TASSARE I CONSUMI PER ALLEGGERIRE L’IRPEF PARTENDO DAI REDDITI DEI CETI PIU’ DEBOLI
PROBABILE AUMENTO DI UNO O DUE PUNTI DELL’ALIQUOTA IVA DEL 21%…MA ANCHE QUELLA DEL 10% POTREBBE ESSERE TOCCATA
Più tasse sulle cose. Meno tasse sulle persone.
Un primo, “equo”, scambio potrebbe essere proprio questo.
Ovvero, aumentare l’Iva, ma diminuire l’Irpef. Alzando di uno o due punti l’aliquota ordinaria dell’imposta sui consumi, oggi al 21 per cento (e forse di uno anche l’aliquota ridotta del 10 per cento). In contropartita, ridurre i primi due scaglioni di Irpef al 22 e 26 per cento: un punto in meno dei livelli attuali.
Non proprio uno scambio alla pari, almeno per le famiglie italiane: 6,3 miliardi in più dagli scontrini, 4,2 miliardi in meno nelle dichiarazioni dei redditi, almeno secondo le proiezioni della Cgia di Mestre.
Ma di certo un segnale del percorso che il governo Monti intende seguire in ambito fiscale: graduale riduzione delle tasse sulle persone e sul lavoro (Irpef e Irap) “finanziata da un aumento del prelievo sui consumi e sulla proprietà “, ha detto il professore nel suo discorso alle Camere per la fiducia. In pratica, Iva e Ici.
Il paracadute Iva di certo porta rapidamente denari in cassa.
Ma deprime i consumi, accelera l’inflazione, erode il potere d’acquisto.
Senza contare l’incentivo all’evasione, già fortissima in questo campo (nell’area Ocse l’Italia fa meglio solo di Turchia e Messico nel rapporto tra gettito Iva effettivo e teorico).
E con una pressione fiscale che il Documento di economia e finanza (nella Nota aggiornata lo scorso settembre) stima pari al 43,9% nel 2013 – record in Europa – si tratta di una leva da azionare con cautela.
Un punto di Iva in più vale 4,2 miliardi annui (lo riporta la Relazione tecnica alla manovra d’agosto).
Se dunque l’aliquota ordinaria, che colpisce la quasi totalità dei beni di consumo, passasse dal 21 (livello appena rivisto all’insù di un punto proprio dalla manovra estiva) al 23 per cento, lo Stato incasserebbe ben 8,4 miliardi.
Di questi 6,3 verrebbero dalle tasche di 25 milioni di famiglie italiane.
Su cui graverebbe di nuovo l’Ici sulla prima casa (si chiamerà Imu, Imposta municipale unica) e la Res (nuova tassa comunale su Rifiuti e servizi).
Alla fine, ipotizza la Cgia, un esborso annuo medio di 483 euro a famiglia (ipotesi Imu al 6,6 per mille e Res al 2 per mille).
E 16 miliardi totali per le casse pubbliche.
Alzare anche l’aliquota Iva ridotta del 10 per cento è ancora più insidioso.
Intanto l’aumento di un punto vale “solo” 854 milioni all’anno.
Ma si abbatte su alcuni beni alimentari di base (carne, pesce, uova, acqua, frutta e verdura, pasticceria), alberghi, bar, ristoranti, farmaci, trasporti, spettacoli, elettricità , gas, telefono.
Carne viva.
La Banca d’Italia, rielaborando i dati Istat sui consumi e la spesa delle famiglie italiane, avverte che gli effetti redistributivi di eventuali inasprimenti dell’Iva non sono omogenei: “L’aumento dell’aliquota ordinaria incide maggiormente sulle famiglie con redditi più elevati. Quello delle aliquote ridotte incide significativamente sulle famiglie in condizioni economiche meno favorevoli”.
Nel primo caso, il rialzo di un punto (ad esempio dal 21 al 22 per cento) pesa sul 21 per cento della spesa delle famiglie del primo decile (le più povere) e sul 36 per cento per il decile più alto (le più ricche).
Al contrario, nel secondo caso (Iva dal 10 all’11 per cento) la quota di spesa interessata è il 26 per cento dei meno abbienti e il 21 per cento dei benestanti.
Coniugare rigore, crescita ed equità – il leit motiv del governo Monti – è anche considerare questi rapporti.
E incidere su evasione, elusioni, frodi carosello.
Che rendono l’Iva (95 miliardi di entrate nel 2010, il 6 per cento del Pil) un’imposta soggetta a “degrado” del gettito.
Nel 2006, secondo uno studio della Commissione europea, il gettito effettivo dell’Iva italiana era del 22 per cento inferiore a quello teorico, contro il 12 del complesso dell’Ue.
Un triste primato.
Valentina Conte
(da “La Repubblica“)
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