RENZI HA PRONTO IL PIANO B: IN CASO DI VITTORIA DEL NO, ELEZIONI ENTRO L’ESTATE, CON LUI ALLA CARICA “DELL’ACCOZZAGLIA CHE NON VUOLE IL CAMBIAMENTO”
“NON SI FARA’ LOGORARE, LUI RESTA SOLO PER CAMBIARE”…NESSUN INCIUCIO CON BERLUSCONI, NON DARA’ UN ARGOMENTO A GRILLO… E SARA’ UNA CAMPAGNA ELETTORALE TUTTA ALL’ATTACCO, FORTE DELLA PERCENTUALE RAGGIUNTA DAL NO
Per la prima volta il “piano b” di Matteo Renzi, in caso di vittoria del NO, esce dai retroscena.
E ne parla uno dei pesi massimi del Pd, il vicesegretario Lorenzo Guerini sulla scena di Bloomberg, l’agenzia di stampa economica più vista dalla comunità finanziaria internazionale. Soggetto e contesto rendono la notizia assolutamente rilevante.
Ecco il passaggio chiave di Guerini: “If there is the political will, we can work over a brief period on a new electoral law, and have elections with a new electoral law soon, by the summer of 2017,” Guerini said in his Rome office. “If there are not the political conditions and the electoral reform is used as an excuse for a weak government surviving, we’re not interested.”
Certo, precisa poi Guerini, “sul voto decide il Colle”. Ma il senso politico è chiaro.
Se vince il no la linea è: legge elettorale e voto anticipato.
“Ne trarremo le conseguenze” precisa anche Orfini, nel primo giorno in cui si parla del “dopo”.
Tasselli in più rispetto alle parole d’ordine del premier degli ultimi giorni: “no a inciuci”, “no ai governicchi”, “se non volete cambiare trovatevene un altro”.
Tasselli che dice quanto sia cambiata la linea rispetto al “se perdo lascio la politica” e che fa capire come a palazzo Chigi si sta pesando a come governare una complicata transizione che consenta a Renzi di tenere il partito e di ricandidarsi a palazzo Chigi.
Al momento l’idea è quella di consentire la nascita di un governo che faccia la legge elettorale e porti al voto in sei mesi, entro la primavera.
Legge elettorale resa necessaria da una doppia necessità : quella di avere un sistema di voto anche per il Senato e quella più politica di avere una legge più favorevole a contrastare l’avanzata grillina, perchè in fondo questo referendum si configura già come un ballottaggio.
Il problema non sono le consultazioni, perchè è chiaro che Renzi salirà al Colle in quanto segretario del Pd e sarà il king maker di qualunque governo, forte anche di un risultato delle urne “tutto suo”, come amano dire i renziani: “Perde con il 48? Il 49? Quel 48-49 è tutto suo mentre nel 51 c’è l’accozzaglia”.
Insomma, è il segretario di maggioranza relativa, ha mezzo paese con sè.
È chiaro — e Mattarella non ha alcuna intenzione di fare un “governo del ribaltone” — che senza il suo consenso non nasce il governo.
Per capire il “piano b”, però, e qui torniamo nei ragionamenti in progress, il punto è quale tasso di coinvolgimento politico avrà il Pd in questo governo.
Più fonti spiegano che si tratta di un governo “su cui Renzi non mette la faccia”, ovvero ne rende possibile la nascita ma non si tratta di un governo in cui il Pd entrerebbe organicamente.
Una specie di appoggio esterno pur consentendone la nascita.
Nè, al momento, accetterebbe un accordo con Berlusconi e Forza Italia, che equivarebbe a mettere legna nel falò grillino.
Altro che grande coalition, come ha auspicato l’ex premier a Porta a Porta.
E dove metterebbe la faccia Renzi? Si metterebbe alla guida del partito per affrontare un’ordalia congressuale, contro Bersani&Co — per la serie “ho perso per colpa vostra” — contro l’accozzaglia, contro il partito dell’inciucio che ha bloccato la rivoluzione. Per tornare, poi, da candidato premier.
Nel Palazzo già va forte il toto nomi su “chi andrà a palazzo Chigi”.
Il più gettonato è quello di Pier Carlo Padoan, l’attuale ministro dell’Economia perchè è figura “tecnica”, di assoluta fiducia di Renzi, “colui che ha scritto la finanziaria che sarà da approvare al Senato”: un governo a cui non sarebbe difficile, come si dice in gergo, “staccare la spina”.
L’altro è Piero Grasso, il presidente del Senato. E questo sarebbe il classico governo istituzionale, nato su impulso del capo dello Stato di fronte all’impasse. Costituzionalisti che hanno familiarità con gli uffici giuridici del Colle già indicano i precedenti di una soluzione di questo tipo.
Il primo riguarda l’aprile 1987, quando l’incarico di formare un governo fu dato ad Amintore Fanfani, allora presidente del Senato.
Il secondo, nel giugno 1989, quando fu dato allora presidente Giovanni Spadolini.
Il terzo, nel gennaio 2008, quando Giorgio Napolitano diede a Marini un mandato esplorativo per vedere se c’erano le condizioni di un “governo per la legge elettorale”. Nessuno dei tre ebbe una gran fortuna, ma i precedenti indicano una prassi consolidata per un governo istituzionale che faccia la legge elettorale.
Le incognite, nell’ambito del “piano b”, riguardano il partito.
Perchè è chiaro che tutti questi ragionamenti si fondano su un presupposto. E cioè che il premier continui ad avere il controllo del partito e dei gruppi.
Nel giro stretto del premier si chiedono: “Che farà a quel punto Orlando? E Martina?. Vogliono rimanere al governo e giocheranno una partita autonoma nel Pd?”.
E ancora: “I gruppi reggeranno e saranno disposti a staccare la spina?”, “sulla legge elettorale Renzi avrà la forza di tenere tutti su una proposta o ognuno avrà la sua e sarà difficoltà chiudere in sei mesi?”
A dodici giorni dall’ora X del 4 dicembre regge ancora il “piano b” che mette in chiaro Guerini.
Ma, al tempo stesso, parlando con più fonti, sembra anche un modo per esorcizzare un dato che suscita timore.
E cioè che il governo sia una colla indispensabile per Renzi per tenere i suoi, qualora il referendum dovesse sancire l’esaurimento dell’altra di colla, il “con me si vince”.
E se gli chiedessero di rimanere, non solo Bersani e D’Alema, ma anche Mattarella, i cantori della “stabilità ” a tutti i costi e i suoi, affezionati alle leve del comando?
Per ora, nei conciliaboli sul piano b, rispondono: “Non si farà logorare. È uno che resta solo per cambiare”. Meno dodici.
(da “Huffingtonpost”)
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