L’ITALIA HA RINUNCIATO A CURARE I MALATI DI COVID PRESTO A CASA
SCONFITTI PER AVER OSPEDALIZZATO LA LOTTA AL VIRUS
Siamo tutti presi dal vaccino. E le cure? Perché questo è il punto. Chi si occupa della cure? Mentre scriviamo, in Italia ci sono 533mila positivi. Più di trecento purtroppo moriranno nelle prossime 24 ore.
Tremilaseicento stanno in rianimazione, ventisettemila nei reparti ordinari. Ma i restanti 500mila sono a casa. La maggior parte asintomatici, ma più o meno cinquantamila sono ammalati. Chi si occupa di loro? Adesso che ogni sforzo è teso a vaccinare, vaccinare, vaccinare, chi pensa alle terapie sul territorio?
Ci pensa il Senato. L’8 aprile ha approvato un protocollo per la gestione domiciliare del Covid. Che vuol dire? Vuol dire andare a casa dei malati che invano aspettano il medico di famiglia che non verrà, che invano chiamano centralini muti, e curarli subito. Superare quella “vigile attesa” che è stata per molti l’anticamera della morte. Duecentododici voti favorevoli, due contrari, due astenuti. Tutti d’accordo. Quanto vale? Zero. Non a caso la notizia è ignorata dai quotidiani cartacei.
A quattordici mesi dallo scoppio della pandemia chi va a casa dei malati di Covid? Ci vanno i medici di famiglia, oggi tutti vaccinati? No, non ci vanno affatto, al netto di qualche generosa eccezione.
Ci vanno però le Usca, acronimo di un’entità misteriosa che aleggia sulla pandemia come un fantasma. Vuol dire unità speciali di continuità assistenziale, un medico neolaureato e un infermiere. Quando chiedi al Ministero della Salute quanti sono in circolazione, quanti malati hanno in carico, quale bilancio si fa di un anno di attività, ti rispondono che non si può sapere.
Se vuoi, possono inviarti le linee guida. E che ci facciamo con le linee guida? In concreto, ti rispondono, se ne occupano le Regioni. Già, le Regioni. Come per i ventilatori polmonari, lo Stato mette i soldi, le Regioni comprano e assumono. Ma se poi non accade, chi controlla? Nessuno.
Al ministro Roberto Speranza non è venuto in mente di chiedere conto di come le Regioni spendono i soldi dello Stato? Proprio no.
E qui qualcuno, in uno dei talk dove si alzano nubi di chiacchiere sulla tragedia, tirerà in ballo il Titolo V della Costituzione. Ma perché, il federalismo impedisce forse al responsabile della Salute di capire che accade nella medicina di territorio? Magari lo spronerà la fiducia tributatagli in pubblico dal premier Mario Draghi. Certo è che, dopo 115mila morti, qualche domanda potrebbe pure porsela.
Se la sono posta giorni fa sul Corriere della Sera Marco Imarisio e Simona Ravizza. Perché il nostro – hanno fatto notare i due giornalisti – è l’unico Paese d’Europa che a marzo ha registrato un aumento dei morti: 43 per centomila abitanti.
Pesa il nostro tardivo rincorrere un virus che va veloce. Pesa il disastro di una campagna dei vaccini che ha spostato l’immunizzazione dal suo naturale bersaglio, gli anziani e i vulnerabili, per indirizzarla verso le categorie capaci di fare pressione, e cioè i più forti. Ma non basta.
Perché c’è un’anomalia italiana che segna tutte le stagioni della pandemia e che ci condanna al record di letalità tra le democrazie avanzate, cioè al peggior rapporto tra vittime e contagi. Quest’anomalia si chiama medicina di base.
Ce lo raccontiamo da un anno, limitandoci a constatarlo come un dato ineluttabile, senza che nulla cambi: l’Italia ha perso la sfida con la pandemia perché ha ospedalizzato la lotta al virus, ha rinunciato a curare i malati presto e a casa. La medicina di territorio è ancora una terra di nessuno.
Dove nulla fa la burocrazia dei medici di famiglia, e poco può l’intermittente e insufficiente impegno delle Usca. Il saturimetro nelle mani del paziente, lasciato a casa in attesa che vada come deve andare, è una roulette russa. Metafora di una scommessa incosciente che la sanità pubblica ha perso da tempo.
Pierluigi Bartoletti, responsabile delle Usca del Lazio, racconta con icastica chiarezza ciò che non si vuol sentire: “Questa malattia ha una faccia a casa e un’altra in ospedale. La prima è decisamente migliore. Il trucco è fare in fretta tampone e diagnosi, valutare il rischio e anticipare le cure per evitare il decorso maligno. Se sbagli e aspetti, il paziente ti crolla in poche ore e finisce nel tubo”.
Se gli chiedi perché l’Italia continua ad aspettare, ti risponde: “Perché tutto, dalla diagnosi alla terapia, è ospedalizzato. Perfino le linee guida sono scritte su una casistica ospedaliera, ma la malattia inizia prima ed è un’altra cosa”.
L’assenza della medicina di base fa sì che siano ospedalizzate anche le cure che funzionano solo se somministrate precocemente: gli anticorpi monoclonali.
Il comitato tecnico scientifico li ha sdoganati per “quei pazienti non ospedalizzati che, pur avendo una malattia lieve/moderata, risultano ad alto rischio di sviluppare una forma grave, con conseguente aumento delle probabilità di ospedalizzazione e/o morte”.
Il ministero della Salute ha avviato una sperimentazione acquistando 150mila dosi al prezzo di circa duemila euro ciascuna. Vanno somministrate nei primi tre giorni dalla comparsa dei sintomi, prima che intervenga la polmonite interstiziale. Lombardia, Veneto, Lazio, Marche e Toscana hanno firmato un protocollo con la società italiana di medicina generale e delle cure primarie: i medici di famiglia segnaleranno i pazienti a rischio, le Usca faranno le verifiche a casa, ma la terapia verrà eseguita in day hospital. Perché tutto, in questa vicenda, finisce in ospedale.
E dove i protocolli mancano, dove le Usca sono fantasmi, come si fa? Lo scopriremo solo vivendo, o piuttosto morendo. Un anno è passato invano e la medicina di territorio è ancora un’incompiuta.
Curare presto e curare a casa sono i comandamenti traditi della lotta italiana alla pandemia. E adesso pensate davvero che il vaccino sia il colpo di spugna su questa immane rinuncia politica? Quando avremo immunizzato tutti gli immunizzabili, il Covid sarà scomparso? O piuttosto si dovrà convivere con le sue varianti e concepire una sanità che impara a combatterlo con priorità, senza però annientarsi?
Perché questo è il punto. L’ospedalizzazione della strategia ha messo in coda i malati di tumore e i cardiopatici, ha fatto saltare interventi chirurgici, visite ed esami diagnostici, ha ingolfato le liste d’attesa, scoraggiando il ricorso alle cure. Ha trasformato la pandemia in una sindemia, cioè in una patologia che dalla sanità sconfina nella società e colpisce i più deboli. Dopo esserci ammalati del virus, potremmo ammalarci della cura al virus.
(da Huffingotonpost)
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