GIORGIA E I PARENTI SERPENTI
LA POLITICA DA PALCOSCENICO PER I GONZI
Berlusconi faceva cucù ad Angela Merkel, Meloni fa marameo a Ursula Von der Leyen. Eccomi qua, sono ricomparsa e la situazione è eccellente, cinguetta la Sorella d’Italia dopo le ferie d’agosto. Ma non vi fate ingannare dai video-spot di regime o dalle parole scritte sull’acqua dall’ufficio stampa di Palazzo Chigi: quella è propaganda “for dummies”, apostolato per gonzi, politica da palcoscenico, secondo la formula perfetta di Richard Sennett nell’era dei fascio-populismi.
Purtroppo non è vero che la situazione è eccellente e che l’Italia può contare sulla sua “rinnovata autorevolezza e affidabilità nello scenario globale”, come recita il comunicato con il quale i patrioti ribadiscono “l’unità della coalizione” e sanciscono la “totale sintonia su tutti i dossier”. A ricucire lo strappo con l’Europa non servono le rassicurazioni farlocche di Manfred Weber, che ormai rappresenta solo un ramo cadetto della famiglia dei popolari del Continente.
E alla premier non basterà nemmeno sacrificare Raffaele Fitto sull’altare della nuova Commissione Ue, trasferendo da Roma a Bruxelles uno dei due-tre ministri almeno dignitosi di questo governo di cognati, camerati e miracolati. A confermare l’ambiguità e l’insostenibilità della posizione italiana nell’Unione basterebbe il giallo del “contro-comunicato” diramato e poi rimangiato dalla Lega, nel quale la “linea condivisa” tra gli alleati sulla crisi in Medioriente e sulla guerra in Ucraina viene accompagnata da una postilla al veleno: “con appoggio a Kiev ma contrari a ogni ipotesi di interventi militari fuori dai confini ucraini”. Un preambolo “para-pacifista”, sul quale si era già consumato uno strappo tra i partner comunitari. Legittimo, ci mancherebbe, se riflettesse i dubbi sacrosanti legati ai paletti dell’articolo 11 della nostra Costituzione. Ma a patto che si inquadrasse almeno in una più articolata e credibile proposta di exit-strategy da parte italiana. Non è così, e dunque quella sghemba posizione leghista fa solo danni al Paese: cozza clamorosamente con quella degli altri 25 Stati membri, coincide casualmente con quella dell’Ungheria di Orban e manda ulteriormente in tilt l’ultra-atlantismo meloniano. Lo capiscono persino gli sgarrupati cocchieri del Carroccio, e cassano subito la frase galeotta. Ma la toppa è peggiore del buco, perché lascia comunque scoperta la solita vena russofila di Capitan Salvini. Lui la nasconde come può, ma quella non smette mai di pulsare: vicino al cuore selvaggio dello Zar Putin, già compagno di merende ai bei tempi dell’Hotel Metropol.
Meloni ne è consapevole. Non si spiega altrimenti perché abbia voluto far trapelare l’augurio che “su alcuni punti specifici, com’è la politica estera, si possano superare quegli steccati di parte”. Se ci sono “steccati” che danneggiano il Paese, in politica estera e soprattutto in politica interna, li tira su solo lei, insieme ai suoi parenti-serpenti. E tanto per ricordarcelo, riaccenna alle congiure giudo-pluto-massoniche che le forze del male ordiscono contro di lei. Evoca i “molti” ma ignoti “italiani che tifano contro un ruolo adeguato della nostra nazione”. Allude alle tante ma arcane “teorie che si raccontano ogni giorno per minare la nostra compattezza”. Contesta le misteriose trame dell’opposizione, colpevole di fare il suo mestiere, cioè cercare “ogni escamotage per divaricarci”.
A quattro settimane dal glorioso 25 settembre, secondo anniversario della sua vittoria elettorale, la Donna Sola Al Comando non ha niente da opporre ai tecnocrati europei, ai quali aveva giurato “adesso finisce la pacchia”, né molto da offrire agli italiani, ai quali aveva promesso “ora comincia la festa”. Turiamoci il naso di fronte ai liquami che sgorgano copiosi dal passato che non passa: i silenzi assordanti sulle ricorrenze repubblicane; le sortite fuorvianti sulle stragi nere degli Anni Settanta; i soldi della Fondazione An devoluti al sacrario missino di Acca Larentia, agli squadristi di Forza Nuova, ai deliranti suprematisti no-vax; i raduni scandalosi della “meglio gioventù” che inneggia al Duce e odia gli ebrei (a proposito, si hanno più notizie sulla “cacciata dal partito” delle responsabili Elisa Segnini e Flaminia Pace?). E mettiamo pure da parte la mediocrità della squadra ministeriale: Santanchè che non molla il Turismo seduta sul banco degli imputati per falso in bilancio, Delmastro che ironizza sulla tragedia delle carceri dall’alto del suo processo per rivelazione di segreto, Nordio che si traveste da Previti, Sangiuliano che gioca a Boccia, Lollobrigida che fa Lollobrigida.
Anche stavolta il vero inciampo di Meloni si chiama economia. Turiamoci le orecchie di fronte al tripudio di tromboni che accompagna i record dell’export e lo zerovirgola in più sull’occupazione (non trascurabile ma ingannevole, visto che il nuovo lavoro è quasi tutto povero e precario). E poi commentiamola tutta, la congiuntura, e non solo quella che fa comodo al Palazzo: cosa dicono i nostri eroi sul carrello della spesa che continua ad aumentare e sul fatturato dell’industria che continua a crollare? Nella manovra d’autunno non ci sono più bonus settoriali da distribuire né prebende corporative da prorogare. Senza tagli lineari sostitutivi – compresi quelli sull’assegno unico – in cassa non c’è un centesimo per finanziare le chimere già smerciate dai queruli spacciatori di sogni della coalizione: quota 41 e pensioni minime a 600 euro, bonus mamme alle lavoratrici autonome e forfait al 15 per cento per tutte le partite Iva. Il governo deve trovare i 18 miliardi che servono a coprire l’intervento sulle aliquote Irpef e il taglio del cuneo fiscale, con i limiti di reddito che sappiamo.
Tutto il resto è paranoia. Il nuovo Patto di Stabilità obbliga l’Italia a un aggiustamento supplementare di bilancio pari allo 0,6 per cento del Pil, cioè circa 12 miliardi all’anno per i prossimi sette anni. E qui, di nuovo, si ripropone il tema del “dream team” meloniano. Noi non ce n’eravamo accorti, ma il Tesoro è in mano a due gemelli. C’è Giorgetti, che il 20 dicembre, dopo l’accordo all’Ecofin sul nuovo Patto diceva “l’Italia ha ottenuto molto, un accordo sostenibile e realistico che guarda agli investimenti del Pnrr con spirito costruttivo”. E poi c’è Giancarlo, che la settimana scorsa al Meeting di Cl a Rimini ha bocciato sia il Patto che “è di breve e corto respiro”, sia il Pnrr che ricorda “i piani quinquennali sovietici”. A parte la surrealtà di queste elucubrazioni postume, non sappiamo a quale dei due gemelli dobbiamo credere. E soprattutto temiamo che non lo sappia la Ue. La “missione Fitto” – per quanto lasci una voragine aperta a Roma, dove abbiamo speso solo il 27 per cento dei fondi del Piano – può aiutare a mantenere un canale aperto con Palais Berlaymont. Ma a condizione che, nella sua infinita clemenza, Von der Leyen gli dia un portafoglio di peso. E l’aria non è quella: basta parlare con qualche europarlamentare serio, per sapere che a luglio sono stati proprio i popolari, i socialisti e i liberali a concordare il veto all’ingresso dell’Underdog della Garbatella nella maggioranza Ursula, e ora ad esigere che ne paghi le conseguenze.
Non sarà un autunno sereno, per Meloni e per la sua rancorosa compagnia di giro. Se a quello dell’economia aggiungiamo il capitolo delle riforme, lo scenario è ancora più fosco. Il Premierato risulta spiaggiato davanti alla Masseria Beneficio. E sull’Autonomia Differenziata monta dal basso un dissenso sempre più forte che, come dimostra la raccolta-record delle firme per il referendum, coinvolge società civile, amministratori del Nord, e ora anche la Chiesa. Il paradosso è che le destre, invece di fermarsi a ragionare, radicalizzano i conflitti. Come volevasi dimostrare il pio Tajani, estremista di centro da Canottieri Aniene, ha già sotterrato l’ascia di guerra dello Ius Scholae. Così hanno campo libero sia la fratellanza meloniana sia la Lega salviniana, trasfigurata ormai in un “franchising di estremismi” (copyright Flavia Perina) che spinge persino miti governatori come Zaia e Fontana a vestire la mimetica di Vannacci. Comici spaventati guerrieri. E divisi alla méta, se solo sapessero qual è.
(da La Repubblica)
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