LA LEGITTIMA PROTESTA DEI RICHIEDENTI ASILO AD ABBAZIA DI MASIO CONTRO L’ASSOCIAZIONE CHE GESTISCE IL CENTRO
DOPO L’ARTICOLO DE “LA STAMPA” IL PRESIDENTE DELLA STRUTTURA MINACCIA LA GIORNALISTA … SCARPE ROTTE, MAGLIETTE RIMEDIATE DALLA SPAZZATURA, POCO CIBO
Urlavano: «We are desperate, we are desperate». Siamo disperati. Indossavano scarpe rotte, magliette rimediate dalla spazzatura, più che rabbiosi sembravano esausti, stremati.
In un inglese stentato, hanno provato a farsi capire, a chiedere aiuto.
Dimenticate Lampedusa: Prince, Zakaria, Bernard e gli altri tre immigrati, che l’altra mattina si sono presentati davanti agli uffici della prefettura di via Piacenza, sono sei degli oltre millecinquecento richiedenti asilo inseriti nei centri di accoglienza attivati in 63 Comuni della provincia di Alessandria, 32 gestori e oltre duecento strutture fra cui molti appartamenti, sparsi un po’ dappertutto.
Uno schema morbido di accoglienza diffusa, disegnato dall’ex prefetto Romilda Tafuri (dopo sei anni in Piemonte, è alla guida della prefettura di Cagliari). Un sistema che finora ha permesso di «assorbire» senza traumi un fenomeno in crescita. Nel 2016 i richiedenti asilo erano 1102, oggi sono 1536.
Sono aumentati, ma il saldo è quasi impercettibile perchè il modello applicato qui funziona. «Per favorire il processo di integrazione – spiegano dalla prefettura, dove da pochi giorni nell’ufficio della Tafuri siede Antonio Apruzzese -, i migranti sono ospitati in strutture di piccole o medie dimensioni, da appartamenti a comunità da 10-40 posti, e una sola struttura con un centinaio di ospiti».
L’altra mattina, questi sei ragazzi sono arrivati da Masio a cercare lo Stato qui nel capoluogo.
L’hanno già fatto in passato, almeno altre sei volte dicono, vengono sempre a piedi o in bicicletta, se va bene al ritorno rimediano un passaggio.
Diciotto chilometri sotto il sole padano sono una passeggiata per chi è scappato da Senegal, Nigeria, Mali.
Hanno modi educati, ma risoluti. Vogliono spiegare che dopo quella fuga tormentata dall’Africa, l’approdo in Sicilia e l’arrivo nel ricco Nord, l’accoglienza italiana se la immaginavano diversa. Non il grand hotel certo, ma nemmeno la fame. Il frigorifero spesso vuoto, niente da mettersi addosso, poco da mangiare.
Ai funzionari hanno raccontato di essere ospiti dell’associazione La Casa di Elisa.
E riferito di pranzi e cene che saltano, di una dispensa spesso vuota e di cure che mancano, insieme ai soldi del loro «pocket money». Pochi spiccioli, 2 euro e 50 al giorno dei 35 che incassa la struttura per ognuno di loro, ma a cui hanno diritto e che non sempre ricevono.
Dall’inizio dell’estate, pare che la situazione sia cambiata, in peggio.
I responsabili della struttura preferiscono non fornirne altre versioni. Poi, Giorgio Isidoris, presidente dell’associazione La Casa di Elisa – ospita 11 persone a Masio, 10 a Conzano e 12 a San Germano di Casale -, contatta la giornalista che ha firmato il servizio su La Stampa e la minaccia: «Ti sei messa in un vespaio, ora diventa una cosa tra te e me».
Un chiaro atteggiamento intimidatorio, ribadito in una seconda telefonata e riportato nel verbale di una denuncia presentata ai carabinieri.
Non è la prima: Isidoris è stato citato, in questura, anche dagli ospiti di Masio. Loro, i ragazzi, continuano ad aver paura. Riferiscono di prevaricazioni e dispotici tentativi di fermarli quando provano a dire basta, come l’altra mattina, e cercare qualcuno che li ascolti.
Negli ultimi mesi, l’associazione ha subìto sanzioni per inadempienze nel servizio o la mancata frequentazione ai corsi di alfabetizzazione da parte dei ragazzi delle comunità di Masio e Casale.
Cose che succedono e che forse poco hanno a che fare con il clima che si respira là dentro.
Alcune «penali» hanno riguardato le condizioni dello stabile, altre probabilmente sono in arrivo.
(da “La Stampa”)
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