IL D-DAY DELLA PITONESSA CHE IMBARAZZA I SOVRANISTI
ADDIO “DIGNITA’ E ONORE” CHE DOVREBBERO CARATTERIZZARE GLI INCARICHI PUBBLICI
Bisognerebbe ricordarsi i tumulti d’aula nel giorno di Ruby nipote di Mubarak o durante la replica di Claudio Scajola sulla casa al Colosseo per comprendere con esattezza il senso e il tempo del D-Day di Daniela Santanchè.
Ieri al Senato niente zuffe, né eccessi verbali, né risate, né ovazioni, da nessuna delle parti. E quel che emerge è un tempo e un senso diluito, lasco, perché tutti sanno che il caso fisserà un paletto in materia di accuse, ministri, inchieste sui ministri, e soprattutto stabilirà a che altezza collocare l’asticella etica di questo nuovo governo dove comanda la destra legalitaria di Giorgia Meloni e il vecchio mondo berlusconiano capace di difendere l’indifendibile e ammettere l’inammissibile è oggettivamente in ritirata. Dove piazzarla questa asticella?
La sfortuna della ministra Santanchè è di essere protagonista del caso che darà risposta alla domanda, quello che “farà precedente” e diventerà pietra di paragone di ogni futuro inciampo dei colleghi. Per questo il giorno delle risposte e delle accuse risulterà, alla fine, una storia lasciata in sospeso dove ciascuno recita il suo ruolo in attesa degli eventi giudiziari e politici delle prossime ore e, soprattutto, della soluzione del problema dell’asticella.
La questione è ben presente agli alleati della premier, e non a caso il capogruppo della Lega Massimiliano Romeo ha associato il caso del giorno al vecchio scandalo Metropol che colpì Matteo Salvini, rubricando entrambi come “accuse mediatiche” che non avrebbero meritato nemmeno una risposta perché “non può essere una trasmissione giornalistica a imporre a un ministro di dare spiegazioni in aula”.
Forza Italia, figuriamoci. La sua dimestichezza con le “campagne d’odio” (espressione recuperata dalla ministra e citata più volte) architettate dai nemici è nota, ed era ovvio recuperare il concetto in questa occasione. E tuttavia ognuno dei protagonisti della scena sa che questo governo non potrà adagiarsi su un illimitato perdonismo.
La dura reprimenda di Gennaro Sangiuliano per l’incontinenza verbale del suo sottosegretario Vittorio Sgarbi, peraltro assai più prevedibile e forse innocua della vicenda Santanché, ha destato già qualche sobbalzo e suscitato interrogativi sul livello di tolleranza del nuovo centrodestra a guida Meloni rispetto al vecchio.
L’altro elefante nella stanza è la questione del conflitto di interesse, che nei governi guidati dal Cavaliere era appena un argomento delle opposizioni, peraltro piuttosto consunto dall’incapacità di dargli uno sbocco di legge.
Finita quell’epoca, tornata l’era del professionismo politico con una premier che non ha doppi o tripli ruoli da difendere, il prima e dopo andrà segnato in qualche modo e ci si chiede se sarà possibile tenere insieme operazioni imprenditoriali disinvolte come quelle raccontate da Daniela Santanchè e il suo “chi fa può sbagliare” con il rigore del “chi sbaglia paga” che la destra invoca in ogni campo.
Bisognerebbe prendere per buona la tesi del complotto che la ministra ha evocato in aula, sostenendo che i “pretesi scandali” sono in realtà un “maldestro tentativo di impedire alle aziende di portare a termine la ristrutturazione”. Ma pure questo, così come il vittimismo sullo stile di vita, le belle case, il lusso, è déjà vù d’altri tempi, non è che regga tanto al racconto del nuovo corso meloniano.
Dunque, si dovrà aspettare per capire dove sarà piazzata la nuova asticella della “dignità e onore” nell’esercizio dei ruoli istituzionali, ma non c’è dubbio che dai livelli assai modesti (e superabili pressoché da tutti) fissati dai precedenti governi a guida centrodestra dovrà alzarsi un po’, diventare più selettiva. Chissà se alla fine Santanchè riuscirà comunque a passarci sopra.
(da La Stampa)
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