LA GIOVANE RIANIMATRICE DI BERGAMO: “LA MIA GIOIA PIU’ GRANDE E’ VEDERLI RIAPRIRE GLI OCCHI”
CLAUDIA, RAGAZZA DE SUD: “NON SONO UNA KAMIKAZE, FIN DA BAMBINA VOLEVO AIUTARE GLI ALTRI”… SUL FRONTE ANCHE 14 ORE AL GIORNO: “SONO UNA PRIVILEGIATA, HO STUDIATO PER QUESTO, NON HO PAURA”
Il senso di Claudia per il lavoro è un solco obliquo che scende dagli zigomi e percorre la guancia fino alla mascella. Sembra il calco di un guerriero. Quando l’hanno ritratta in questa fotografia – di profilo, i capelli scuri della sua terra raccolti nella cuffia chirurgica, un filo di rossetto che suona come un inno alla resilienza – erano le sette di sera.
«Avevo appena tolto la mascherina dopo dodici ore in reparto. Devi solo aspettare, metti un po’ di pomata ma tanto poi si ricomincia».
L’impronta sul volto di medici e infermieri è ormai segno di virtù e di sacrificio. Racconta quello che noi possiamo solo immaginare: le cose enormi e pietose che succedono là dentro, nella trincea della battaglia contro il coronavirus che ha già falciato 77 medici, 23 infermieri e decine di operatori del 118. L’ “assedio”. Lo chiama così.
«Tutto avrei immaginato tranne che iniziare questo mestiere fronteggiando l’assedio di un’epidemia. Nel suo epicentro». Claudia Paleologo, 33 anni, palermitana.
Anestesista nella terapia intensiva dell’ospedale Humanitas Gavazzeni di Bergamo (che dal 21 febbraio è stato convertito a ospedale Covid). Alla sua prima esperienza professionale. Attenzione alle date. «L’11 febbraio mi specializzo a Palermo. Il 17 febbraio inizio a lavorare qui».
Quattro giorni dopo, il 21, l’inizio dell’onda di piena bergamasca e dunque la conversione dell’ospedale, che oggi accoglie 218 pazienti Covid. «Mi sente bene se parlo così?». Non può togliere la mascherina. «Io sono ambiziosa, volevo e voglio imparare tanto. Mi interessava iniziare facendo un’esperienza di terapia intensiva. Dalla Sicilia mi sono spostata qui e sapevo che avrei avuto un’opportunità per crescere».
L’opportunità a Claudia gliel’ha offerta il Covid-19: dopo quattro giorni di ambientamento (del medico), è incominciato ad arrivare un flusso ininterrotto di pazienti che boccheggiavano. «Abbiamo convertito gli spazi del blocco operatorio per ampliare la terapia intensiva: da 12 a 33 posti letto. Arrivo alle 7.30 e finisco alle 20, che poi a volte diventano le 22, anche le 23, nei giorni peggiori. Ti dimentichi del tempo».
Cosa pensa, come vive, quanta fatica fa un medico agli esordi sul fronte del “virus sconosciuto”, per usare la definizione di Claudia? «Io sono privilegiata», dice. Perchè? «Ho studiato per questo. Il dramma che stiamo vivendo è un’esperienza tragica ma mi dà la possibilità di fare quello che volevo: è da quando ero bambina che desidero aiutare gli altri. Nella mia famiglia non ci sono medici. Non posso dire “sono una grande intensivista”. Ma poter dare un mio contributo sul campo mi rende felice».
Sono grammi di emozione le parole di Claudia Paleologo. Forse nemmeno lei si rende conto di quanto, nell’abisso dove siamo precipitati, siano foriere di speranza per tutti.
Un camice bianco che muove i primi passi sulla linea di fuoco sanitaria peggiore del millennio. In una città falcidiata dal nemico invisibile. «Le emozioni le hai eccome. Ma le contieni, perchè non aiutano a fare le scelte giuste per il tuo assistito. Quando entri in terapia intensiva devi concentrarti sul paziente, devi essere lucida e fredda. Però certo ci sono momenti di emozione che catturi e tiene con te».
In un mese e mezzo di emergenza, «e lo siamo ancora», ce n’è uno che Claudia non riesce a scansare dalla mente. «Ai malati intubati e sedati sollevi la palpebra per fare l’esame morfologico alle pupille. C’è una paziente. Dopo settimane di intubazione ha iniziato a migliorare. Le palpebre si sono alzate da sole. Ho visto questi occhi azzurri, bellissimi, profondi. Mi sono chiesta: come è possibile che non li avevo notati prima, quando alzavo io le palpebre? Avevano ripreso vita e l’abbiamo estubata. Che bella sensazione».
La storia di Claudia è quella di un medico che non pensava di vedere tutto così velocemente. Nemmeno decine di colleghi morire di coronavirus come i loro pazienti. Ha paura? «No. Prudenza sì, paura no. Noi medici non siamo eroi e nemmeno kamikaze. Bisogna usare i dispositivi di protezione individuale. Sempre. Non azzeri i rischi ma li minimizzi. La mattina arrivo 20 minuti prima. Mi bardo. Tuta, doppi guanti, visiera, occhiali, maschera, calzari, copriscarpa. La “sicurezza della scena” è la prima cosa che ci insegnano. Qui ci sono due persone che controllano nell’area vestizione e svestizione. Poi ogni lavoro ha i suoi rischi: vieni in contatto con malati di meningite, di epatite C, di Hiv. E adesso di coronavirus». È tardi.
È ora di qualche briciolo di vita fuori dall’ospedale. «Vado a fare un po’ di spesa e torno a casa». Quando finirà il tempo sospeso dell’assedio? «Non lo so. Qui adesso va un po’ meglio. Meno accessi in pronto soccorso. Appena si riemerge voglio andare a trovare i miei a Palermo».
(da “La Repubbica”)
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