Marzo 29th, 2025 Riccardo Fucile
“TANTI INDIZI, COME I DAZI COMMERCIALI, FANNO PENSARE CHE LA VOLONTÀ DI DIVIDERE LE DUE SPONDE CI SIA GIÀ, MA VIENE DA WASHINGTON”…“CI SIAMO DIMENTICATI DI QUANDO SALVINI ANDÒ A MOSCA INDOSSANDO UNA MAGLIETTA CON L’IMMAGINE DI PUTIN, CON IL DITONE ALZATO?”
“Resistenza, resistenza, resistenza”. Gianfranco Fini, ex leader del Movimento sociale italiano e poi di Alleanza Nazionale, già ministro degli Esteri e presidente della Camera dei deputati, non ha dubbi sul ruolo che l’Europa deve giocare in Ucraina: “Dobbiamo stare al fianco di Kiev fino alla fine”.
Fini apprezza la prudenza di Giorgia Meloni, ma mette in guardia la premier sul rapporto con Stati Uniti: “Anche per lei arriverà il tempo della verità, è sicura che Trump ci consideri suoi alleati?”.
Presidente Fini, partiamo dalla stretta attualità internazionale. Ieri, il vertice di Parigi ha messo allo stesso tavolo un gruppo di leader europei sì volenterosi, ma di certo
poco uniti. Come giudica l’esito dell’incontro?
“Penso sia positivo che siano state mantenute le sanzioni alla Russia, con buona pace di Putin. Una decisione unanime accompagnata da un altro consenso condiviso: non si può abbandonare l’Ucraina a se stessa, bisogna continuare a sostenerla con determinazione”
Però Francia e Regno Unito avanzano per conto loro, proponendo una forza di rassicurazione con militari franco-britannici in Ucraina. È la soluzione giusta? L’Italia si è sfilata.
“Era scontato che ci fossero delle divisioni circa la possibilità o l’opportunità di una presenza di soldati delle forze armate dei Paesi dell’Ue sul territorio ucraino. Non si è meravigliato nessuno. E ricordo che non si è opposta solo l’Italia, ma anche la Spagna e la Polonia. Le perplessità sono più che legittime, sono fondate…”
Cos’è una pace giusta?
“Questo è il punto dolente, perché se guardiamo alle dichiarazioni russe, a quelle americane e a quelle ucraine, tutti chiedono una pace giusta, ma la intendono in modo molto diverso. Tra Mosca e Kiev c’è un’interpretazione non solo non coincidente, ma opposta nel merito: per Kiev, la pace giusta non può avvenire con l’amputazione del 20% del territorio nazionale. Sarebbe una resa più che una pace. E gli ucraini hanno ragione a chiedere sicurezza, per difendersi qualora ci sia una nuova aggressione russa. Non va dimenticato che la Crimea fu conquistata dopo i cosiddetti protocolli di Minsk”.
E Mosca?
“Il Cremlino non ci pensa nemmeno lontanamente ad accettare queste richieste e finge di non capire in cosa consiste la sicurezza dell’Ucraina. Mosca non accetterà mai non solo l’ingresso dell’Ucraina nella Nato, ma anche nell’Unione europea”
Donald Trump non sembra volersi soffermare su tutti questi particolari. Il presidente Usa va dritto al sodo.
“Pur di presentarsi al mondo come colui che ha fatto la pace, Trump dice che la posizione russa è ragionevole. Se così sarà anche in futuro, questo porrà inequivocabilmente un problema a tutti. Avallando le richieste di Mosca, gli Stati Uniti genereranno conseguenze, di cui anche il governo italiano non potrà non prendere atto negativamente”.
Da mesi, Giorgia Meloni sta insistendo su un impegno militare, di pace, solo sotto l’egida dell’Onu.
“Credo che quella del governo sia l’unica posizione possibile. Altrimenti Mosca avrebbe ragione nel sostenere che la Nato è in guerra con la Russia. Detto ció, se qualcuno mi dice che la proposta di caschi blu in Ucraina può essere approvata al Palazzo di vetro, io gli chiedo se fa sul serio. Figuratevi se la Russia, che ha il diritto di veto (in Consiglio di Sicurezza, ndr), avallerebbe mai una proposta del genere. E la Cina non credo si comporterebbe diversamente.
Presidente, quindi fino a che punto dobbiamo sostenere Kiev?
“Resistenza, resistenza, resistenza. Senza tentennamenti e finché necessario. Lì c’è un popolo europeo aggredito militarmente, non possiamo abbandonarlo. Gli ucraini sanno cosa vuol dire stare sotto il dominio di Mosca, non vogliono diventare un vassallo come la Bielorussia”.
Si aspettava un atteggiamento così decisionista degli Stati Uniti? Che giudizio dà dei primi mesi dell’amministrazione Trump?
“Già in campagna elettorale e per certi aspetti anche nel primo mandato, Trump aveva fatto capire molto. Il suo obiettivo è America First, qualcosa di simile alla dottrina Monroe: l’America agli americani. Una fortezza autosufficiente e invincibile, non a caso nel mirino di Trump c’è anche il nord degli Stati Uniti, cioè il Canada”.
In un’intervista al Financial Times, Giorgia Meloni si è definita più vicina a Trump che a certi leader europei. Che ne pensa?
“Credo di capirne la ragione. Non c’è ombra di dubbio che chi ha una cultura politica conservatrice, chiamiamola così per comodità di linguaggio, sia lieto del fatto che il presidente degli Stati Uniti condanni in modo nettissimo la subcultura woke, il politicamente corretto, la cosiddetta cancel culture”.
Ecco, la premier ha detto di apprezzare e condividere il durissimo discorso che il vicepresidente JD Vance ha tenuto alla conferenza di Monaco. Un attacco deciso all’Europa, non trova?
“Ho riascoltato quel discorso. Vance non ha modi raffinati, certo. Quando fa riferimento al Quinto emendamento, alla libertà di parola, dice che di quella vulgata woke non se ne poteva più e interpreta il sentimento di tanti cittadini statunitensi, non solo repubblicani. D’altronde, è un delirio nato in una quella sinistra californiana che voleva buttare giù le statue di colombo perché, scoprendo l’America, aveva reso possibile secoli dopo la deportazione di schiavi neri. Un estremismo non solo lessicale, un insulto alla storia oltre che al buon senso. Attenzione però al rischio insito al modo in cui Trump e Vance affrontano la questione”.
Quale?
È giusto sostenere che in natura non c’è il genere X, ma c’è il maschile e il femminile ma sarebbe semplicemente disastroso se da ciò scaturisse una politica di discriminazione verso gli omosessuali o i transessuali”.
Ma Giorgia Meloni che c’entra con questo discorso?
“Intendo dire che le destre devono esser coscienti che, politically correct o meno, l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge è un diritto inattaccabile e inalienabile, un pilastro delle democrazie autentiche. Fidarsi eccessivamente di Trump e difenderlo aprioristicamente è eccessivo”.
Perché la premier sta mantenendo un equilibrismo tra Europa e Stati Uniti?
“Ha ragione a dire di non voler dividere le due sponde dell’Atlantico, ma tanti indizi, o qualcosa di più pensando ai dazi commerciali, fa pensare che forse la volontà di dividere le due sponde ci sia già, ma viene da Washington.
Dalle chat rivelate dall’Atlantic, in cui compaiono J.D. Vance e altri membri dell’amministrazione, è chiaro il disprezzo dei nuovi potenti di Washington per noi europei. Tutto poi confermato pubblicamente da Donald Trump.
“Ci definiscono parassiti, scrocconi, free-rider. Ma anche qui va fatta chiarezza: è chiaro che i Paesi europei devono sostenere di più i costi complessivi della Nato. In questo senso, quello di cui ci accusa Trump è analogo a quel che dicevano nel passato presidenti americani del partito democratico. Può piacere o meno. Se, al contrario, per parassiti intende che non ci si possa fidare dell’Unione europea, perché è nata per “fregare” gli Stati Uniti, è tutta un’altra storia…”
Ma non trova forzata la difesa di Meloni nei confronti dell’amministrazione Trump?
“Per ora la posizione di Meloni è obbligata, però arriverà l’ora della verità”.
Quando?
“Quando le carte saranno scoperte e si potrà giudicare con certezza se la pace raggiunta sarà giusta oppure no, se sarà stato sacrificato il popolo ucraino e consacrata la vittoria di Putin oppure no”.
Insomma, un problema che prima o poi non sarà più rimandabile per Meloni.
“Siccome è una donna intelligente, mi permetto di consigliarle di mettere in conto che è giusto voler essere ancora amici degli Stati Uniti, ma è sacrosanto chiedersi se il sentimento trovi riscontro nell’attuale dell’inquilino della Casa Bianca. Va detto che cosa Trump intenda davvero per pace giusta farà comprendere se l’America è ancora convinta che non ci può essere né pace né giustizia se si nega con la violenza ai popoli di autodeterminarsi”.
Sempre nell’intervista di FT, Meloni definisce “infantile” chi le chiede di scegliere da che parte stare, se con l’Ue o con gli Usa.
“Quando la sinistra italiana glielo chiede, si comporta davvero in modo infantile. Nessuno chiede ai laburisti inglesi se stanno con Trump o con l’Ucraina”.
Da ex ministro degli Esteri non vede una certa confusione nel governo in merito alla linea internazionale? Esistono più voci dell’esecutivo. Converrà che l’irritazione del ministro Antonio Tajani di fronte a un Salvini che attua una politica estera parallela è comprensibile
“Siamo un Paese unico. Mentre succede quel che succede in Russia, Ucraina ma anche a Gaza, noi ci chiediamo se Prodi ha tirato o meno i capelli a una giornalista o se quel che ha detto Salvini è tattico o strategico. Chiacchiere inutili, le polemiche in maggioranza è chiaro che ci sono, ma derivano da ragioni di bottega, servono per avere un voto in più alle prossime regionali. Quel che conta è come la maggioranza voterà in Parlamento, su documenti che abbiano una autentica rilevanza. Comunque se Atene piange, Sparta non ride, perché a sinistra tra Pd e 5 Stelle sull’Ucraina c’è una divisione ancora più profonda.
Diciamo che però la linea filo-trumpiana di Salvini si può leggere come una certa fascinazione anche per la Russia di Putin, o no?
“Salvini… ci siamo per caso dimenticati di quando andò a Mosca indossando una maglietta con l’immagine di Putin, con il ditone alzato? Le sue passate e attuali, seppur malcelate, simpatie per Mosca non autorizzano a pensare che, qualora il presidente del consiglio e il ministro degli esteri Tajani dovessero esprimere un giudizio sulla conclusione delle trattative non gradito a Putin, da ciò Salvini trarrebbe la conclusione di far cadere il governo”
(da Huffingtonpost)
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Marzo 29th, 2025 Riccardo Fucile
LA COMUNITÀ MUSULMANA USA È INFURIATA PER UN TATUAGGIO, SFOGGIATO DA HEGSETH DURANTE LA SUA VISITA A PEARL HARBOR, CON LA PAROLA ARABA “KAFIR”, CHE SIGNIFICA “INFEDELE”: “È UNA DICHIARAZIONE DI OSTILITÀ VERSO L’ISLAM”
L’amministrazione Trump ha fretta di archiviare il Chatgate, ma adesso sarà più
difficile. Il giudice federale James Boasberg, lo stesso che aveva bloccato le deportazioni di immigrati, ha ordinato il congelamento della conversazione in cui il capo del Pentagono Pete Hegseth, il 15 marzo, aveva rivelato in anticipo il piano d’attacco agli Houti, in Yemen.
Boasberg ha accolto la richiesta presentata da American Oversight, noprofit per la difesa della trasparenza governativa, che aveva chiesto di non far cancellare in
automatico tutto il materiale condiviso nel gruppo di cui facevano parte diciotto persone, tra cui il vicepresidente degli Stati Uniti J. D. Vance, il segretario di Stato Marco Rubio, il consigliere alla sicurezza nazionale Mike Waltz e il direttore del magazine The Atlantic Jeffrey Goldberg.
La posizione del segretario alla Difesa, che aveva usato una piattaforma non autorizzata dal protocollo di sicurezza, sta diventando più difficile. La Casa Bianca difende Hegseth ma lo staff di Trump, secondo Politico , considera troppi gli errori in cui il capo de Pentagono è incappato.
Sui social Hegseth è stato ribattezzato “WhiskyLeaks”, gioco di parole che combina “whisky”, a causa dei suoi ripetuti problemi di alcolismo, e “Wiki-Leaks”, il sito che divulgò anni fa documenti riservati. Hillary Clinton, sul New York Times, ha commentato il nuovo caso: «Non è l’ipocrisia a infastidirmi, è la stupidità».
Secondo un sondaggio di You-Gov, 3 americani su 4, incluso il 60 per cento di repubblicani, considera il Chatgate una grave violazione della sicurezza. Un altro caso è quello del dipartimento della Sicurezza interna: in un giro di mail in cui si preannunciava un piano per la deportazione di immigrati, nell’elenco era stato inserito per errore, anche lì, un giornalista. Le informazioni non erano riservate, ma il caso ha suscitato nuovi dubbi. A differenza del Chatgate, in questo caso una testa è saltata: quella della sconosciuta dirigente interna che ha ammesso l’errore.
Un tatuaggio del segretario alla Difesa Pete Hegseth scatena polemiche all’interno della comunità musulmana. Nelle foto pubblicate durante la sua visita a Pearl Harbor, il capo del Pentagono ha sfoggiato sul bicipite sinistro la parola araba kafir, che significa “infedele” o “non credente”.
Secondo il giornalista musulmano Tam Hussein, il gesto equivale a una “dichiarazione aperta di ostilità” verso l’Islam. Non e’ chiaro se si tratti di un nuovo tatuaggio, poiche’ secondo il Guardian Hegseth sembra averlo avuto anche in un’altra foto Instagram del luglio 2024.
“Non si tratta solo di una scelta personale, è un chiaro simbolo di islamofobia da parte dell’uomo che supervisiona le guerre degli Stati Uniti”, ha commentato Nerdeen Kiswani, attivista filo-palestinese di New York. “Tatuarsi la parola araba kafir sul corpo è una dimostrazione sia di ostilità anti-musulmana che di insicurezza personale”, ha detto invece a Newsweek Nihad Awad, direttore esecutivo nazionale del Council on American-Islamic Relations.
(da La Repubblica)
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Marzo 29th, 2025 Riccardo Fucile
CI SARA’ UNA PIOGGIA DI RICORSI E UN AUMENTO DEI COSTI PER LA SCENEGGIATA SOVRANISTA (TRIPLICATI)… COSA ASPETTA LA CORTE DEI CONTI A MANDARE LA FATTURA AI RESPONSABILI?
La data da segnare sul calendario è quella di lunedì 31 marzo. Quel giorni il centro di Gjader in Albania tornerà ad “accogliere ospiti”. Ma non più le persone salvate in mare. Ma irregolari trasferiti direttamente dall’Italia. I
l decreto di due soli articoli approvato ieri dal consiglio dei ministri rimette però al lavoro solo il Cpr che ha 48 posti. Quello di Shengjin da 880 invece resterà in stand by. E pazienza se attualmente i 10 cpr italiani non contengono che alcune centinaia di persone. Ma secondo gli esperti «un migrante che deve essere rimpatriato può essere trasferito in uno Stato terzo solo con il suo consenso, non da trattenuto». E questo potrebbe diventare un altro guaio per il governo.
Il decreto
Il decreto di ieri amplia la capacità di accoglienza del Centro di permanenza per i rimpatri. Passerà da 48 a 144 posti letto. Sono 1200 i posti totali dei Cpr italiani. E se ne stanno costruendo altri cinque. In attesa del pronunciamento della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, che arriverà poco prima dell’estate. E del regolamento dell’Ue su immigrazione e asilo atteso per giugno 2026. Secondo il Viminale però il decreto non è in contrasto con l’articolo 3 della direttiva 115 del 2008. Perché «avverrebbe in una struttura prevista dalla legge italiana, alle condizioni e con tutte le garanzie poste dalla normativa nazionale e dell’Unione e sotto la responsabilità dello Stato italiano». Anche se lì gli irregolari non potranno essere trattenuti per più di 18 mesi. D’altronde, spiega il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, «già adesso molto spesso un cittadino trattenuto a Milano viene trasferito a Caltanissetta».
Il Tavolo Asilo e immigrazione
Il Tavolo asilo e immigrazione dice che il Cpr in Albania «è un progetto che va sbattere contro la direttiva Ue sui rimpatri». Il ministro stesso non esclude che «ricorsi e cavilli giuridici» potrebbero farlo naufragare. «Noi lo applicheremo convinti che sia sostenibile da un punto di vista giuridico. Poi vedremo». I viaggi saranno in aereo o in nave a seconda della logistica e della distanza. E non ci saranno «costi agguntivi», sempre secondo l’esecutivo. Gianfranco Schiavone, giurista dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), dice a Repubblica che la trasformazione di Hjader «non cambierà assolutamente nulla rispetto al quadro della gestione dell’immigrazione irregolare in Italia».
Il 50%
Perché già oggi il 50% degli stranieri trattenuti in un cpr esce per mancata proroga o per decorrenza dei termini. In Albania ci saranno da pagare le indennità di trasferta del personale. E la permanenza fino a 18 mesi fa il paio con la circostanza che a Gjader l’ospitalità costa più cara che in Italia. Schiavone spiega anche che «non è possibile sostenere che i centri sono conformi al diritto Ue». Perché la Corte costituzionale albanese ha verificato che non ci sono cessioni di territorio. E quindi i centri sono all’estero: «Nel diritto europeo per allontanamento si intende unicamente quello dal territorio dei Paesi membri ed eventualmente in funzione di un accordo con un Paese di transito che però si assume la responsabilità piena della gestione della persona».
Il consenso al trasferimento
Silvia Albano, presidente di Magistratura democratica e giudice della sezione immigrazione del Tribunale di Roma che ha bocciato le prime convalide, ribadisce
che la questione del consenso al trasferimento esiste. In un’intervista a Repubblica la giudice spiega che la competenza spetta al giudice di pace di Roma. Ma in ogni caso «il centro non si trova in territorio italiano, il protocollo esclude una cessione di territorio da parte dell’Albania. La direttiva rimpatri prevede che un migrante, che debba essere rimpatriato perché destinatario di un provvedimento di espulsione esecutivo, può essere trasferito in uno Stato terzo solo con il suo consenso, ma in questo caso verrebbe mandato in uno Stato terzo da trattenuto».
La domanda di asilo
Poi c’è un’altro problema. A volte la persona trattenuta fa domanda di asilo: «Accade molto spesso e a quel punto il trattenuto nel cpr diventa richiedente asilo, cambiano i presupposti e deve adottarsi un altro provvedimento di trattenimento che dovrà essere convalidato dalla Corte d’appello di Roma. Trovandosi in Albania si apre il problema di quale procedura sia applicabile». E quindi: «La legge italiana e la normativa europea stabiliscono che il richiedente asilo ha diritto a stare nel territorio italiano in attesa della definizione della sua domanda, salvo il caso della procedura accelerata di frontiera. Per coloro che richiedono asilo nei cpr albanesi potrebbero non sussistere i presupposti, fermo restando che pende la questione dei paesi sicuri davanti alla Corte di Giustizia».
I costi
Infine, i costi: «Di fronte al fatto che i cpr italiani sono in parte vuoti, vale la pena di spendere almeno il triplo di quanto si spenderebbe in Italia per mantenere un cpr? Il protocollo, ad esempio, prevede che in Albania debbano essere garantite dall’Italia anche le strutture sanitarie, mentre in Italia l’assistenza sanitaria per i trattenuti è garantita dalla Asl. Sarà difficile rispettare la clausola di invarianza finanziaria».
(da agenzie)
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Marzo 29th, 2025 Riccardo Fucile
LA RISPOSTA IRONICA DELLA GROENLANDIA E DEL CANADA AL MARCHIO DI FABBRICA TRUMPIANO
Quando sentiamo parlare di “MAGA” pensiamo allo slogan coniato da Donald Trump
“Make America Great Again”, trasformato in marchio di fabbrica e indossato in testa dallo stesso presidente americano e da migliaia di suoi sostenitori attraverso l’iconico cappellino rosso. Un simbolo che non è solo propaganda, ma identificazione politica. Oggi, però, queste quattro lettere stanno assumendo un altro significato al di fuori degli Stati Uniti, specialmente in Canada e Groenlandia: “Make America Go Away”. Un’espressione che ribalta il significato originario, affermando una forma di resistenza culturale e politica contro l’egemonia e le mire espansionistiche di Donald Trump
Il cappellino “Made in Groenlandia”
L’ironico e incisivo slogan “Make America Go Away” è diventato virale, soprattutto con l’avvicinarsi della visita di JD Vance in Groenlandia. Online troviamo diversi siti che vendono sticker, magliette e soprattutto i cappellini rossi che imitano quelli originali del movimento americano. La versione groenlandese risulta pubblicata per la prima volta via Facebook da Aannguaq Reimer-Johansen, residente a Sisimiut. Un cappellino simile veniva indossato da una persona intervistata dalla televisione danese TV2, lo scorso 25 marzo.
La versione canadese
«Con il cappellino Make America Go Away puoi dichiararti senza dire una parola» recita la descrizione della versione con la bandiera canadese, in vendita in uno dei tanti siti che abbracciano l’iniziativa.
(da agenzie)
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Marzo 29th, 2025 Riccardo Fucile
OGGI CHI HA POTERE SI SENTE LEGITTIMATO A STABILIRE I SUOI CRITERI DI COMPORTAMENTI E DECISIONI
“Ho perduto la mia reputazione», si disperava Cassio, nell’Otello di Shakespeare, per essere stato destituito dal suo ruolo di luogotenente a causa delle trame di Jago. «Ho perduto la parte immortale di me stesso».
Sono lontani i tempi in cui il sentimento dell’onore andava di pari passo con la coscienza della propria dignità e del riconoscimento pubblico di quelle che ancora si chiamavano virtù. Erano anche i tempi in cui la reputazione era un bene spendibile che generava credibilità e costruiva fiducia, due valori che componevano il capitale sociale della persona e alimentavano la sua considerazione pubblica.
La vergogna di Cassio per la perdita di un bene prezioso, ancorché non dovuta a sue colpe, segnalava l’esistenza di una sensibilità e di un sentimento che consentiva alle persone di regolare vita e condotte secondo principi che collocavano ognuno all’interno di una scala di riconoscimenti sociali che sarebbe stato drammatico perdere.
Oggi richiamare come virtù la capacità di vergognarsi per qualcosa che deroga dai canoni di lealtà, onore, buona fede, rispetto, sembra operazione del tutto opinabile; un tentativo goffo, e un po’ patetico, di richiamare concetti passati di moda. Forse, a ben guardare, sono venute a mancare quelle cerchie di appartenenza che esprimevano canoni di rigore e rettitudine non derogabili per chi volesse continuare a farne parte. Ma forse, ancora di più, ha inciso un progressivo decadere dei sistemi di un potere che, dimentico della missione fondativa di dedizione al servizio pubblico e alla salvaguardia dei valori in cui una comunità potesse riconoscersi, ha debordato per ogni dove, rendendo plausibile per chiunque il non sentirsi colpevole di niente.
Oggi chi ha potere, un potere qualsiasi, da quello politico a quello imprenditoriale, si sente legittimato a stabilire i suoi criteri di valutazione di comportamenti e decisioni che, proprio perché personali, non prevedono ripensamenti. E dunque non sa proprio che cosa sia, voglia dire, o comportare, un sentimento di vergogna. Ci siamo abituati, ognuno in proprio, ad allevare criteri individuali di valore, che regoleranno di conseguenza comportamenti, relazioni, aspirazioni e programmi. Con un principio guida di fondo: tutto è bene se non ci disturba, disposti anche a tollerare, con moderazione, che qualcuno non la pensi del tutto come noi purché non abbia in testa di attentare al nostro territorio di potere.
All’interno di questa deriva crescono generazioni caratterizzate da ciò che Ortega y Gasset chiamava una “ingratitudine radicale”, nel senso che si impara presto a non dovere niente a nessuno, per non essere chiamati a rendere conto di nulla. Salvo poi affiliarsi a cordate promettenti, che sanno di protezione comunque, a patto di una fedeltà senza discussioni o tentennamenti. Come sarebbe possibile sentirsi in difetto e provare vergogna quando si entra a far parte del circuito in cui il potere protegge, anche quando comportamenti e azioni reclamerebbero quantomeno di sentirsi a disagio e di porsi qualche interrogativo?
La vergogna è un sentimento nobile perché ha a che fare con la dignità e l’onore. Gran brutti tempi quando il potere si ingegna ad avvalorare curricoli senza storia per dominare spazi senza progetto né visione, abilitando ognuno a pensare che, comunque, qualcosa gli spetti necessariamente, purché ci si arrenda e ci si accodi. E dunque, per non vergognarsi, vittime ancora di questo sentimento obsoleto e ridicolo che ci prende anche quando toccherebbe ad altri provare vergogna, si è costretti per forza a essere devianti; e orgogliosi, per di più, di una minorità che richiederebbe un ben diverso rispetto. Oppure, si può fare della vergogna che si prova per quello che sta avvenendo e che non siamo stati in grado di contrastare la molla per trovare uno scatto di dignità e gridare pubblicamente allo scandalo di una società e di una politica senza rispetto. Serve comunque coraggio per resistere e non arrendersi a quanto Jago sosteneva, ammonendo un Cassio tutto preso dalle sue ambasce, che «la reputazione è un sovrappiù, vuoto e falso, spesso ottenuta senza merito e perduta senza colpa».
(da repubblica.it)
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Marzo 29th, 2025 Riccardo Fucile
LA MOSSA DI “MAD-VLAD” È FINALIZZATA A TESTARE LA REAZIONE DELL’ALLEANZA ATLANTICA, PER VEDERE SE È DISPOSTA A ENTRARE IN GUERRA CONTRO LA RUSSI
Il quotidiano tedesco Sueddeutsche Zeitung riferisce di un rapporto dei Servizi segreti
tedeschi (Bnd) in base al quale la Russia si prepara a un conflitto sistemico con l’Occidente. Anche se al momento non ci sono prove di un «imminente scontro russo con la Nato», nel documento si fa riferimento alla possibilità che la Russia crei tutte le condizioni necessarie per scatenare una «guerra convenzionale su larga scala» entro la fine del decennio.
La guerra in Ucraina, che dura da più di tre anni, non ha indebolito le forze russe: la Russia è in grado di attaccare uno Stato della Nato. Al momento la Russia è riuscita a superare le difficoltà delle sanzioni e della guerra in Ucraina, anzi, l’economia di guerra produce più di quanto sia necessario per il conflitto contro Kiev. Al momento, l’attuale minaccia di un’invasione russa degli Stati baltici è attualmente considerata piuttosto bassa.
Il piano di Putin potrebbe essere proprio quello di testare la reazione Nato in caso di attacco a uno degli Stati del Baltico. Non molto dissimile il rapporto dei Servizi lituani secondo cui Mosca non sta mostrando seri segnali di disponibilità a scendere a compromessi sul conflitto e potrebbe continuare la guerra in Ucraina almeno per tutto il 2025.
Nel rapporto, gli analisti di Vilnius concludono che la Russia non sarà in grado di scatenare «una guerra convenzionale su larga scala contro la Nato» nel medio termine. Tuttavia, nonostante la guerra in Ucraina, le capacità della Russia sono sufficienti per «lanciare un’azione militare limitata contro uno o più Paesi della Nato». Secondo il documento del Vsd, la Russia ha ancora munizioni sufficienti.
(da La Stampa)
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Marzo 29th, 2025 Riccardo Fucile
SU FARMACI, METALLI E SOPRATTTUTO AUTO, BRUXELLES HA POCO MARGINE NEGOZIALE: L’OBIETTIVO DI TRUMP È RIPORTARE LA PRODUZIONE NEGLI USA
Avanti con i dazi che entreranno in vigore il 13 aprile e colpiranno fino a 26 miliardi di prodotti americani. E poi un nuovo pacchetto per rispondere colpo su colpo alle tariffe che Trump annuncerà il 2 aprile: l’elenco, spiega un portavoce di Palazzo Berlaymont, sarà «ben selezionato per creare il massimo impatto sugli Stati Uniti e ridurre al minimo l’impatto sulla nostra economia».
Potrebbe persino includere anche i servizi, non soltanto i beni, anche se una decisione in merito non è stata ancora presa. A quel punto la Commissione sarà pronta ad affrontare per tutta la primavera una trattativa serrata avendo per le mani una serie di leve: sul fronte commerciale, ma non solo, visto che sul tavolo potrebbero finire anche le cosiddette «barriere non commerciali» (leggasi norme Ue che secondo gli Usa rappresentano ostacoli), gli acquisti di energia (soprattutto Gnl) e potenzialmente anche di armi
Nonostante la situazione sul fronte americano resti estremamente volatile, la missione della delegazione Ue a Washington è servita per capire che il team incaricato dalla Casa Bianca di occuparsi del Commercio è estremamente disposto a negoziare e a farlo in fretta.
Donald Trump vuole chiudere la partita ben prima della pausa estiva per poi dedicarsi alle questioni interne, ma il primo passo sarà quello di mostrare i muscoli. Secondo i piani attuali, il 2 aprile dovrebbero essere presentati i cosiddetti dazi reciproci e quelli del 25% sulle auto, che saranno immediatamente applicativi dal giorno successivo.
Dovrebbero invece entrare in vigore in un secondo momento quelli sugli altri quattro settori che con l’automotive vengono considerati i “Big Five”: farmaceutica, metalli, semiconduttori e legname. La strategia dilatoria risponde all’esigenza di testare la reazione dei mercati.
Su questi settori, così come sulle auto, Bruxelles teme di avere minori margini negoziali perché la nuova amministrazione americana è determinata a riportare la produzione negli Stati Uniti e dunque non è soltanto una questione di scambi commerciali.
Un aspetto che tocca in maniera significativa l’automotive e che potrebbe costringere le case produttrici a rivedere la loro strategia. Dal canto suo, la Commissione cercherà di andare incontro al settore il più possibile: dopo la falsa partenza di martedì, oggi sarà presentato l’emendamento al regolamento sulle emissioni di CO2 che di fatto congelerà le multe per i costruttori nel 2025, spalmando i target su tre anni. La soluzione dovrebbe dunque evitare la necessità di riunirsi in pool con Tesla e la cinese Byd per comprare i loro “carbon credit”.
Nei giorni scorsi, la delegazione Ue guidata dal commissario al Commercio, Maros Sefcovic, ha avuto sei ore di riunioni con il team americano composto dal Segretario Usa Howard Lutnick , dal rappresentante Jamieson Greer e dal capo economista della Casa Bianca.
Sul tavolo non si è parlato di cifre concrete in merito al livello dei dazi che saranno imposti dall’amministrazione Trump, ma gli europei hanno capito che la strategia è chiara: far scattare il conflitto e poi avviare i negoziati da chiudere nel giro di due-tre mesi. Anche se certamente lo status quo non tornerà: alla fine di questa partita, gli Usa saranno certamente più protezionisti di prima. Gli americani si sono molto lamentati delle «barriere non commerciali», ossia degli ostacoli normativi in vigore nell’Ue, anche se il loro impatto non è facile da quantificare.
E sono tornati a insistere sulla questione dell’Iva che Trump considera alla pari dei dazi.
Per l’Ue c’è però un fronte interno da gestire. Le due liste di prodotti che saranno colpiti dai dazi il 13 aprile sono diventate una sola e, su richiesta di alcuni Stati, ci saranno alcuni aggiustamenti «qualitativi», ma non sono previsti stravolgimenti.
In parallelo, partiranno le consultazioni con i governi per affinare la strategia e scegliere quali leve utilizzare nel nuovo pacchetto e nei negoziati, ben sapendo che – alla luce dei diversi interessi – non sarà facile trovare una sintesi. Per questo la risposta andrà ben calibrata, distribuendo il più possibile i potenziali costi: l’intenzione è di avviare le consultazioni non soltanto con i ministri del Commercio, ma di coinvolgere direttamente anche i leader.
Nel frattempo, l’Ue continuerà la sua politica di diversificazione commerciale con gli altri partner: nonostante le minacce di Trump, non intende sganciarsi dal Canada, e già da ieri ha riaperto un canale di dialogo con la Cina.
Per ora la strada del dialogo non sta funzionando. La missione a Washington di martedì scorso del commissario al Commercio Šefcovic non è servita a disinnescare i nuovi dazi e a Bruxelles ora aspettano di vedere cosa deciderà Trump il prossimo 2 aprile, nella cosiddetta «Giornata della Liberazione dell’America», quando dovrebbero entrare in vigore una serie di dazi che il presidente Usa definisce «reciproci» ovvero equivalenti, nella sua visione, a quelli imposti dagli altri Paesi contro gli Usa.
A quel punto la Commissione farà le proprie «valutazioni complessive». Poi il 7 aprile al Consiglio Trade i ministri del Commercio dei Ventisette si confronteranno sui primi orientamenti. Bruxelles deve pesare l’impatto dei nuovi dazi per stabilire le contromisure. Quelle per le tariffe Usa su acciaio e alluminio Made in Eu, che dovrebbero entrare in vigore il 13 aprile, sono state stabilite in 26 miliardi di euro.
Mercoledì si sono concluse le consultazioni con i portatori di interessi sulla lista di prodotti statunitensi da colpire. Ora sono in corso le consultazioni con gli Stati membri. La lista definitiva «sarà selezionata con attenzione — ha spiegato il portavoce — per massimizzare l’impatto sugli Usa e minimizzarlo sulla nostra economia europea» e sarà compilata in modo «giudizioso e ben calibrato».
La Commissione dovrebbe prendere di mira, come già nel 2018, i prodotti situati in Stati politicamente sensibili (a maggioranza repubblicana), senza danneggiare l’interesse europeo. Si tratterà di beni per i quali l’Ue ritiene di avere alternative interne.
L’ipotesi circolata di un dazio del 50% sul bourbon aveva fatto infuriare Trump, che aveva minacciato a sua volta il 200% sui vini europei. Abbastanza per spingere Francia, Italia e Spagna a chiedere di rivedere la lista. Tra i prodotti ipotizzati ci sono la soia della Louisiana, la carne bovina e il pollame del Nebraska e del Kansas, i prodotti in legno della Georgia, Virginia e Alabama.
(da La Stampa)
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Marzo 29th, 2025 Riccardo Fucile
IL COMMISSARIO AL BILANCIO, PIOTR SERAFIN, È STATO CHIARO: BISOGNA RISPETTARE LA TABELLA DI MARCIA CONCORDATA NEL 2020 … È SCONTRO TRA IL MINISTRO DEL TESORO E MELONI, CONTRARIA A UNA PROROGA PERCHÉ NON VUOLE AMMETTERE I PESANTI RITARDI
La prima reazione, a caldo, ha la traccia della chiusura in Europa e della diffidenza a
Palazzo Chigi. Di fronte alla proroga del Pnrr, che Giancarlo Giorgetti si appresta a chiedere all’Ecofin informale dell’11 e 12 aprile, Bruxelles tiene il punto. Così: la scadenza del 2026 non si tocca.
L’Ue non può bloccare a priori il tentativo del ministro dell’Economia, ma il commissario al Bilancio, Piotr Serafin, mette subito le cose in chiaro: il percorso è lungo. Soprattutto richiede il consenso dei Ventisette che siedono nel Consiglio e la ratifica da parte dei parlamenti di tutti i Paesi dell’Ue.
Serafin consegna il messaggio ai parlamentari italiani che lo incontrano nella sala Isma del Senato. A sondare le possibilità di successo della mossa di Giorgetti è la senatrice del Pd, Beatrice Lorenzin. Chiede al commissario europeo se l’Italia può allungare il Piano nazionale di ripresa e resilienza fino al 2027. La risposta, viene
riferito dai dem, è negativa.
Il messaggio è un altro: tutti i Paesi devono impegnarsi a rispettare la tabella di marcia concordata nel 2020. Gli aggiustamenti sono possibili, una nuova revisione sarà ammessa, ma il perimetro delle concessioni si chiude qui.
Quello di Serafin potrebbe non essere un messaggio solitario. Lunedì sera toccherà al collega agli Affari economici, Valdis Dombrovskis, affrontare la questione durante il cosiddetto dialogo con gli europarlamentari. Accanto a lui siederà il vicepresidente esecutivo della Commissione, Raffaele Fitto. La primissima fila dell’esecutivo europeo. E i segnali che nelle ultime ore arrivano da Bruxelles dicono che la posizione sull’ipotesi di un rinvio del Piano italiano sarà ferma. Netta: non è prevista alcuna proroga, il termine è il 2026.
La strada per Giorgetti si prospetta in salita, ma lo schema della proroga poggia sulla possibilità di coinvolgere, già nelle prossime settimane, un numero importante di Paesi. D’altronde, viene fatto notare in ambienti della maggioranza, anche lo scorporo delle spese per la difesa dal deficit era nato come un’iniziativa solitaria, arrivando alla fine a incassare il via libera della Commissione.
Le ragioni del rinvio guardano anche alla tutela dei conti pubblici: spalmare la spesa del Pnrr su un arco temporale più lungo ridurrebbe l’impatto sul debito nel 2025-2026, soprattutto considerando che circa 50 dei 72,3 miliardi legati alle ultime quattro rate del Piano sono prestiti, quindi debito. Senza considerare gli interessi da pagare e il capitale da restituire che fanno riferimento alle prime tranche.
Le ragioni del ministro dell’Economia non convincono Giorgia Meloni. La premier è contraria alla proroga. A chi ha avuto modo di sentirla ha spiegato che una richiesta di rinvio oggi, quando manca ancora più di un anno alla scadenza, rischia di trasformarsi in un boomerang. E quindi di sconfessare il messaggio che lei stessa ha affidato alla premessa della relazione sull’attuazione del Piano approvata ieri dalla cabina di regia che si è riunita a Palazzo Chigi.
Il rischio, per la premier, è passare dal Paese che ha incassato più di tutti in Europa, arrivando prima degli altri anche sulle richieste di pagamento, a quello che autocertifica errori e ritardi. Non solo. Parlare ora di rinvio — è il ragionamento — porterebbe ministeri e Comuni a mollare la presa. Proprio adesso che, come ha sottolineato il titolare del Pnrr, Tommaso Foti, è arrivato invece «il momento della responsabilità».
I dubbi arrivano a lambire i numeri con cui la Ragioneria ha certificato la spesa a rilento. Al punto che nella maggioranza circolano altri dati: la messa a terra delle risorse viaggerebbe con una media di 2 miliardi al mese e sarebbe già arrivata a 75 miliardi, undici in più rispetto a quelli conteggiati dal Mef. La distanza sarebbe
dovuta a una rendicontazione lenta, che non ha ancora preso atto degli ultimi interventi portati a termine. Una distanza che corre velenosa dentro il governo.
(da agenzie)
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Marzo 29th, 2025 Riccardo Fucile
MODA, AGRICOLTURA, MECCANICA, FARMACI: SONO A RISCHIO 9,6 MILIARDI DI DOLLARI L’ANNO DI EXPORT MADE IN ITALY NEGLI USA – L’ISTAT HA INDIVIDUATO 23 MILA AZIENDE “VULNERABILI” … SECONDO FEDERMACCHINE, IL TYCOON SI STA DANDO LA PAZZA SUI PIEDI: “L’INDUSTRIA AMERICANA NON È IN GRADO DI FARE A MENO DEI NOSTRI MACCHINARI..”
Dalle auto ai vini, dai farmaci ai macchinari. Le imprese italiane attendono il 2 aprile per capire in che termini si concretizzeranno le minacce di Donald Trump. Il presidente statunitense finora ha annunciato tariffe del 25% sulle auto importate che si aggiungono ai dazi «reciproci» annunciati in precedenza.
1 Quali settori potrebbero essere colpiti dai dazi e in che misura?
Le tariffe sulle auto potrebbero essere solo il primo passo. Il commissario Ue al Commercio Maroš Šefcovic ha avvertito che la Casa Bianca potrebbe imporre dazi del 20% sulle importazioni da tutti i 27 Paesi Ue.
In Italia, a pagare il prezzo più alto, potrebbero essere quelle 23 mila aziende che l’Istat definisce «vulnerabili» nei confronti della domanda estera. Secondo le stime di una recente analisi della direzione Studi e ricerche di Intesa Sanpaolo, con dazi di almeno il 20%, ipotizzando una piena trasmissione sui prezzi, l’export italiano a rischio può essere quantificato in 9,6 miliardi di dollari.
2 Quanto vale il mercato americano per il Made in Italy?
Nel 2024 le vendite di beni italiani negli Stati Uniti hanno raggiunto i 65 miliardi di euro, con un surplus vicino ai 39 miliardi. L’export italiano è più esposto della media Ue al mercato statunitense: 22,2% delle vendite italiane extra-Ue, rispetto al 19,7% di quelle Ue.
3 Quali sono i settori che esportano di più negli Stati Uniti?
I principali settori in termini di valore dell’export verso gli Stati Uniti, secondo un’analisi del Centro studi di Confindustria, sono: macchinari e impianti (12,4 miliardi), autoveicoli e altri mezzi di trasporto (11,1 miliardi), farmaceutica (8 miliardi), alimentari (4 miliardi), chimica (2,9 miliardi), bevande (2,6 miliardi), abbigliamento (2,4 miliardi). I settori più esposti in termini di flussi, invece, sono le bevande (il 39% delle esportazioni è diretto negli Usa), gli autoveicoli e altri mezzi di trasporto (30,7% e 34,0%) e la farmaceutica (30,7%).
4 Quali saranno le aziende più penalizzate dai dazi annunciati sull’auto?
Quelle maggiormente dipendenti dall’export, anche quelle americane come General Motors e Ford che vedrebbero i loro utili diminuire drasticamente. L’effetto sui costi non sarà trascurabile neppure per Tesla, la casa di Elon Musk. I costruttori tedeschi rischiano di essere tra i più colpiti. Bmw è il maggiore esportatore di auto per valore negli Usa
5 Quali potrebbero essere le ricadute per la componentistica?
I dazi saranno applicati anche alle principali parti importate, come i motori, le trasmissioni e i componenti elettrici. Inoltre, se verranno dichiarati in modo errato, il diritto del 25% verrà applicato all’intero valore del veicolo.
6 Potrebbero nascere nuove alleanze tra i produttori europei di auto?
Questo è un test che riguarda tutta l’Europa, potrebbero nascere accordi con la Francia, e potrebbero entrare in gioco sia Ferrari che Lamborghini che operano da anni negli Stati Uniti.
7 Gli Stati Uniti sono il primo mercato di esportazione per i macchinari industriali, cosa rischia il settore?
«L’industria americana non sarebbe in grado di fare a meno dei nostri macchinari», dice il presidente di Federmacchine Bruno Bettelli. «Devono acquisire un know-how che al momento non hanno. E i macchinari italiani non sono facilmente sostituibili. Nei pezzi unici siamo imbattibili. Per cui è giusto guardare con attenzione alle moss
degli Stati Uniti, ma non dobbiamo farci prendere dal panico. Dobbiamo essere consapevoli del valore straordinario del Made in Italy» […]
8 Nel mirino di Trump c’è anche la farmaceutica, quanto peserebbero i dazi?
Nel 2024 sono stati esportati verso gli Usa farmaci e vaccini per un valore di oltre 10 miliardi. Qualora su questi prodotti venissero introdotti dazi del 25%, si tratterebbe di un costo di oltre 2,5 miliardi, secondo le stime di Farmindustria.
L’introduzione di dazi sui farmaci rappresenterebbe una minaccia innanzitutto per gli americani perché i farmaci acquistati dall’Italia non sarebbero sostituiti facilmente, come ha evidenziato il presidente di Farmindustria Marcello Cattani.
9 Anche la moda guarda con preoccupazione alle minacce, quanto pesano gli Usa?
Gli Stati Uniti rappresentano il terzo mercato per le esportazioni della moda italiana, con un interscambio commerciale da gennaio a ottobre 2024 di ben 4,5 miliardi per la moda e 3,1 miliardi per i settori collegati, secondo le associazioni di categoria.
10 Quale potrebbe essere l’impatto di dazi del 25% sull’agroalimentare?
L’export italiano negli Usa ha superato i 7,8 miliardi di euro nel 2024. Un dazio del 25% costerebbe quasi 500 milioni alla filiera del vino (per il quale c’è la minaccia di dazi del 200%), 240 milioni per l’olio d’oliva, 170 milioni per la pasta, 120 milioni per i formaggi, secondo Coldiretti.
(da agenzie)
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