IL PATTEGGIAMENTO ALL’ITALIANA, L’ULTIMA BEFFA
NEGLI USA PER ACCEDERE AI BENEFICI L’IMPUTATO DEVE DICHIARARSI COLPEVOLE, DA NOI CHI PATTEGGIA PUO’ CANDIDARSI COME NULLA FOSSE
Quando fu varato il Codice di procedura penale del 1988 (entrato in vigore nel 1989) suscitò molte perplessità perché, all’evidenza, avrebbe quantomeno triplicato la durata dei processi.
La risposta dei fautori di quel codice fu che la maggior durata sarebbe stata compensata dal fatto che riti alternativi come patteggiamento (che in Italia si chiama applicazione di pena) e giudizio abbreviato (che funzionava sostanzialmente come il processo del codice precedente), comportando una riduzione di pena (fino a un terzo il patteggiamento, di un terzo il giudizio abbreviato), avrebbero ridotto di molto il numero di processi da celebrare con il rito ordinario, certamente più lento. Si indicava come esempio quanto avveniva negli Stati Uniti d’America, dove solo il 4 % dei processi venivano svolti con il “trial jury” (quello che si vede nei film). Insomma, il nuovo processo poteva funzionare solo se pochi imputati lo sceglievano.
In un Paese come il nostro dove nei cinquant’anni precedenti vi erano stati 35 provvedimenti di amnistia e indulto (uno ogni anno e mezzo circa), l’ipotesi era illusoria: se bastava aspettare un anno e mezzo per ottenere un provvedimento di clemenza, perché patteggiare o chiedere il giudizio abbreviato? Ovviamente, è meglio nessuna pena che una pena ridotta.
Per questo fu cambiata la Costituzione, introducendo una maggioranza di due terzi dei voti in Parlamento per varare provvedimenti di clemenza. A parte il fatto che, comunque, alcune amnistie e indulti furono comunque approvati, tali provvedimenti furono sostituiti dalla prescrizione dimezzata, vanificando la speranza di far funzionare i riti alternativi.
Infatti, in tutti i casi di esercizio dell’azione penale, nell’udienza preliminare si è fatto ricorso all’abbreviato solo nel 15% dei casi e al patteggiamento nel 12%, mentre nel dibattimento l’utilizzo di ambedue i riti è stato registrato nel solo 6% dei casi; la percentuale di riti abbreviati rispetto al numero dei processi celebrati con quello ordinario fu del 4,9% nel 2016 ed il 3,8% nel 2017. Ovviamente il sistema processuale penale è imploso e la durata dei procedimenti è divenuta insostenibile.
Nella speranza di far funzionare il patteggiamento, in tale scelta non era (e non è) previsto che l’imputato si dichiari colpevole del reato per cui la pena gli viene applicata. Si tratta di un’autentica stravaganza, dal momento che la libertà non è un diritto disponibile. Se uno potesse chiedere o accettare una pena detentiva senza essere colpevole, potrebbe anche vendersi come schiavo. Ma i nostri sedicenti garantisti non si accorgono di questa enormità. La ragione infatti è quella di consentire a chi patteggia di evitare le conseguenze della colpevolezza.
Così, anche per successive modifiche (e da ultimo quelle contenute nel Decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 155, la “riforma Cartabia”), nell’art. 445 comma 1-bis del Codice di procedura penale si legge questa perla: “La sentenza prevista dall’articolo 444, comma 2, anche quando è pronunciata dopo la chiusura del dibattimento, non ha efficacia e non può essere utilizzata a fini di prova nei giudizi civili, disciplinari, tributari o amministrativi, compreso il giudizio per l’accertamento della responsabilità contabile. Se non sono applicate pene accessorie, non producono effetti le disposizioni di leggi diverse da quelle penali che equiparano la sentenza prevista dall’articolo 444, comma 2, alla sentenza di condanna. Salvo quanto previsto dal primo e dal secondo periodo o da diverse disposizioni di legge, la sentenza è equiparata a una pronuncia di condanna”.
Per chiarire: uno può patteggiare una pena detentiva, ma ciò non significa che abbia ammesso alcuna responsabilità, per cui il tempo che si risparmia nel procedimento penale, si perderà (moltiplicato) nei procedimenti “civili, disciplinari, tributari o amministrativi, compreso il giudizio per l’accertamento della responsabilità contabile”.
Negli Stati da cui crediamo di aver copiato il rito accusatorio, l’imputato deve dichiarare se è colpevole o non colpevole. Solo se si dichiara non colpevole si fa il processo, con giuria, salvo che rinunzi alla stessa. Negli Usa il 90% degli imputati si dichiara colpevole.
Il Ministero dell’Interno, Direzione Centrale per i Servizi Elettorali, ha richiesto all’Avvocatura dello Stato un parere in ordine al fatto se l’inciso: “Se non sono applicate pene accessorie, non producono effetti le disposizioni di leggi diverse da quelle penali che equiparano la sentenza prevista dall’articolo 444, comma 2, alla sentenza di condanna” incidesse sulla ineleggibilità di chi avesse patteggiato.
La Direzione Centrale citata ha condiviso il parere dell’Avvocatura dello Stato e ha ritenuto che “la disposizione di cui al decreto di attuazione della Legge cd. Severino (art. 15, comma 1) in materia di incandidabilità, che equipara la sentenza prevista dall’art.444, comma 2, c.p.p. alle sentenze di condanna, stante appunto la natura non penale della predetta legge, non produce più effetti: si tratta, evidentemente, di un caso di abrogazione tacita operata dal d.l. n. 162/2022, convertito in legge, che dispone l’entrata in vigore del d.lgs. n. 150/2022”.
Peraltro, con la riforma Cartabia, anche le pene accessorie sono divenute negoziabili e quindi non verranno applicate.
Così, in questo nostro straordinario Paese, uno può patteggiare una pena detentiva ed essere candidato ed eletto a cariche pubbliche.
Ovviamente, nel caso in cui la pena non sia condizionalmente sospesa (come accade per chi ha già riportato precedenti condanne) e colui che patteggia non ottenga benefici penitenziari, come l’affidamento al servizio sociale, se eletto potrà chiedere permessi per uscire dal carcere per svolgere tali pubbliche funzioni. Fantastico!
Se qualcuno pensa che, almeno così, molti patteggeranno si illude, queste cose riguardano i colletti bianchi e – in Europa – l’Italia ha il più basso numero di processi e quindi di condanne (comprese applicazioni di pena) per appartenenti alla classe dirigente.
Evidentemente i nostri legislatori non hanno il senso del ridicolo o, forse, non sanno quello che fanno. Oppure lo sanno, ma non si vergognano.
Piercamillo Davigo
(da il Fatto Quotidiano)
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