherebbe
non avere più nulla. Ormai siamo impegnati in questa lotta a lungo termine.
Vista la situazione di stallo, l’inazione del governo e la forte dipendenza dal sostegno internazionale, ha paura che nei prossimi mesi potremmo assistere a uno scenario simile a quello ucraino anche in Georgia?
No, in realtà temo il contrario. Quello che mi preoccupa è di vedere un “scenario georgiano” in Ucraina. Oggi la Russia ha capito che non serve più vincere sui paesi con le armi: l’intervento militare in Georgia nel 2008 non ha funzionato; in Ucraina, nonostante l’enorme tragedia, non ha portato ai risultati sperati. Ora stanno sperimentando in Georgia un’alternativa: come conquistare un paese sovrano non con i carri armati, ma manipolando le elezioni, diffondendo propaganda, utilizzando tecnologie informatiche e strumenti di influenza sofisticati. L’obiettivo è eleggere governi fantoccio attraverso queste manipolazioni, e attraverso di loro, prendere il controllo del paese. Questo è il processo in corso: non hanno ancora vinto perché noi stiamo resistendo. Ma se dovesse funzionare, potremmo vedere la stessa strategia applicata presto anche in Moldova. Ed è uno scenario che Putin propone apertamente anche per l’Ucraina, parlando della necessità di “elezioni democratiche” — ma sotto condizionamento esterno.
Oggi la battaglia politica in Georgia sembra giocarsi su una scacchiera truccata: come si può condurre una lotta democratica contro un regime che manipola strumenti democratici, usandoli contro gli oppositori?
Purtroppo è la stessa sfida che affrontano tutte le democrazie quando si trovano di fronte a regimi autoritari: tu sei vincolato dalle regole della democrazia, loro no. La stessa Unione europea affronta un problema simile nei confronti della Russia di Putin.
È possibile trovare un equilibrio in una partita così profondamente asimmetrica?
Non esiste una formula magica. Ogni giorno cerchiamo di trovare la nostra strada per resistere, ma è una battaglia impari. Il regime ha a disposizione ogni mezzo: la forza, la violenza, leggi illegali che applicano a piacimento, un
sistema giudiziario totalmente asservito, il controllo della maggior parte dei media. E naturalmente l’economia e il denaro, che alimentano e rinforzano tutto questo sistema.
Lei ha affermato che l’Ue è stata troppo passiva riguardo alla situazione georgiana. Cosa dovrebbero fare concretamente l’Unione Europea e gli Stati Uniti per aiutare a superare questo stallo illiberale? Bastano le sanzioni?
Innanzitutto direi che gli americani sono stati meno passivi degli europei. Anche se la nuova amministrazione statunitense non ha ancora espresso pubblicamente una linea politica chiara, una politica americana esiste ed è stata tradotta nel “Friendship Act”, attualmente in discussione al Congresso. Il Comitato di Helsinki è stato molto attivo e sono state adottate sanzioni da parte degli Stati Uniti che risultano tra le più efficaci, perché rientrano nella lista Magnitsky. Tutti sanno quanto siano pesanti quelle sanzioni. Sul versante europeo, invece, l’azione è stata molto più debole.
Perché secondo lei?
Il motivo ufficiale è che paesi come l’Ungheria bloccano con il loro veto al Consiglio europeo il consenso unanime necessario per adottare nuove sanzioni. Ma questo non basta a spiegare la passività. Quello che manca da parte delle istituzioni europee — non parlo dei singoli Stati, alcuni dei quali sono stati molto attivi e di grande sostegno — è una posizione chiara sulla Georgia. L’Unione Europea non ha mai espresso un giudizio complessivo su quanto accaduto negli ultimi due anni. Ci sono dichiarazioni isolate, di singoli rappresentanti, che condannano una legge o un provvedimento.
Cosa dovrebbe fare l’Ue?
Assumere una presa di posizione collettiva: manca il riconoscimento ufficiale del fatto che un Paese che aveva ottenuto lo status di candidato all’adesione meno di un anno e mezzo fa sta, in modo sistematico e determinato, andando contro tutti i principi fondamentali dell’Unione Europea — contro le sue leggi, i suoi valori, la sua stessa retorica. Non c’è una sola decisione presa dal governo georgiano che sarebbe oggi compatibile con i criteri europei. E allora si pone un
problema di credibilità per l’Unione Europea: se non prende posizione, se non dice chiaramente cosa sta succedendo e che ciò è inaccettabile, rischia di perdere la sua autorevolezza. Non si tratta tanto di azioni o strumenti, ma di una questione politica: serve una posizione chiara.
Una parte del problema però è anche il governo attuale di Sogno Georgiano che ha deciso di non comunicare con l’Ue.
Sì, per fine interno, le autorità georgiane accusano l’Europa di punire la Georgia ingiustamente, solo perché il paese sarebbe “troppo patriottico”. Ovviamente mi viene da sorridere quando sento certe affermazioni — e non sono l’unica —, ma il problema è che, ripetendo queste accuse all’infinito, esse rischiano di entrare nella propaganda e di attecchire.
I sondaggi mostrano che circa l’ottanta per cento dei georgiani è favorevole all’ingresso nell’Unione Europea. Eppure, nonostante il governo abbia truccato le elezioni e assunto posizioni apertamente anti-europee, esiste ancora una parte della popolazione che continua a sostenerlo. Come si spiega questa contraddizione? E come si può convincere anche quella parte del paese?
Credo che anche tra gli elettori che oggi sostengono il governo ci siano molti europeisti. È importante capire che nelle regioni, soprattutto quelle più rurali, i principali progressi economici e sociali sono arrivati grazie ai programmi americani — come Usaid — e ai progetti finanziati dall’Unione Europea. Le persone hanno visto miglioramenti concreti nella loro vita quotidiana: standard di vita più elevati, nuove infrastrutture, modernizzazione. Non c’è quindi una frattura netta tra le città e le campagne, come a volte si pensa dall’esterno.
Quindi anche nelle zone rurali della Georgia c’è una domanda forte di Europa come nella capitale? E anche tra chi ha vissuto prima dell’indipendenza, ai tempi dell’Urss?
Assolutamente. Oggi, per esempio, alla Chiesa georgiana di Roma, ho incontrato donne provenienti da ogni angolo della Georgia, non solo dalle grandi città. Loro sono qui per lavorare, per aiutare le loro famiglie, ma il loro sogno è che la Georgia si sviluppi abbastanza da poterci tornare un giorno.
Anche tra i sostenitori rimasti di “Sogno Georgiano” — quelli che non avranno abbandonato il partito dopo il 28 novembre — esiste ancora una forte aspirazione europea.
Da mesi vive una situazione istituzionale senza precedenti: formalmente il Parlamento — considerato illegittimo da ampi settori della popolazione — ha eletto il suo successore. Eppure, agli occhi della maggioranza dei cittadini, lei continua a essere la vera Presidente. Come vive il paradosso di essere la Presidente nella legittimità popolare, ma non più in carica a causa di un parlamento eletto in modo irregolare?
Devo quasi ringraziare il regime per la scelta che ha fatto con il nuovo presidente “de facto”: una figura talmente inconsistente, sia dal punto di vista personale sia politico, che non rappresenta alcuna concorrenza per me. Continuo a mantenere contatti a livello internazionale: certo, rispetto al passato, scegliere le parole giuste e gestire le sfumature diplomatiche è diventato più complesso. Ma il dialogo resta aperto. E soprattutto, nella popolazione, io continuo a essere riconosciuta come la Presidente. Oggi, ad esempio, nella Chiesa georgiana a Roma, non c’è stata una sola persona che non sia venuta a salutarmi come tale. È su questa fiducia popolare che possiamo continuare a costruire.
Teme per la sua vita?
Con i russi non si può mai sapere. Gli agenti russi operano attivamente in Georgia, muovendo i fili della destabilizzazione. È chiaro che, come figura politica capace di raccogliere consenso e coalizzare l’opposizione, rappresento per loro un ostacolo importante. Non posso dire di aver ricevuto minacce dirette, ma purtroppo, in questi casi, mai dire mai.
(da Linkiesta)
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