Aprile 8th, 2025 Riccardo Fucile
NON CI SARÀ NESSUN RINVIO E LE MISURE ENTRERANNO IN VIGORE IL 15 APRILE, IL GIORNO PRIMA DEL VIAGGIO DELLA DUCETTA IN AMERICA… L’ITALIA OTTIENE LA RIMOZIONE DEL BOURBON DALLA LISTA DEI BENI COLPITI DAI DAZI, MA I TEDESCHI MUGUGNANO: “SE OGNI PAESE INIZIA A ELENCARE PRODOTTI PER CUI AVREBBE UNO SVANTAGGIO, NON RIUSCIREMO MAI A STILARE UNA LISTA SENSATA”
L’Italia ha cercato in extremis di convincere i partner europei a rinviare di altre due
settimane l’entrata in vigore dei primi contro-dazi, portandola dal 15 al 30 aprile, vale a dire dopo l’attesa visita della premier Giorgia Meloni a Washington. Ma la richiesta è stata respinta: “Non è possibile”.
E così il ministro degli Esteri Antonio Tajani, presente alla riunione del Consiglio Commercio dell’Ue, si è accodato alla linea comune e ha assicurato il sostegno di Roma alla lista che verrà votata mercoledì.
Un atteggiamento che il commissario europeo al Commercio, Maros Sefcovic, ha accolto positivamente, ringraziando il vicepremier “per aver capito perfettamente lo spirito di questa trattativa”.
Roma avrebbe però incassato l’eliminazione del Bourbon dall’elenco dei beni che verranno colpiti con la prima lista di dazi, che entreranno in vigore il 15 aprile.
Una battaglia condotta in tandem con la Francia (e con il sostegno dell’Irlanda) e finalizzata a non surriscaldare il clima nel settore degli alcolici, con Roma e Parigi che intendono salvaguardare il loro export e scongiurare i dazi al 200% minacciati da Trump.
L’atteggiamento dei due governi ha però creato un po’ di fastidio all’esecutivo tedesco, che non ha risparmiato critiche: “Se ogni Paese inizia a elencare i prodotti per i quali avrebbe uno svantaggio, allora non riusciremo mai a stilare una lista sensata – ha sottolineato il ministro dell’Economia, Robert Habeck a margine della riunione a Lussemburgo –. Se ogni Paese insorge dicendo “abbiamo un problema con il vino rosso, con il whiskey o con i pistacchi, allora non ne verrà fuori nulla”. Ma secondo le indiscrezioni che filtrano a poche ore dalla pubblicazione della lista, la Commissione avrebbe accolto questa richiesta.
Si va dunque avanti con la tabella di marcia prevista. Mercoledì gli Stati voteranno le due liste di beni ai quali verranno applicati dazi in risposta alle tariffe americane su acciaio e alluminio (l’elenco sarà inviato stasera): la prima (dal valore di 4,5 miliardi di euro) entrerà in vigore il 15 aprile, mentre la seconda – pur entrando in vigore lo stesso giorno – sarà operativa soltanto dal 15 maggio (e riguarderà quasi 20 miliardi di beni).
Una strategia per guadagnare ulteriore tempo da sfruttare in eventuali negoziati con gli Stati Uniti, in parallelo con la definizione della terza lista, quella più significativa, che servirà a rispondere ai dazi americani reciproci e a quelli sulle automobili.
“Noi siamo pronti a negoziare con Washington e abbiamo offerto dazi zero sui beni industriali” ha rivelato Ursula von der Leyen. Sefcovic ha confermato che la proposta è stata avanzata in particolare per l’industria automobilistica (dove l’Europa ha dazi al 10%), ma gli Usa sono andati avanti imponendo il 25%. Lo slovacco, però, è ottimista: “Io credo che prima o poi ci ritroveremo seduti al tavolo del trattative per annullare o comunque ridurre i dazi”.
Nel frattempo bisognerà mettere a punto la risposta agli annunci fatti da Trump il 2 aprile. E qui le posizioni dei governi europei divergono significativamente.
Posto che stiamo parlando di un volume di scambi che vale oltre 300 miliardi, i prodotti da colpire non potranno essere trovati soltanto nel settore dei beni, ma bisognerà andare inevitabilmente in quello dei servizi. E quindi gli occhi sono puntati sulle Big Tech.
(da agenzie)
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Aprile 8th, 2025 Riccardo Fucile
MA C’È L’INCOGNITA DELLA COMMISSIONE UE, CHE DEVE DARE IL VIA LIBERA A UNA REVISIONE DEL PIANO … IL CORTOCIRCUITO DEL VIAGGIO DELLA DUCETTA DA TRUMP, PREVISTO IL GIORNO DOPO L’AVVIO DEI DAZI UE
La task force si riunisce quando Piazza Affari ha appena chiuso, distinguendosi per un altro tracollo. Il terzo consecutivo. Giorgia Meloni chiama i suoi ministri a Palazzo Chigi: il titolare dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, per analizzare mercati e prospettive macroeconomiche.
E gli altri per ragionare sull’impatto dei dazi: i due vicepremier Antonio Tajani e Matteo Salvini, Adolfo Urso e Francesco Lollobrigida, insieme a Tommaso Foti. Al termine dell’incontro, la premier fa diffondere una nota in cui si ribadisce che «una guerra commerciale non avvantaggerebbe nessuno, né l’Unione europea né gli Stati Uniti».
Non è un caso che si parli delle aziende, che vivono ore di angoscia. Meloni incontrerà i rappresentanti delle categorie produttive oggi pomeriggio a Palazzo Chigi. A loro assicurerà anche di essere pronta a battersi a Bruxelles per «intervenire sulle regole ideologiche e poco condivisibili del Green deal e sulla necessità di semplificare il quadro normativo».
La premier ritiene che esistano diverse soluzioni per destinare risorse ai settori sottoposti al tornado dei dazi. Il problema è capire quali siano i punti deboli della filiera. Quantificarne le perdite. E costruire la strategia migliore per sostenerle, sapendo che il Pnrr consente solo alcuni tipi di interventi innovativi. È un calcolo scivoloso, ma necessario. Così sul tavolo finisce il Piano nazionale di ripresa e resilienza.
Non un decreto di ristori, che sarebbe di difficile realizzazione: quelli a fondo perduto sbatterebbero contro le regole Ue degli aiuti di Stato, senza contare che i margini del
bilancio sono esigui, se non nulli. Non a caso Meloni e Giorgetti insistono per una sospensione del Patto di stabilità. Al contrario, il Pnrr è uno strumento già a disposizione, con i prestiti inglobati nel debito e ancora un certo margine sulle sovvenzioni.
La trattativa con Bruxelles per la revisione del Piano è già avviata. Ora però si tratta di riadattarla all’emergenza dazi. L’obiettivo è liberare fino a 10 miliardi, da girare alle imprese sotto forma di incentivi. In cima alla lista dei beneficiari ci saranno le aziende dei settori più colpiti dalle barriere commerciali di Donald Trump, come l’agroalimentare. Ecco allora il progetto allo studio. Poggia su un assist costruito in Europa da Raffaele Fitto: la riforma della politica di coesione. La programmazione potrà accogliere i progetti del Pnrr che non riusciranno a essere completati entro la scadenza del 31 agosto 2026.
Il disegno di Meloni parte da qui. Alcuni investimenti saranno spostati dal Piano alla Coesione, liberando circa la metà dei 10 miliardi per le imprese. L’altra metà arriverà da una rimodulazione di Transizione 5.0, i crediti d’imposta per gli investimenti green. Dei 6,3 miliardi previsti dal Pnrr sono stati utilizzati appena 700 milioni. Restano circa 4,3 miliardi, considerando che si stima un utilizzo di altri 1,3 miliardi da parte delle imprese. Quasi tutti i residui finiranno sui contratti di sviluppo.
Aiuteranno le filiere produttive strategiche. La premier è pronta ad accogliere la proposta di Confindustria, ma non vuole che la riallocazione si trasformi in un “liberi tutti”. E quindi dirà no ai finanziamenti a pioggia. Per questo le risorse resteranno dentro il Pnrr, rispettando le milestone del Recovery.
C’è un’altra incognita che pende sui sostegni alle imprese: l’Europa. La Commissione deve dare il via libera alla revisione del Pnrr. I dazi premono, bisogna fare in fretta. Ma il lavoro aggiuntivo richiederà tempo, almeno un paio di settimane. Nel frattempo, Meloni prepara la missione da Trump. La data del colloquio alla Casa Bianca è il 16 aprile, anche se resta un margine per cambiare programma e spostare l’incontro al 17.
(da La Repubblica)
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Aprile 8th, 2025 Riccardo Fucile
“IO LI HO AVVISATI, MA PER LORO È SOLO UNA BUFALA”: ANDREA MALVILLA SCRIVE ALL AGENZIA PER LA CYBERSICUREZZA
Tutto è iniziato il 17 marzo. Andrea Mavilla è un esperto di cybersicurezza. Ha lavorato
per 13 anni in Apple, da sempre si occupa di sicurezza informatica. Durante
una consulenza si imbatte per caso in un portale di lead generation. Ci sono tutti gli amministratori delegati delle principali aziende italiane, tutti i dirigenti e lo stesso vale per ministeri e Presidenza del Consiglio. Con un clic si accede a ruoli, indirizzi email e dati anche personali.
“Dovevo capire in che modo i criminali fossero riusciti ad accedere a dati tanto riservati”, racconta. Dall’amministratore delegato fino all’ultimo centralinista. Dopo ore di analisi davanti al monitor su alcuni software di CRM in cloud e piattaforme di lead generation, inizia a notare qualcosa di anomalo: “Erano presenti dati riconducibili proprio alla società per cui stavo indagando”.
Ma non solo, ci sono anche informazioni sensibili appartenenti a numerosi esponenti di governo.“A quel punto capii che la questione andava ben oltre il caso specifico”. Qui inizia il percorso di Mavilla per avvertire le istituzioni.
Il 24 marzo Mavilla scrive a Matteo Piantedosi direttamente su WhatsApp: “Onorevole ministro Piantedosi, mi permetto di scriverLe in via diretta per segnalarLe una questione che ritengo di estrema rilevanza per la sicurezza nazionale”. E gli spiega: “Durante una mia consueta attività di navigazione con il browser Tor (poi ha verificato anche navigando in chiaro, ndr), ho riscontrato la presenza pubblica e facilmente accessibile di una quantità significativa di dati riconducibili a enti e istituzioni dello Stato. In particolare, oltre a informazioni relative a un’agenzia governativa, risultano esposti anche dati appartenenti a persponale delle forze dell’ordine, tra cui Polizia di Stato, Carabinieri e Guardia di Finanza
Comprendendo la delicatezza del tema, ho ritenuto doveroso segnalare tempestivamente quanto riscontrato sia a esponenti che si occupano di sicurezza nazionale, sia al Commissariato di Pubblica sicurezza online. Tuttavia temo che la gravità del caso sia stata fortemente sottovalutata (…)”.
Nessuna risposta, come comprensibile, e la sensazione, da parte di Mavilla, di essere stato tempestivamente bloccato su WhatsApp dal ministro Piantedosi. Ma Mavilla non si ferma. Il 27 marzo scrive perfino a Juliane Gallina, vicedirettrice della CIA per l’innovazione digitale . Mavilla l’avverte con un messaggio su LinkedIn: “Volevo farle sapere che le ho inviato una email che contiene un rapporto sensibile in merito alla possibile esposizione online di informazioni che riguardano Lei e alcuni suoi colleghi”. Anche la numero della 2 della Cia per l’innovazione digitale, come prevedibile, no gli risponderà mai. Ma c’è qualcuno che finalmente gli risponde.
Quello stesso 27 marzo, infatti, Mavilla viene finalmente contattato dalla Polizia postale. Gli agenti hanno preso sul serio le sue informazioni e vogliono approfondire la situazione.
(da Il Fatto Quotidiano)
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Aprile 8th, 2025 Riccardo Fucile
NON SERVONO DOTI DA HACKER: BASTA INSTALLARE UN PLUG-IN DI
UN PORTALE DI “LEAD GENERATION” E IL GIOCO È FATTO … A SCOPRIRE L’ENORME FALLA, DEGNA DEL “SIGNAL-GATE” DELLA CASA BIANCA, È STATO UN ESPERTO DI INFORMATICA, ANDREA MALVILLA, CHE HA SEGNALATO TUTTO ALL’AGENZIA DI CYBERSICUREZZA. RISPOSTA? “BAH, A NOI PARE UNA BUFALA”. MA NON LO È AFFATTO
C’è, tanto per iniziare, il numero del cellulare del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Abbiamo verificato che fosse davvero il suo. Sì, lo è. E non è quello istituzionale, ma quello che usa per i contatti privati, con gli amici o i familiari.
Per una cinquantina di euro al mese potreste aggiungerlo alla vostra rubrica insieme, giusto per fare un altro esempio, con quello della premier Giorgia Meloni, in modo da avere l’accoppiata presidenziale. Anche in questo caso non si tratta del cellulare istituzionale, ma di quello privato, al quale potreste aggiungere un suo indirizzo email personale.
Allo stesso prezzo potreste aggiungere i contatti del ministro della Difesa, Guido Crosetto, o del ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi. Abbiamo verificato che anche per loro, come per Meloni e Mattarella, si tratta di numeri effettivamente intestati e attivi.
Il punto è che non stiamo neanche parlando di dark web. Avviene tutto alla luce del sole. Con buona pace non soltanto della privacy delle nostre istituzioni, ma anche di basilari regole di cybersicurezza
Per capirci, chiunque entri in possesso di questi numeri, con un minimo di dimestichezza nel campo informatico, potrebbe decidere di geolocalizzare il capo dello Stato o il capo del governo
Per ovvi motivi non divulgheremo il nome delle piattaforme (ne abbiamo contate otto) sulle quali reperire queste informazioni. Ci limiteremo a spiegare il meccanismo che porta a questo risultato.
Si tratta dei cosiddetti portali di lead generation, piattaforme online progettate per raccogliere contatti qualificati (lead) interessati a determinati prodotti o servizi, che poi vengono trasmessi o venduti ad aziende che vogliono entrare in contatto con quei potenziali clienti.
Si navigano facilmente. Si passa da un’azienda all’altra con una semplice ricerca. Per iscriversi è sufficiente avere una email aziendale ed essere disposti a pagare un abbonamento che si aggira sui 600 euro all’anno. O accedere gratis con poche ricerche a disposizione per un periodo di tempo limitato. Le piattaforme più evolute
offrono anche un comodo plug in da installare sul proprio browser con cui si naviga in Rete. E qui viene il bello.
Navigando su Chrome, per esempio, si può entrare normalmente nel social professionale LinkedIn e – utilizzando i plug in in questione – ottenere in tempo reale i dati riservati che non sarebbero altrimenti accessibili.
Di piattaforme (e plug in) simili ne abbiamo trovate almeno 8. Ne abbiamo testate a fondo tre. Hanno sede in Russia, Israele e Usa.
Non bisogna essere James Bond o un hacker professionista, ma un semplice utente, collocato ovunque nel mondo ci sia una connessione, per avere a disposizione quello che, nei fatti, è un enorme database. E nel quale, giusto per fare un altro esempio, abbiamo trovato i riferimenti di Raffaele Fitto, vice di Ursula von der Leyen, ex ministro per gli Affari europei, le politiche di coesione e il Pnrr nel governo Meloni.
A portata di clic ci sono anche 2.125 contatti della Presidenza del Consiglio, 13.822 di dipendenti (ed ex dipendenti) del ministero della Giustizia.
Ben 4.871 profili che fanno riferimento al ministero dell’Interno. E poi 11.688 persone impiegate nel ministero della Difesa, oltre a Inps, agenzie governative, regioni, comuni e così via. Per le forze dell’ordine troviamo i profili di 3.805 dipendenti della Polizia di Stato, 6.301 dell’Arma dei carabinieri, 6.018 della Guardia di Finanza.
A scoprire il meccanismo è stato l’esperto di informatica Andrea Mavilla, e sulla base delle sue scoperte adesso ha avviato un’indagine la Polizia postale
Il punto è che i dati personali spesso vengono volontariamente messe a disposizione di portali o piattaforme social da parte degli utenti quando rilasciano il consenso all’iscrizione. Può anche accadere, però, che i dati personali siano ottenuti attraverso degli attacchi informatici e poi venduti illegalmente sul dark web. E la polizia postale sta innanzitutto indagando sulla “fonte dei dati”
(da Il Fatto Quotidiano)
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Aprile 8th, 2025 Riccardo Fucile
ROBERT SHILLER, ECONOMISTA A YALE E PREMIO NOBEL NEL 2013, AFFOSSA LA STRATEGIA DEI DAZI DI TRUMP: “SIAMO AL PANICO GENERALIZZATO, A UN PASSO DAL PERICOLO CONCRETO DI UNA RECESSIONE GLOBALE”
Robert Shiller, classe 1946, economista di Yale, premio Nobel nel 2013 per i suoi studi
sui comportamenti umani che influenzano le quotazioni, cerca di trovare un barlume di speranza e di razionalità nel caos assoluto in cui il presidente americano ha gettato il mondo. il professore che fu il primo firmatario di un endorsement pubblico per Kamala Harris
Per un attimo a metà mattina (ora americana ndr) si era intravisto un segnale favorevole…
«Sì, anch’io mi sono chiesto cosa significasse l’uscita estemporanea di Kevin Hassett, direttore del Consiglio economico nazionale, sulla moratoria. Dato che qui ormai tutto è possibile, non posso neanche escludere che fosse una mossa concordata per vedere l’effetto che faceva. […] nel frattempo è sceso in campo contro i dazi un
pezzo da novanta come Jamie Dimon, il banchiere più potente d’America, e perfino Musk dà segni di insofferenza. Qualcosa significherà».
Lei è uno dei padri della behavioral economics, l’economia comportamentale: come definirebbe la situazione?
«Per ora siamo ancora al panico generalizzato, a un passo dal pericolo concreto di una recessione globale. Per alcuni aspetti siamo vicini a un bis della Grande Depressione, quando lo Smoot–Hawley Tariff Act del giugno 1930 (la crisi era iniziata il 29 ottobre 1929) introdusse tariffe pesantissime su 20mila prodotti d’importazione e affossò definitivamente l’economia non solo americana. Le tariffe furono ritirate in parte nel 1934 ma bisognò aspettare la fine della guerra perché si avviasse davvero un libero scambio».
Lei ci sta dicendo che dissesti del genere vanno valutati sul lungo termine?
«Esattamente. La guerra commerciale è iniziata e l’aggressore è Trump. Però è troppo presto per prevedere gli sviluppi, anche se le premesse sono inquietanti».
Quello che sconcerta è l’opera di un uomo solo. Ma non ha intorno a sé qualche consigliere in possesso di un minimo di lucidità?
«Purtroppo in Trump si combinano la più sconfortante impreparazione economica e un’ostinazione di tipo adolescenziale nel decidere tutto come vuole lui. Pensa di essere un genio». Se protestano le piazze, la magistratura, la stampa, perfino i finanzieri, forse si riesce a scalfire il muro di gomma. […] Sarebbe troppo pretendere che Trump capisca il senso dei controlli e della separazione dei poteri in democrazia, però pragmaticamente potrebbe rendersi conto che così non può andare avanti».
(da La Repubblica)
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Aprile 8th, 2025 Riccardo Fucile
“SE L’ATTUALE GOVERNO DEGLI STATI UNITI FOSSE ESISTITO NEL XVI SECOLO, SI SAREBBE SCHIERATO CON L’INQUISIZIONE CONTRO GALILEO” … “GLI USA NON SONO PIÙ DALLA PARTE DEL TIPO DI SOCIETÀ E CULTURA IN CUI VORREI VIVERE. IL PRINCIPALE BALUARDO DELLA LIBERTÀ DI PENSIERO, DELLA DIVERSITÀ DI OPINIONE, DELLA SCIENZA E DELL’EDUCAZIONE, PER ORA, È IN EUROPA. QUINDI, PER FAVORE, FATEVI SENTIRE”
Dalla lectio magistralis di Paul Krugman, tenuta nell’ambito del Seminario «La ricchezza delle nazioni e il ruolo dell’architettura per un’economia urbana delle città orientata al benessere umano», organizzato dal Consiglio Nazionale degli Architetti a Padova
Non so quanti di voi lo sanno, ma c’è stato uno scrittore americano importante, Henry Louis Mencken, all’inizio del XX secolo. Una delle sue citazioni chiave è questa: «Per ogni questione complessa, c’è sempre una risposta che è semplice, persuasiva e sbagliata». Siamo in un momento straordinario per l’economia, e più in generale per molte altre tematiche.
Il presidente degli Stati Uniti ha annunciato una serie di dazi di portata enorme. Ma non c’è solo l’aspetto finanziario o le considerazioni economiche (…). Gli scambi commerciali fanno parte di un sistema di accordi internazionali, cominciato – peraltro – proprio dagli Stati Uniti
Noi avevamo introdotto quel sistema già negli anni ’30, molto prima della globalizzazione, con regole, limiti e vincoli. Il libero scambio è uno dei trionfi della diplomazia, perché è lì che siamo riusciti a far sì che le nazioni instaurassero una certa collaborazione. Da allora, abbiamo sempre rispettato le regole.
Una delle cose che mi ha sempre reso orgoglioso, come cittadino americano, è che gli Stati Uniti abbiano stabilito per primi questo sistema, e per tutta la storia ne siano stati il partner principale
Ora abbiamo praticamente buttato per aria tutta la nostra struttura. Abbiamo violato tutte le nostre regole, che erano lì da un sacco di tempo. Quello dei dazi, in realtà, non è un sistema rigido: ci sono opportunità di scostarsi in particolari momenti di stress, però sempre secondo le regole.
Non è che uno fa come vuole, all’improvviso, spiazzando tutti. E c’è un’altra regola fondamentale, che è quella della non-discriminazione: bisogna avere stesse tariffe per tutti, mai differenziarle da un Paese all’altro.
E invece tutto questo è saltato per aria, non esiste più. C’è un sistema di dazi completamente radicalmente diverso adesso (…). Vi chiederete: che cosa può succedere? La risposta, anche per me, è che non lo so. Non so dove ci troveremo tra un anno. Non so neanche dove ci troveremo la prossima settimana. C’è un margine di incertezza enorme, senza precedenti.
Questa situazione non è il prodotto di un lungo processo di pianificazione: è stata messa in piedi in un pomeriggio (…). Le tariffe sono state fissate secondo una formula folle, semplicemente assurda. Non sappiamo chi l’abbia fatta (…). Ma alcuni indizi suggeriscono che l’equazione delle tariffe possa essere stata progettata da ChatGPT.
È possibile che questo enorme cambiamento di politica sia nato da qualcuno nel governo degli Stati Uniti che ha posto una domanda all’intelligenza artificiale, dicendo: «Progetta una politica tariffaria per me». Il giorno dopo il presidente degli Stati Uniti l’ha annunciata.
È una situazione assurda. E, come ho detto, il commercio internazionale è piuttosto complesso. Ho dedicato la mia vita a studiarlo.
Dovremmo anche dire che tutto questo fa parte di un contesto molto più ampio: la politica economica è ormai intrecciata con una guerra culturale. Parliamo di un vero e proprio attacco, un assalto ai principi su cui è stata fondata questa istituzione: un attacco all’istruzione, un attacco alla scienza.
Diciamola così: se l’attuale governo degli Stati Uniti fosse esistito nel XVI secolo, si sarebbe chiaramente schierato con l’Inquisizione contro Galileo. Questo è il punto a cui siamo arrivati. È qualcosa di straordinario, e vedremo come andrà.
Voglio solo dire una cosa, visto che ci rivolgiamo soprattutto a un pubblico europeo: in molti modi, ora tocca a voi. Gli Stati Uniti, almeno per il momento, non sono più dalla parte del tipo di società e cultura in cui vorrei vivere. Il principale baluardo della libertà di pensiero, della diversità di opinione, della scienza e dell’educazione, per ora, è in Europa. Quindi, per favore, fatevi sentire.
(da agenzie)
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Aprile 8th, 2025 Riccardo Fucile
ANGELA MERKEL NEL 2017 AFFERMO’: “GLI USA NON SONO PIU’ I NOSTRI AMICI DI UN TEMPO, DOBBIAMO IMPARARE A DIFENDERCI DA SOLI”
La via l’aveva indicata Angela Merkel nel 2017 quando in un coraggioso discorso
nell’ambito del G7 affermò: “Gli americani non sono più i nostri amici di un tempo, dobbiamo imparare a difenderci da soli” cioè a riarmarci ma prima, e oltre che riarmarci, dovremmo smetterla di disarmarci. A favore dell’Ucraina. La capacità di guerra dell’Ucraina secondo il Global Firepower Index è superiore a quella della Germania, rimpinzata delle armi più sofisticate molte delle quali provenienti proprio dagli arsenali tedeschi.
L’Ucraina quindi invece di essere l’avamposto dei valori democratici dell’Occidente (così dice la narrativa ufficiale, ma l’Ucraina è in realtà un sistema totalitario dove comanda un unico partito, quello di Zelensky, e i media che possono esprimersi sono solo quelli che piacciono a Zelensky) potrebbe rivelarsi, mutata la situazione geopolitica (e con Trump cambia in continuazione), un pericolo per i Paesi dell’Unione europea. I soldati ucraini hanno poi esperienze di guerra da quando nel 2014 aggredirono il Donbass e poi nel 2022 furono costretti a difendersi dall’aggressione russa. I soldati europei non hanno di queste esperienze, tranne forse i francesi quando furono gli artefici dello smantellamento, pro domo sua e contro l’Italia, del regime del colonnello Mu’ammar Gheddafi, un’operazione sciagurata come dimostra la situazione attuale della Libia, dove nel groviglio di milizie che si
combattono l’un l’altra emerge l’Isis. I cosiddetti “mercanti di morte” per lasciare le coste libiche devono pagare una tangente allo Stato Islamico che vinto a al-Raqqa e Mosul nel 2019 si è espanso poi in mezzo mondo, oltre che in Libia spadroneggia oggi in Somalia, dove gli al-Shabaab gli hanno giurato fedeltà, in Kenya, in Pakistan, in Bangladesh e poi in molti altri Paesi dell’Africa nera. L’Isis è anche presente in Afghanistan, nonostante i Talebani siano stati gli unici a combatterlo seriamente, ma stretti fra la necessità di fronteggiare gli occupanti occidentali e gli stessi Isis, hanno dovuto cedere un po’ di terreno. Nella sciagurata invasione dell’Afghanistan del 2001, oltre agli americani, c’erano forze francesi, tedesche e anche italiane. Gli italiani, secondo il loro costume di passare al momento opportuno dalla parte del vincitore (Prima guerra mondiale, Seconda guerra mondiale dopo il tracollo del regime nazista), fecero subito degli accordi con i comandanti talebani.
C’è da aggiungere che nessuna esercitazione può sopperire all’esperienza sul campo. Quando il soldato sa di poter morire in battaglia la sua forza insieme al suo coraggio si moltiplicano.
E allora cosa possiamo fare per rafforzare un’Europa attualmente imbelle e in balia, anche se in modo diverso, delle grandi Potenze, Stati Uniti, Russia, Cina? Innanzitutto e forse soprattutto bisogna che si riarmi la Germania. La Germania è oggi un Paese democratico che ha pagato tutti i suoi debiti con la storia. Ed è oggi incomprensibile che alla Germania sia proibito di essere una potenza nucleare secondo il Trattato di non proliferazione nucleare del 1968. La Bomba ce l’hanno oggi, oltre che le grandi Potenze, Stati Uniti, Russia e Cina, anche il Pakistan, la Corea del Nord e Israele che nega di averla ma ci tiene a far sapere che ce l’ha. Ce l’ha anche la Francia ma sulle capacità militari dei francesi c’è sempre da dubitare, sono bravissimi a sedersi al tavolo dei vincitori anche quando una guerra l’hanno persa, come è stato nell’ultimo conflitto mondiale tanto che oggi siedono, insieme a Usa, Russia e Gran Bretagna, i veri vincitori della Seconda guerra mondiale, nel Consiglio di sicurezza dell’Onu.
Quindi, innanzitutto, riarmare la Germania con Atomica compresa. Si obietta che c’è l’accordo del 1968. Ma gli accordi valgono, secondo il diritto internazionale, rebus sic stantibus e siccome le cose cambiano in continuazione si può dire che gli accordi sono fatti solo per essere violati. In ogni caso da quegli accordi di “non proliferazione” è passato più di mezzo secolo e molta acqua sotto i ponti. Quindi Deutschland über alles, quindi viva la Germania che potrà portare in campo oltre alle armi che adesso non ha la rigida disciplina tedesca (vedi l’estraniante racconto di Christian de la Mazière raccolto nel libro Il sognatore con l’elmetto, un francese che si arruolò nelle Waffen SS e, nonostante la guerra perduta – i russi erano già davanti Berlino – i tedeschi si sottoponevano a esercitazioni di tutti i tipi, pratiche e teoriche, nonostante l’obiettivo fosse diventato impossibile).
Sì quindi al riarmo urgente dell’Europa. Del resto gli antichi Romani che non erano gli ultimi della pista in queste questioni dicevano: “Si vis pacem, para bellum”. Un orientamento che Mussolini tentò di imitare, anche se gli italiani che aveva a disposizione per le sue ambizioni non avevano la tempra degli antichi Romani. Aggiungo anche che il Duce fu il migliore alleato degli Alleati: aprì il fronte greco, “spezzeremo le reni alla Grecia” e dovette intervenire la Wehrmacht, aprì il fronte africano a cui Hitler non pensava e le forze nazifasciste furono sbaragliate a El Alamein dove gli italiani, per una volta, si batterono valorosamente come riconobbe il feldmaresciallo Rommel”. Quindi in definitiva, e con buona pace, è il caso di dirlo, dei lettori del Fatto, viva la guerra, abbasso la pace.
Massimo Fini
(da il Fatto Quotidiano)
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Aprile 8th, 2025 Riccardo Fucile
VOGLIONO SCARDINARE IL LASCITO PIU’ POTENTE DEL SECONDO DOPOGUERRA
Ha dichiarato Mark Leonard, direttore del Consiglio europeo per le relazioni estere, che «l’intensità, la velocità, l’aggressività e l’imperialismo di questa amministrazione [statunitense] hanno sorpreso molti. La sfida per l’Europa è come affrontare un’America predatrice disposta a sfruttare la vulnerabilità degli alleati per estorcergli qualcosa, che si tratti di un accordo sui minerali in Ucraina o di tentativi di annettere la Groenlandia o del modo aperto con cui Donald Trump sta cercando di dividere la Gran Bretagna dall’Ue con accordi commerciali differenziati».
La vendetta
Con gli alleati storici Trump è arrogante e rapace. È risentito, per un assurdo senso di inferiorità rispetto all’Europa che, pare, covi nel suo animo dalla giovinezza. E, adesso, che ha il potere sul mondo, si vendica. Ragioni infantili, ma ragioni dopo tutto.
Come vendicarsi se non ridurre il vecchio continente a una miscellanea di paeselli litigiosi e deboli? È infatti l’Unione Europea che dà rilevanza ai paeselli – se l’Ungheria fosse separata dalla UE non farebbe testo; è l’Ungheria nell’Unione che fa di Viktor Orbán un cuneo divisivo e un modello per le destre.
Insomma, l’Europa va tolta di mezzo. E le tariffe possono farlo. Come ha spiegato
Francesca Debenedetti, hanno il compito di indurre Bruxelles a far cadere, per esempio, controlli sulle merci americane e regolamenti sulla IA. Dividere l’Europa, dunque.
E, soprattutto, far sentire gli stati europei peggio trattati dei naturali avversari, la Russia e la Corea del Nord. Certo, che questi paesi non siano stati vittime della scure trumpiana non dimostra altro se non che non hanno rapporti commerciali con gli States.
Tuttavia, la presentazione alla Casa Bianca in stile hollywoodiano della tabella dei paesi colpiti dai dazi ha intenzionalmente voluto mettere in luce le assenze accanto alle presenze, per invitare a fare la conta dei nemici e degli amici. La Russia ha subito capito il messaggio.
Usa e Russia contro Europa
Oltre a rallegrarsi per i danni all’Europa che causerà la politica tariffaria di Trump, l’ex presidente russo, Dmitri Medvedev ha citato il famoso adagio cinese per cui la Russia «siederà sull’argine del fiume, aspettando che il corpo del nemico galleggi. Il cadavere in decomposizione dell’economia dell’Unione Europea».
Ecco la Santa Alleanza del 2025. E come quella del 1815, che aveva l’obiettivo dichiarato di portare le lancette dell’orologio della storia al tempo dell’antico regime, azzerando il lascito della Rivoluzione francese, questa nuova alleanza strategica tra i potentati oligarchi vuole scardinare il lascito più resistente del Secondo dopo-guerra, l’Unione europea.
Macerie
La Nato è in via di riordino, e diventerà funzionale alla politica di Trump, ad un nuovo ordine globale nel quale gli accordi saranno bilaterali, tra i capi autocratici, ad est come a ovest. In questo nuovo ordine autocratico, nel quale le popolazioni conteranno zero, la regola sarà lo scambio affaristico.
E in ragione di ciò, i criteri saranno non il diritto e i diritti, ma la forza e il privilegio. E soprattutto il nudo potere del denaro, il titolare della sovranità secondo il paradigma Trump. E questo piace tanto alla Russia, che notoriamente detesta la “decadente Europa”, la democrazia costituzionale, e tutto ciò che è riuscito a sopravvivere alla Guerra fredda. L’Unione europea è l’ultima creazione di quel mondo, e il fatto che non si sia dissolta insieme alla Unione Sovietica sta sullo stomaco al Cremlino.
Ue, cuscino inutile
Non era forse l’Unione europea un cuscino tra Usa e Urss? Decaduto l’impero sovietico, quel cuscino non ha ragione d’essere. La guerra delle tariffe, perché così la chiama il suo comandante in campo, ha quindi un progetto di riordino del vecchio
continente che piace a Mosca. Decreta una nuova Santa Alleanza che manda al macero quello che fu a dispetto di tutto l’esito di una svolta rivoluzionaria, espressa anche dalla Dichiarazione universale dei diritti e dall’Onu, entità in caduta libera (da ultimo assistiamo all’attacco contro la Corte penale internazionale).
La Guerra trumpiana delle tariffe, al di là delle implicazioni, importantissime, sui mercati e le economie avrà, e probabilmente vuole avere, un suo Dopo-guerra. E non sarà di quelli che animano libertà e creatività.
A considerare la cupezza guerrafondaia dei suoi protagonisti autocrati, ad est come ad ovest, sarà un’età del ferro per tantissimi e di disgustosa ricchezza per pochissimi.
(da editorialedomani.it)
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Aprile 8th, 2025 Riccardo Fucile
UN VICEPRESIDENTE DEL CONSIGLIO DI UN PAESE UE CHE INVOCA LA “MOTOSEGA DI MILEI” CONTRO LA STESSA EUROPA E’ SOLO UN TRADITORE
Il vicepresidente del consiglio di un paese membro dell’Unione Europea che invoca “la
motosega di Milei” contro la stessa Unione, e si schiera con i nemici dell’Europa, Putin e Trump, in termini etici, e forse anche in termini tecnici, è un sabotatore, se non un traditore. Intelligenza con il nemico è l’accusa che gli spetterebbe nei Paesi che ammira, qualora osasse fiancheggiare questa o quella potenza straniera.
Ma il Salvini, qui in Europa, non corre alcun rischio. E lo sa. E per questo pensa e parla come un bullo. Fa parte di quella libera schiera di odiatori dell’Unione che, in virtù delle regole della democrazia, può perfino farsi eleggere al Parlamento Europeo,
nel quale non pochi dei deputati sono dichiaratamente ostili non solo alle politiche dell’Unione, ma proprio ai suoi fondamenti. È il concetto di Europa in sé che detestano, perché osta con il concetto di Nazione che è il loro unico dogma (e ti credo che Meloni strilla in Parlamento: la mia Europa non è quella di Ventotene).
Il problema della democrazia è che la tolleranza è al tempo stesso la sua ragione di vita e il suo rischio di morte.
Si contempla il caso (vedi Trump) di elezione democratica di chi intende uccidere la democrazia. La democrazia americana, oggi, è Socrate che beve la cicuta. E Salvini appartiene alla schiera dei sicari dell’Europa che l’Europa, in quanto democratica, rispetta tanto quanto gli europeisti. La motosega Salvini ce l’ha nell’anima, l’Europa non la userebbe neppure contro i suoi assassini.
(da repubblica.it)
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