ANCHE LA PIRELLI LASCIA L’ITALIA
ITALIA TERRA DI CONQUISTA: DALLE TELECOMUNICAZIONI ALL’ALIMENTARE, DALLA MODA ALLA SIDERURGIA
Pirelli è solo l’ultimo anello di una catena senza fine. Quella che lega le aziende simbolo nel made in Italy che lentamente stanno lasciando il Paese preda di investitori internazionale.
D’altra parte il trend è chiaro: nel 2014 gli Ide (Investimenti diretti esteri) in entrata in Italia ammontavano a 281,3 miliardi di euro con una crescita del 3,5% rispetto all’anno precendente. Nessun altro ha fatto meglio.
Peccato che come osservano gli analisti si tratta soprattutto di shopping internazionale: di aziende o fondi che comprano società italiane.
Operazioni a 360 gradi che coinvolgono ogni settore industriale: dalla moda all’alimentare, dalle tlc all’energia fino all’industria pesante.
La Pirelli, diventata cinese, oggi dice addio a Piazza Affari: è solo l’ultimo caso a dimostrazione di una generale disaffezione delle società nei confronti del listino milanese.
Ferrari ha scelto Wall Street per il suo collocamento, mentre Prada ha preferito Hong Kong e lo scorso due aprile Gtech, l’ex Lottomatica, ha traslocato da Milano a New York.
Dal punto di vista industriale, quest’anno l’Italia è già stata terra di conquista sul fronte delle telecomunicazioni: il controllo di Telecom è passato dagli spagnoli di Telefonica ai francesi di Vivendi, mentre in questi giorni l’imprenditore transalpino Xavier Niel ha annunciato di avere azioni e derivati per un altro 15% del capitale.
Del resto delle tlc italiane non resta più nulla: Vodafone ha rilevato l’ex Omnitel, passata prima tedesca poi inglese; Wind dal 2005 è uscita dal perimetro dell’Enel per passare al magnate egiziano Naguib Sawiris e poi ai russi di Vimpelcom nel 2011 (poche settimane fa è stato raggiunto l’accordo per la fusione con 3 Italia del gruppo H3g).
Ma sotto il controllo straniero sono finite anche altri colossi come Edison, controllata dai francesi di Edf da un decennio, e il gruppo Italcementi della famiglia Pesenti che è stato ceduto ai tedeschi di Heidelberg.
La stessa Alitalia dalla privatizzazione a oggi ha cambiato più volte bandiera: l’ultima è quella degli Emirati Arabi attraverso Ethiad.
Un anno fa era stata Indesit a salutare l’Italia con la cessione da parte dei Merloni agli americani di Whirlpool.
Ducati e la Lamborghini fanno da tempo del gruppo Volkswagen. Insomma mentre l’Italia resta una terra a fortissima attrazione per gli investitori internazionali, il percorso inverso è sempre più complicato e le imprese nostrane capaci di andare a fare shopping all’estero sono sempre meno.
L’unico caso di internazionalizzazione recente è Fiat con Chrysler e Cnh, ma che ha comportato il trasferimento delle sedi da Torino ad Amsterdam e Londra.
E se di fronte ad acquisizioni “pesanti” la spiegazione più ricorrente è quella del nanismo, altre “migrazioni” all’estero di marchi trovano una spiegazione solo nella mancanza di una politica industriale inesistente o incapace di supportare le aziende in alcuni momenti difficile come il cambio generazionale e la competizione sempre più agguerrita dovuta alla globalizzazione.
Così, al di là della semplice volontà di alcuni imprenditori di far cassa, dalla moda all’alimentare, l’Italia ha assistito alla cessione di Grom alla multinazionale olanedese Unilever.
Lo scorso anno era stata la pasta Garofalo che aveva annunciato l’ingresso nel capitale con una quota del 52% degli spagnoli di Ebro, multinazionale che opera nei settori del riso, della pasta e dei condimenti, quotato alla Borsa di Madrid: un investimento da “appena” 62 milioni di euro che seguiva quello da 18 milioni con cui nel 2013 avevano rilevato il 25% della Riso Scotti di Pavia (la famiglia italiana, però, ha mantenuto la maggioranza con il 75% del capitale).
Parmalat è stata acquisita dai francesi di Lactalis.
Prima ancora, la stessa sorte era toccata ai Baci Perugina e alla Star.
Poi i grandi della moda: Versace è stato l’ultimo dopo Krizia.
Loro Piana è passata ai francesi di Lvmh con Bulgari e la pasticceria Cova. Perfino Luca Cordero di Montezemolo, che ambiva a un ruolo di ambasciatore del made in Italy all’estero e a creare un polo del lusso col suo fondo Charme, si è rivelato un imprenditore del mordi e fuggi e ha ceduto Poltona Frau agli americani di Haworth.
Rimane solo l’incapacità del Paese di fare sistema, di portare avanti una politica industriale che favorisca la creazione di campioni nazionali e internazionali o di difendere distretti capaci di crescere e competere, ma spesso abbandonati a se stessi. L’Italia resta così condannata al nanismo industriale, nonostante la presenza di eccellenze che il mondo invidia.
Giuliano Balestreri e Raffaele Ricciardi
(da “La Repubblica”)
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