LE DUELLANTI MELONI E SANTANCHE’
L’UNDERDOG ROMANA CONTRO L’OVERDOG MILANESE
Daniela Santanchè e Giorgia Meloni. Non ci si azzardi a pensare: Eva contro Eva. Entrambe respingono quel tipo di modello, entrambe si pensano al contrario, personaggi con gli attributi, ruoli da articolare al maschile. Il Presidente del Consiglio. Il Ministro del Turismo. Per settimane tutte e due hanno alimentato l’idea che un incontro a due avrebbe sciolto in viril tenzone il problema delle dimissioni dell’una per levare dall’imbarazzo l’altra. Ora pare di capire che era solo tattica e che la prova di forza sarà combattuta altrimenti, in una sfida a distanza fatta di messaggi scritti con l’inchiostro simpatico. Cacciami, se ne sei capace. Resisti pure, tanto sei comunque finita.
Oggi avrebbero dovuto incrociarsi in una sede importante, la Direzione nazionale di Fratelli d’Italia, l’organo politico che riunisce i duecento decisori del partito, ma il Presidente ha fatto sapere che difficilmente ci sarà. Il Ministro invece non perderà l’occasione di sfilare a testa altissima tra quelli appena bollati dal suo chissenefrega, cioè i vecchi amici che in pubblico le hanno rifiutato solidarietà e in privato si scambiano da giorni malignità sul suo conto. Esserci è un altro modo di rincarare la dose («io non faccio nessun passo indietro», come ha detto tre giorni fa a Dubai, nell’altro mancato incontro con Meloni) ma anche di ridere sotto i baffi dei mugugni dei colleghi. Tra dieci giorni, quando in Parlamento si discuterà la mozione di sfiducia individuale presentata dal Movimento 5 stelle, ognuno di loro sarà costretto a parlare e a votare in suo favore. Che fantastica rivincita!
Dall’altra parte Giorgia Meloni forse per la prima volta si scontra con il lato oscuro di quel tipo di carisma che lei stessa esercita e del quale è diventata campionessa. Il rifiuto di ogni tipo di autocritica, la reazione esagerata, il percepirsi ingiudicabile in virtù del consenso e del ruolo. È la modalità delle leadership moderne – Donald Trump ce ne sta offrendo in questi giorni un esempio quintessenziale – che passano con disinvoltura sopra ogni consuetudine del fair play democratico e piegano ogni regola a misura di se stessi. Funziona finché gli altri riconoscono l’esistenza di un interesse generale che sovrasta quello personale, cioè il dovere di non inceppare il meccanismo del potere: se bisogna dimettersi, ci si dimette. Ma che succede quando quel canone minimo viene disconosciuto?
Per il centrodestra la resistenza di Santanchè è una situazione alquanto nuova. Persino in epoche definite cesariste come quella di Silvio Berlusconi, ministri molto potenti come Claudio Scajola accettarono per ben due volte il passo indietro e lo fecero senza troppe discussioni, in nome dell’obbedienza al capo e della prevalenza dell’utilità collettiva su quella individuale. Anche nella attuale gestione meloniana, così spesso accusata di eccessive protezioni familiste, Gennaro Sangiuliano, Vittorio Sgarbi e Augusta Montaruli hanno pagato senza fiatare il prezzo di posizioni difficilmente difendibili, e altri pur senza andarsene hanno accettato di farsi piccini, quasi invisibili, vedi Francesco Lollobrigida che dopo l’affaire del treno fermato a Ciampino ha rinunciato al ruolo di frontman della battaglia governativa della destra. Santanché interrompe la tradizione. Si percepisce altrimenti: non una groupie sacrificabile ma una personalità equivalente a Meloni, e se la premier può alzare un putiferio per una «comunicazione di iscrizione» perché lei non dovrebbe fare altrettanto, perché dovrebbe arrendersi ai giudici che le vogliono male?
Così il caso è diventato un silenzioso duello tra due personalità forti e due culture politiche divergenti ma accomunate dalla stessa idea reginesca di potere: chi china il capo è perduto. L’underdog romana, con le sue origini popolari e il suo percorso da politica pura e l’overdog milanese, signora di un potere costruito per via mondana. I fatti sembrano indicare che sarà comunque la seconda a doversi arrendere perché lei stessa ha ammesso che in maggio, se l’inchiesta sulla truffa all’Inps coi fondi Covid approderà ai rinvii a giudizio (come è probabile), arriverà l’ora delle decisioni irrevocabili. Ma vai a vedere. Pure per l’indagine sul falso in bilancio era stata indicato lo stesso tipo di scadenza, promettendo un sollecito passo indietro in caso di processo. Però quando ha suonato il gong, Santanchè ha detto «sono innocente e non lascio”». Può ripeterlo a oltranza, e quanto al resto: chissenefrega.
(da La Stampa)
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