INTERVISTA AL POLITOLOGO ORSINA: “PER IL COLLE MELONI DICE BERLUSCONI MA PREFERISCE DRAGHI“
“IL PROBLEMA VERO DELLA MELONI E’ IL RAPPORTO CON L’EUROPA“
“Giorgia Meloni ha identificato un’area politica a livello internazionale che ha potenzialità di successo perché risponde alla domanda crescente di conservatorismo, e si sta muovendo in quella direzione. C’è una buona dose di ambiguità perché cerca di guadagnare del nuovo senza perdere il vecchio, ma è presto per dire che sia solo un lifting. Dipenderà dal punto di ricaduta dell’elastico che sta tendendo”.
Giovanni Orsina, politologo e professore di Storia Contemporanea alla Luiss di cui guida la School of Government, è attento osservatore delle dinamiche del centrodestra.
E spiega l’interesse della leader FdI per la partita del Quirinale: “Ha preso un impegno morale e politico con Berlusconi, anche per evitare che si smarchi dal fronte unitario. Ma credo che preferisca Draghi perché potrebbe coprirla molto meglio se dovesse riuscire ad andare al governo”.
In un’intervista al “Corriere” di oggi Giorgia Meloni rivendica un ruolo nel gran ballo del Quirinale, pur avendo un numero di parlamentari decisamente inferiore a quello di Lega e Forza Italia. Dice: ci sono anche io, attenzione a non fare i conti senza l’oste. È così?
In quell’intervista Meloni parla di centrodestra e ragiona in una logica di coalizione. E i numeri dicono che da quella parte si deve passare, questo è il primo messaggio. Poi, certo, parla anche agli alleati: “FdI è l’unica forza in crescita, tenetene conto anche in vista di quando si andrà al voto”. Bisogna aggiungere poi che è l’unico partito di opposizione, e, se si vuole eleggere un presidente della Repubblica, occorre discutere anche con l’opposizione. Da questo punto di vista Meloni ha senz’altro delle ragioni.
Lei ha capito a chi corrisponde davvero l’identikit del presidente patriota?
A me quello è parso un discorso molto tattico, il cui messaggio di fondo era: non pensiate di mettermi tra i piedi un presidente del Pd, perché non ci sono le condizioni.
L’impressione complessiva, però, è che alla Meloni piacerebbe vedere Draghi sul Colle, ma finché c’è l’ombra di Berlusconi sul campo non può dirlo apertamente.
Sì, anche a me pare che sia così. Salvini e Meloni hanno preso con Berlusconi un impegno morale, ma dotato anche di un sottinteso politico molto robusto: è un modo per evitare che il Cavaliere si smarchi dal fronte unitario. Se lo facesse, eleggere un presidente “contro” gli altri due leader diventerebbe possibile. Al netto di questo, Meloni ha tutta l’aria di prediligere Draghi anche perché potrebbe coprirla molto meglio se un giorno lei avesse la possibilità di andare al governo. Con Berlusconi al Quirinale, un governo sovranista sarebbe a mio avviso parecchio più difficile.
A proposto di ambizioni: l’Atreju di Natale ecumenico in politica e identitario in dottrina, l’esaltazione del ruolo di guida dei Conservatori europei ma anche di quelli italiani, le scuse pubbliche a Letta per la “battuta riuscita male”. Vede un’operazione in corso per cambiare pelle a FdI?
Meloni ha identificato un’area politica a livello internazionale che ha potenzialità di successo. Basti guardare alla Francia: una gara tra chi è di destra e chi è più di destra. Le Pen, Zemmour, Pécresse. Anche Macron sentendo il clima si è spostato su posizioni che rispondono alla richiesta di ordine e sicurezza. C’è una domanda di conservazione, in senso lato, diffusa e crescente.
Motivata dalla pandemia, al giro di boa del terzo inverno?
È un discorso più ampio. Nell’ultimo decennio abbiamo assistito alla ribellione contro una globalizzazione ritenuta troppo veloce e distruttiva, ribellione che si è espressa nel gran “fritto misto” del cosiddetto populismo: dal Rassemblement National a Podemos, da Alternative für Deutschland ai Cinquestelle. Complice il Covid, è possibile che la ribellione disordinata stia ora rientrando in un alveo politico più tradizionale, incanalandosi a destra.
Destra moderata o estremista?
La ribellione anti-globalizzazione non è moderata dal punto di vista psicologico. Ma politicamente cambia da Paese a Paese, trovando casa in movimenti di diversa natura. In Francia c’è una sorta di décalage che va da Macron, europeista e tecnocratico e da ultimo securitario, fino a Zemmour e a Le Pen, passando per la gollista Pécresse. In Italia la sensazione è che Meloni stia ancora prendendo le misure alla situazione e sconti perciò una certa ambiguità. Ad Atreju era palese: FdI è un partito fortemente identitario che ha matrice e ricordi comuni. Si sente ancora molto la tradizione di una comunità abituata a sentirsi minoritaria, di opposizione, esclusa ed emarginata.
Gli Atreju, come il protagonista della Storia Infinita. È maturo il tempo di andare oltre, secondo lei?
Meloni nell’intervento conclusivo ha tenuto insieme due linee: molto del suo discorso era identitario, ma ha pure detto di voler allargare il campo attraendo persone con storie diverse alle spalle. È questo il nodo, che mi pare antropologico più ancora che ideologico. Perché al di là dei toni, i contenuti sono quelli di un partito nazional-conservatore. Ma se non ammorbidisci l’identità non puoi attrarre da fuori della tua comunità.
Oltre due mesi dopo la video-inchiesta di Fanpage sui legami con certi ambienti para-nazisti e antisemiti, Fidanza è ancora lì, tutto è nel limbo, si attende la fine delle indagini. Come si cambia classe dirigente, allora
Non c’è dubbio che esista un problema di humus identitario, e certi legami storici nella vicenda Fidanza sono emersi in modo prepotente. Da qui però a dire che un partito è fuori dall’arco costituzionale, è illiberale, o addirittura che è un pericolo per la democrazia, ce ne corre, e pure molto. Quello della delegittimazione è un vecchio gioco italiano, e credo che abbia prodotto infiniti danni. Sarebbe proprio ora di piantarla.
In sintesi: vede un’emancipazione o un lifting?
Per il momento vedo un inizio di percorso. Un classico tentativo politico di guadagnare del nuovo senza rinunciare al vecchio. Ma non necessariamente è solo un lifting: vedremo cosa succederà quando il vecchio e il nuovo entreranno in conflitto. Insomma, dipenderà dal punto di ricaduta dell’elastico che si sta tendendo.
Il feeling di Meloni con Letta si spiega in un’ottica bipolarista. Quello con Draghi solo con la speranza di un “ombrello” quirinalizio?
In buona parte sì. Poi, quando Draghi è andato a Palazzo Chigi c’era l’emergenza pandemica, e un partito che vuol essere di patrioti non poteva fare opposizione sconclusionata. Questo lei lo ha capito subito e in definitiva la cosa ha funzionato. Infine, un premier ultra-europeista è l’ideale per difendere gli interessi italiani da dentro il meccanismo europeo – molto più efficace rispetto a chi a quel meccanismo è estraneo.
Però, il “partito di patrioti” ha appena presentato un’interrogazione alla commissione Ue contro le nuove restrizioni sanitarie decise dal governo. Non è una contraddizione?
Non sul piano dei contenuti, perché FdI sul covid vuole dall’inizio scelte più liberali e meno restrittive. La contraddizione sta nel fatto che per fare opposizione al governo usa anche gli strumenti europei. Quando c’è bisogno anche Meloni passa per Bruxelles perché da lì passa la politica italiana: ed è l’intrico di questo meccanismo che rende difficile smontarlo. È proprio qui, sull’Europa, che tocchiamo la più grande delle ambiguità del nazional-conservatorismo nostrano. Il nodo più difficile da sciogliere è questo, altro che Fidanza o allarmi antifascisti.
Ultima domanda. Al “Corriere” Meloni ha detto che “la persona del partito che prende più voti avrà la responsabilità di indicare il premier da sottoporre al Quirinale”. Studia da premier o da king maker?
È stata molto, molto cauta. Potrebbe essere un indizio della consapevolezza che un governo Meloni in Italia non sarebbe, come dicevamo, facile. C’è un gioco di compatibilità europee e internazionali che creerebbe problemi. Dietro le quinte si affaccia uno schema: Draghi al Quirinale, Meloni e Salvini vincono le elezioni e indicano un premier terzo di loro gradimento.
(da Huffingtonpost)
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