LE BALLE DI RENZI: MA CHE MODELLO TEDESCO, IN GERMANIA I LAVORATORI SONO PIU’ TUTELATI
IN GERMANIA C’E’ UN SUSSIDIO DI DISOCCUPAZIONE DI 12 MESI E UN REDDITO DI CITTADINANZA DI 380 EURO… IL LICENZIAMENTO DEVE ESSERE SOTTOPOSTO AL VAGLIO DEL CONSIGLIO DI FABBRICA E IL GIUDICE PUO’ ORDINARE IL REINTEGRO… I MINI JOBS SONO LIMITATI A 15 ORE SETTIMANALI
Se ne parla da molte settimane: la riforma del mercato del lavoro, ora al vaglio del parlamento con la discussione del Jobs Act, dovrà ispirarsi al modello tedesco.
Ma di cosa si parla, concretamente, quando si prende Berlino come punto di riferimento? Di tipologie di contratti? Sistema di ammortizzatori sociali? Di vincoli in capo a chi licenzia?
I Minijob.
A suscitare l’interesse dei maggiori paesi europei, compreso il nostro, è innanzitutto la sperimentazione dei cosiddetti minijob, tipologia contrattuale introdotta nel 2003 che ha sostanzialmente permesso alla Germania di far emergere dal nero una fetta consistente di lavori fino a quel momento rimasti sommersi.
Si tratta di impieghi limitati a un massimo di 15 ore settimanali e con uno stipendio che può raggiungere al massimo i 450 euro mensili, diffusi prevalentemente nel settore dei servizi.
Un modello che ha trovato immediatamente rapida diffusione e che oggi interessa oltre sette milioni di lavoratori.
I contratti tradizionali.
Ai mini Jobs si affiancano i tradizionali contratti a tempo determinato e indeterminato dove fin da subito, superato il periodo di prova normalmente non superiore ai sei mesi, si applica per tutti la disciplina sui licenziamenti.
Vale a dire che, esclusi quelli in cui l’allontanamento dal lavoro sia giudicato legittimo, il giudice può prescrivere tanto un indennizzo quanto il reintegro nell’azienda.
Fattispecie che ha molte differenze rispetto al nuovo regime introdotto in Italia dalla riforma Fornero.
Riforma che per prima ha previsto, per i licenziamenti illegittimi, l’obbligo per il datore di lavoro di un risarcimento pari alla retribuzione da 15 a 24 mensilità . Mantenendo comunque, in alcuni casi specifici, l’onere del reintegro.
Gli ammortizzatori sociali.
Alla Germania si guarda con molta attenzione soprattutto per quanto riguarda il sistema degli ammortizzatori sociali e delle politiche attive.
Vale a dire cosa accade ai lavoratori che perdono il lavoro e come lo Stato si fa carico del loro reinserimento.
Qui, rispetto a quanto accade in Italia, il modello tedesco si trova molto distante.
A partire dall’esistenza di un sussidio universale di disoccupazione, della durata massima di 12 mesi e di una sorta di reddito di cittadinanza, di importo variabile ma non superiore ai 380 euro circa.
Una rete di protezione che può funzionare solo però in stretto contatto con l’altro cardine della cosiddetta flexsecurity, e a cui punta anche il governo italiano: un efficiente sistema di politiche attive del lavoro, con una rete più efficiente di centri per l’impiego, attraverso i quali chi è senza lavoro riceve una nuova offerta di impiego che, se rifiutato, comporta un taglio sensibile dell’indennità .
I licenziamenti.
È vero poi che l’Italia è il Paese che protegge più di tutti i lavoratori grazie allo scudo “spaziale” dell’articolo 18?
A studiare la disciplina dei licenziamenti in Germania non pare esattamente così.
“In entrambi i casi è previsto il reintegro, con la differenza che viene disposta con presupposti diversi”, spiega Giovanni Orlandini, docente del diritto del Lavoro all’Università di Siena.
Insomma, anche in Germania, il giudice può ordinare all’azienda, a fronte di un licenziamento illegittimo, la possibilità di reintegrarlo in azienda.
“La differenza sostanziale con il nostro Paese riguarda il ruolo del giudice, che nel caso tedesco compie un’analisi molto attenta sulla concreta praticabilità del reintegro. In Italia, invece, si fa una valutazione unicamente sul comportamento del datore di lavoro”.
C’è, però, una differenza sostanziale.
La disciplina sui licenziamenti si applica solo per la aziende con almeno 10 dipendenti (15 in Italia), nelle aziende più grandi è fondamentale il ruolo di mediazione svolto dal Consiglio di fabbrica, che deve essere obbligatoriamente informato in caso di richiesta di licenziamento da parte dell’azienda e valuta in prima istanza la fondatezza dell’iniziativa dell’impresa.
(da “Huffingtonpost“)
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