A CONFINDUSTRIA NON PIACE L’IMPIANTO DEL RECOVERY PLAN PROPOSTO DAL GOVERNO
NON AVEVAMO DUBBI, ALTRIMENTI NON CI SAREBBE STATA LA CRISI DI GOVERNO
Confindustria affonda il colpo: “Il piano non è conforme alle linee guida di Bruxelles, bisogna fare le riforme strutturali”. E poi un’altra spina nel fianco: non si può sfuggire dalla questione della governance, di chi cioè gestirà i soldi. Tema delicatissimo, che ha aperto la querelle con i renziani, e che il premier ha rinviato a data da destinarsi.
Nella lunga lista delle cose che non vanno di Confindustria, quella principale è lo scollamento tra la direzione che la Commissione europea ha indicato venerdì, con le nuove linee guida, e quella del piano italiano messo a punto negli scorsi giorni.
Scrive l’associazione degli industriali di viale dell’Astronomia: “Le riforme strutturali devono essere quelle indicate da anni nelle raccomandazioni periodiche all’Italia, quindi prima di tutto quelle del mercato del lavoro, della Pa e della giustizia e ogni intervento va progettato seguendo questa metodologia”.
Quindi vanno bene le sei missioni contenute nel Recovery plan, va bene anche un dettaglio maggiore di come i soldi saranno spesi, ma – è il ragionamento – tutto si tiene e tutto ha senso solo se si fanno quelle riforme che Bruxelles raccomanda all’Italia da anni. E che non sono mai state fatte. Un concetto che qualche minuto dopo l’incontro con Bonomi, ribadisce anche il presidente di Confapi Maurizio Casasco: “Prima le riforme, poi i soldi”, aggiungendo alla lista di Confindustria un’altra riforma organica e altrettanto spinosa, quella delle pensioni.
Perchè la partita sul Recovery si è complicata per Conte lo spiega bene questo punto. Per due ragioni. La prima: lo stato dell’arte del Governo. Già si fa fatica a tenere blindato il decreto Ristori 5, figurarsi mettere in cantiere le riforme strutturali.
La seconda, che si collega alla prima: mettere mano ai temi come la flessibilità nel mondo del lavoro o all’assetto del lavoro degli statali significa andare a toccare interessi, questioni molto più ampie. Soprattutto bisogna godere di un consenso molto ampio quando si passa dalle parole ai fatti.
Ora l’Europa dice che queste riforme vanno fatte, aggiungendo una condizione che questa volta non può essere elusa dall’Italia: niente riforme, niente soldi.
L’Italia, come tutti gli altri Paesi, deve indicare quali riforme intende fare per garantire l’attuazione del Recovery plan. E deve anche spiegare come intende superare quegli ostacoli che negli ultimi anni sono state indicate come le cause che hanno reso impossibile la messa a terra di queste riforme.
Ma la questione delle riforme non è la sola che complica le cose per Conte. C’è – come si diceva – il tema della governance.
L’ultima bozza del piano italiano cancella la task force dei tecnici e il triumvirato Conte-Patuanelli-Gualtieri, rimanda alla fase due del Recovery, quella del confronto con le parti sociali e con il Parlamento.
Ma il tentativo, fallito, del premier di sminare la questione per firmare la tregua con i renziani, si è trasformata in un boomerang. Sempre Confindustria: La governance “non è ancora delineate e a nostro avviso dovrebbe prevedere modalità di confronto strutturato e continuativo con le parti sociali e un loro coinvolgimento lungo tutto il processo di esecuzione dei progetti”.
Tradotto: va bene il disegno generale, ok anche alla ripartizione dei soldi, ma quando i progetti diventeranno veri, quando cioè dovranno essere eseguiti, allora anche le imprese dovranno sedere nella stanza dei bottoni.
La lista delle critiche delle imprese si allunga con l’indicazione di merito sulla stima degli obiettivi in relazione all’occupazione. La domanda a cui il Governo deve rispondere è: che effetto avranno i contenuti del Recovery plan in termini di ripresa, spinta alle imprese, posti di lavoro?.
Per Confindustria, questa fetta importante della strategia manca. E invece serve. Il rischio – viene spiegato – è che “ogni valutazione rischia di ridursi ad una mera somma di richieste, in nome dei diversi interessi economici e sociali”. E poi ancora un affondo sul capitolo infrastrutture, con “il gap” dei 35 decreti attuativi non ancora emanati e i “ripetuti interventi” del decreto Semplificazioni. In altre parole: la burocrazia statale che blocca i cantieri.
Ma se il Recovery impatta su una progettualità di medio-lungo periodo, ci sono questioni che traggono origine da questa discussione e che sono più impellenti. Anche con queste Conte dovrà fare i conti molto presto. Il 31 marzo termina il blocco dei licenziamenti, si apre la grande questione delle dinamiche del mondo del lavoro, il rischio di una questione sociale, oltre che puramente economica. Oltre alla misura contingente (il Governo valuta una proroga dello stop ma solo per le categorie più a rischio), c’è da capire come reggere l’urto, a maggior ragione se le restrizioni anti Covid dovessero proseguire per ragioni di salute.
Confindustria ricorda che da tempo bisognava pensare a una riforma degli ammortizzatori sociali e a una sulle politiche attive del lavoro. L’esecutivo è a lavoro, ma entrambe non prendono forma. Anche perchè si tirano dietro problemi che sono anche politici: dal consenso con Cgil, Cisl e Uil a quella dei navigator.
Il fianco debole per Conte è quello: la necessità di calare riforme strutturali in un contesto, ancora, di emergenza. Politica, prima ancora di quella che sta attraversando il Paese a causa del virus.
(da “Huffingtonpost”)
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