INTERVISTA ALLA PSICANALISTA LAURA PIGOZZI: “COLLEFERRO E LECCE DIMOSTRANO CHE LA FAMIGLIA HA FALLITO”
“METTIAMO AL MONDO DEGLI ATLETI DELLA VITA, POI LI SOSTENIAMO ANCHE QUANDO NON C’E’ BISOGNO CON IL RISULTATO DI CREARE ADULTI-BAMBINI, CONDANNATI AD UN’ETERNA INFANZIA”
“La famiglia ammala, se non libera i suoi figli, se non li prepara al mondo”: ad affermarlo è la psicanalista Laura Pigozzi, autrice del libro “Troppa famiglia fa male”, nel quale spiega come la dipendenza materna crei adulti-bambini (e pessimi cittadini). Dai casi di cronaca che raccontano di giovani che uccidono loro coetanei si evince un vuoto etico, di sentimenti, a cui la dottoressa attribuisce una spiegazione.
“La famiglia, all’origine della civiltà , oggi ne sta decretando la fine – afferma ad HuffPost – Ed è una crisi che investe l’intera società perchè ciò che accade all’interno della famiglia si ripercuote sul sociale”.
“Gabriele Bianchi, uno degli assassini di Willy Monteiro Duarte, il 21enne ammazzato di botte a Colleferro, aveva un tatuaggio sull’addome con la scritta: ‘Proteggi la famiglia’ – prosegue la psicanalista -. Il ragazzo che ha ucciso i due fidanzati a Lecce si dice avesse un attaccamento morboso ai suoi genitori, un giovane che non viveva la sua età . Infatti si ritiene che uno dei moventi dell’omicidio possa essere stata l’invidia, perchè i due fidanzati – al contrario suo – vivevano al di fuori della famiglia, stavano per costituire un nucleo. Lui invece era intrappolato, ancorato alla sua realtà d’origine. Che cosa ci insegnano questi due fatti? Che la famiglia, quando è troppo presente, quando non ha preparato l’individuo all’indipendenza, quando non fa altro che proteggere i suoi figli crea cittadini-bambini, disabituati alle regole del vivere civile, disabituati all’altro. Il ‘troppo amore’ non lascia spazio, riempie tutto e fuori dal bozzolo il mondo viene visto come una seccatura, come un posto che fa paura, come un regno in cui sfogare la propria violenza”.
La Pigozzi parla di “pedagogia della stampella”: “Mettiamo al mondo degli atleti della vita, poi cominciamo a sostenerli anche quando non c’è bisogno. Siamo onnipresenti, iniziamo a non fidarci della maestra, a dire che la nonna sbaglia, che la baby-sitter non è in grado di fare le cose come le vogliamo noi. Vedo mamme alle medie che accompagnano ancora i figli a scuola e portano loro lo zaino, mamme che fanno i compiti privandosi di altre occupazioni, genitori che si presentano ai colloqui di lavoro dei figli. Ecco che si crea un cortocircuito: all’atleta – che ha tutte le carte in regola per correre benissimo – è come se venisse detto: ‘Ma dai, metti le stampelle, vedrai che farai meno fatica’. Diventerà mai un vero atleta? No”.
Il prodotto di questo tipo di educazione è il “cittadino-bambino”, uno che, secondo la psicanalista, “si aspetta sempre che gli altri facciano qualcosa per lui, che lo Stato faccia qualcosa per lui, che non debba dare nulla alla società ”.
E questo perchè fin dalla nascita è stato iper protetto, perchè non è stato avviato all’indipendenza: “Oggi le mamme e i papà si insinuano per ogni dove. Due bambini litigano? Scoppia la faida tra le famiglie. L’insegnante dà troppi compiti o riprende l’alunno? Subito le/gli si fa la guerra. Le madri intervengono a gamba tesa per difendere i figli di fronte a chiunque e in qualunque situazione. E i figli si adagiano, non escono dal loro guscio perchè rimanere lì è troppo comodo”. Il cittadino-bambino è anche colui che non ha interrotto il rapporto di dipendenza dalla madre e che quindi sperimenta altri tipi di dipendenze: dalla droga al lavoro, dal cibo ad un amore malato.
Secondo la Pigozzi, siamo sul bordo di un grande pericolo, senza neanche rendercene conto. Il rischio di sfornare continuamente individui non indipendenti è quello di avere persone propense alla sottomissione. Sottomissione non alle regole della società , che servono alla convivenza, ma ad un leader che affascina e ipnotizza.
Ripensare il ruolo della famiglia, scardinare il mito della madre: è questo che andrebbe fatto per creare una società democratica, libera. “Nasciamo tutti dipendenti da nostra madre, ma ad un certo punto questa dipendenza deve cessare. La mamma è colei che consegna il figlio al mondo, colei che deve insegnargli a diventare un individuo. Oggi, invece, le mamme hanno bisogno dei figli per sentirsi legittimate: la società le celebra e fa passare un messaggio di adorazione verso di loro, quando – dal punto di vista politico, culturale, economico – non vengono prese in considerazione. Loro abboccano a questa illusione narcisistica e investono ancora di più sul loro essere madri: lo gridano sui social, ad esempio, dove si improvvisano blogger, influencer, perfette pedagoghe. Trattengono i figli perchè gli servono, perchè diventano per loro uno strumento indispensabile per essere viste”.
Ma quanto a lungo li “trattengono”? Secondo un sondaggio, gli italiani escono mediamente di casa a 30 anni e impiegano ben 12 anni in più di uno svedese per lasciare il nido. La giustificazione a questo ritardo è sempre la stessa: “Non c’è lavoro”. “Ma il lavoro c’è – afferma Laura Pigozzi – semplicemente bisogna accettare che il primo lavoro della vita non sempre sia il lavoro dei sogni. I giovani dovrebbero iniziare a ‘sporcarsi le mani’ il più presto possibile, senza aspettare la fine dell’università . Anche l’università diventa una sorta di ‘mamma’, che protegge e non espone a rischi. Una volta fuori il giovane si fa prendere dal panico perchè non ha alcuna idea della realtà lavorativa, perchè non ha mai lavorato ad un progetto, con un’altra persona o con un gruppo”.
È nelle famiglie che i ragazzi dovrebbero allenarsi a trovare lo slancio verso l’esterno, diventando adulti. Fallire questa trasformazione significa condannarli a un’eterna infanzia, che apre le porte non solo ai dittatori bambini ma anche a quelli veri. “Dobbiamo far vedere ai nostri figli che abbiamo interessi al di fuori di loro, che non sono la nostra unica occupazione. Dobbiamo far capire loro che possono rischiare, prendere la loro strada, perdersi, soffrire, che non c’è solo il divano di casa dove drogarsi di cellulare. L’essere umano per sua natura tende alla passività e la famiglia è il primo luogo in cui insegnare ad opporsi a questa tendenza. Va bene guardare un film sul divano, avere dei momenti di intimità insieme, ma la famiglia deve essere anche quella che dice al ragazzo ‘vai’, quella che lo sprona a diventare autonomo, quella che non accetta che l’adolescente non apparecchi la tavola, che non sappia cucinare un uovo, non si prenda la sue responsabilità . Oggi i ragazzi vivono comodi, ma sono passivi. Gli stiamo rubando la vita. Per riempire la nostra”.
(da “Huffingtonpost”)
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