AGGRAPPATI AL CALL CENTER
I PRECARI DELLE TELEFONATE NON HANNO ALTERNATIVE DI OCCUPAZIONE
“Pensavo sarebbe stato solo un lavoretto per mantenermi all’università e non pesare più sui miei genitori. Ormai, però, sono qua da due anni: in giro non trovo altro e ho pure mollato gli studi”.
Marika, 24 anni, viene dalla Basilicata e dopo il liceo si è trasferita a Milano per studiare mediazione linguistica. La sua vita oggi è un call center da 400 euro al mese, che possono salire fino a 700 se le cose vanno alla grande.
È una di quelle voci che vi chiamano da un numero sconosciuto mentre tornate a casa da lavoro, a cui più o meno garbatamente fate sapere di non essere interessati.
È una operatrice outbound, incaricata di andare a caccia di nuovi clienti. “Siamo l’ultima ruota del carro, quelli più utili eppure peggio pagati”.
Negli anni il loro numero è cresciuto a dismisura: per le aziende le telefonate sulle utenze private dei cittadini rappresentano uno straordinario strumento di marketing a basso costo. In alcun modo, però, ciò ha significato una regolarizzazione del personale. “Con l’uscita di Tutta la vita davanti, ahimè, il mondo dei call center fu messo in burletta. Parliamo di migliaia di lavoratori, che subiscono sulla loro pelle ogni vento di crisi”.
A parlare così è Riccardo Saccone, funzionario della SLC Cgil. Nel 2008, quando arrivò nelle sale il famoso film di Paolo Virzì che metteva in scena il nuovo precariato armato di cuffia e microfono, il settore era già sotto pressione.
Si radicò l’idea che i call center fossero l’approdo degli ultimi, le cavie di un mondo del lavoro che cercava la strada per abbattere anche le residue tutele rimaste. “Non era del tutto falso, eppure da allora le cose sono peggiorate: ogni passo in avanti sul piano legislativo è stato vanificato dalla congiuntura economica”.
ochi in Italia conoscono il meccanismo come Saccone, che è un dipendente di Wind prestato al sindacato. “Io sono un privilegiato, perchè i lavoratori dei call center in-house guadagnano quasi tre volte un collega dell’outsourcing. Ma se il mercato andrà nella direzione di una ulteriore compressione dei costi, quanto può durare questa generosità nei miei confronti?”.
Vodafone e Wind hanno assottigliato parecchio il comparto interno, mentre nei servizi di customer care di Telecom resistono 10 mila persone. “Nel complesso il 60-70% del lavoro nelle telco è già stato esternalizzato, altrove le percentuali sono più alte”.
Sono nate così, da Milano alla Sicilia, decine di società che hanno ovviato alle esigenze di aziende e pubbliche amministrazioni.
In un mondo sempre meno frontale tutti quanti hanno bisogno di servizi di customer care, di sviluppare l’e-commerce oppure avvicinare nuovi clienti: nuove imprese nate dal nulla e cooperative si sono fatte trovare pronte.
Alcune sono durate il tempo di una commessa, altre sono diventate Almaviva.
“Sono entrata nel 2000 a 23 anni: ancora ci chiamavano Cosmed e la sede era a Torre Spaccata. Eravamo 800 persone molto motivate, una famiglia” ricorda Tiziana Perrone. Poche settimane fa la sua esperienza in azienda, che nel frattempo era arrivata a contare 45 mila dipendenti a livello mondiale, è terminata nel peggiore dei modi.
Tiziana è tra i 1666 lavoratori licenziati a fine 2016 nella sede romana di Almaviva Contact.
Una vertenza aspra, che ha diviso sindacati e lavoratori. La maggior parte di questi ultimi prestava servizio 20 ore la settimana per uno stipendio medio di 700 euro al mese. “I primi anni il lavoro è stato stimolante, c’era un’atmosfera di novità e espansione. Con il tempo il servizio è peggiorato e siamo tornati al cottimo. Ogni giorno lo stress cresceva, ci eravamo accorti che così non si poteva reggere. Tre anni dopo eravamo in cassa integrazione.
Oggi i call center non fanno più per me” spiega Tiziana, che a 39 anni è ancora in attesa di Naspi e Tfr e non ha alcuna fiducia nel piano di ricollocamento presentato di recente dal governo.
La crisi di Almaviva, leader del settore, dice molto di un sistema malato. Dal 2011 al 2015 l’azienda ha bruciato oltre il 30% dei suoi ricavi. Una dopo l’altra, ha perso le gare più importanti: quelle per il Comune di Milano e di Roma, una parte del servizio erogato per Sky e per Enel.
Non era più concorrenziale rispetto a pretendenti meno strutturate e più aggressive, perchè aveva deciso di non delocalizzare all’estero e, gravata da lavoratori anziani a tempo indeterminato, non usufruiva più degli incentivi alle assunzioni. Almaviva si è allora adeguata al contesto: mentre chiudeva l’inbound, ha effettuato nuovi colloqui per cercare personale adatto a contattare nuovi clienti. L’outbound, che oggi conta circa 30 mila lavoratori sugli 80 mila del settore, costa decisamente meno e frutta di più.
“Un epilogo micidiale, l’ultimo capitolo di un film già scritto” commenta amaro Riccardo Saccone. “
Gli ultimi anni sono stati infernali: i tagli lineari delle aziende agli appalti di customer care hanno fatto molto male, in un settore in cui l’80% dei costi sono rappresentati dal lavoro.
Qualsiasi manovra per contrarre le spese va a scapito di dipendenti pagati ai minimi, che non godono di ammortizzatori sociali ordinari o altre garanzie. Paghiamo soprattutto la mancanza di regole nella gestione delle gare. Pur di vincere commesse sempre più magre le aziende hanno fatto di tutto: finchè potevano campavano con gli incentivi, poi sono andate a produrre all’estero. La dittatura del massimo ribasso ci ha portato sin qui, la delocalizzazione ha fatto il resto”.
La situazione è precipitata attorno al 2011, quando i ricavi delle grandi aziende hanno iniziato a crollare. Le due circolari dell’allora ministro Cesare Damiano, che avevano stabilizzato migliaia di precari, hanno portato solo benefici relativi
Gli scioperi di fine 2015 e le contrattazioni con i sindacati, radicati solo in tempi relativamente recenti nelle aziende, hanno fatto approvare la clausola sociale, che garantisce al lavoratore di continuare a operare su un appalto anche se cambia il committente. I casi in cui è stata rispettata sono molto rari.
Simile il discorso per l’articolo 24 bis del decreto legge 83 del 2012, che obbliga a comunicare dove il call center è situato e cerca di colpire chi sposta il lavoro all’estero.
“Le poche regole esistenti sono sistematicamente disattese, siamo arrivati al punto di non ritorno” dice Antonella Berardocco. È a casa da un anno, dopo averne passati sette a rispondere ai telefoni della E-care di Cesano Boscone, alle porte di Milano. Persa la commessa di Fastweb, l’azienda ha ridotto sensibilmente il proprio impegno in Italia.
Nel frattempo aprivano sedi in Albania e Romania. Ormai è tutto fuori dai confini, la nuova moda sono i call center in India.
Per assurdo c’è sempre più bisogno di questa funzione: assicurazioni, vino, aziende alimentari hanno potenziato l’outbound. Online è pieno di annunci: ho visto offerte da tre euro all’ora più provvigioni” aggiunge.
Nella sede romana di e-Care lavorava Marta, 35 anni, originaria del Congo. “Ho lavorato per qualche mese su una commessa di Lottomatica, mi sono trovata bene” racconta.
“Ho fatto un corso intensivo di tre giorni e mi hanno presa, lavoravo part-time per 500 euro. Mi chiamavano i tabaccai per avere informazioni sui gratta e vinci e cittadini dubbiosi sulle loro scommesse.
Un giorno uno mi chiese cosa dovesse fare con una vincita di 50 mila euro: gli risposi di portarla in banca, un po’ prima di subito. Il problema è che avevo contratti molto brevi, rinnovati sempre all’ultimo momento. Proprio quando pensavo di aver imparato il mestiere sono spariti nel nulla” spiega.
Un anno fa la Cgil denunciò l’affidamento di una commessa da parte di Poste Italiane a 0,29 centesimi di euro al minuto, circa la metà di quanto servirebbe a garantire una giusta retribuzione al lavoratore.
A febbraio 18 addetti del call center di regione Lombardia, dopo il passaggio dell’appalto dalla società per cui erano impiegati a una ditta siciliana, hanno trovato il loro badge disattivato senza preavviso. Alcuni di loro seguivano quella commessa da 13 anni e, si sarebbe poi scoperto, da mesi erano senza stipendio.
Se il pubblico non dà il buon esempio, cosa si può pretendere dai privati? Nulla. Così il settore è diventato una giungla, dove avventurismo e illegalità hanno trovato terreno fertile.
Praticoni trasformati in “classe padrona” hanno dato vita ad aziende fragili e fantasiose, con l’unico obiettivo di lucrare finchè possibile.
Il punto più basso fu toccato nel novembre 2012, quando una inchiesta svelò la “scalata” dei Bellocco di Rosarno alla Blue Call di Cernusco sul Naviglio, periferia Est di Milano. In due anni la ndrangheta si era mangiata una azienda da 600 dipendenti, un gigante dai piedi d’argilla divenuto bancomat dei clan.
Più volte i magistrati antimafia si sono occupati degli interessi della criminalità organizzata nel settore. Inevitabile, visto il giro di affari e la tendenza all’avventurismo con cui nascono e sono guidate numerose imprese nel Sud Italia. Lungo lo Jonico pugliese e nel catanese sono sorti distretti da migliaia di lavoratori. Di scarsa qualità , ma vitali in territori asfittici da un punto di vista economico. Qui più che altrove il call center non è un lavoretto e chi trova un posto lo tiene stretto. In regioni in cui la disoccupazione giovanile supera abbondantemente il 50%, la questione assume toni drammatici. Secondo Assocontact, l’associazione delle imprese che forniscono assistenza al cliente, il tasso di turnover viaggia tra l’1 e il 5% nelle principali aziende.
Un tempo il settore era magmatico, oggi la flessibilità è quasi solo in uscita. A totale discapito della qualità , in un lavoro stressante dove i cali di concentrazione non sono tollerati.
Lavoro che, nella maggior parte dei casi, non è più quello di un centralinista, ma di un assistente specializzato su più fronti. “Io ho 31 anni, ho ancora fiducia e voglia di lottare. Ma che ne sarà dei miei colleghi anziani o di quelli disabili” si chiede Valentina Borzi.
“Ho lavorato al call center Qè di Paternò per otto anni, fino al licenziamento collettivo del 28 novembre. Gli ultimi mesi sono stati un calvario: le commesse perse, gli stipendi non pagati, lo sciopero ad oltranza. Fino al giorno in cui abbiamo trovato il capannone chiuso e i proprietari dell’azienda spariti. A oggi non hanno ancora dichiarato il fallimento e ci dobbiamo affidare ad un tribunale per ottenere i nostri diritti”.
La vicenda, non la sola in Sicilia, è finita nel peggiore dei modi.
A comportarsi in questo modo una azienda che era arrivata a impiegare fino a 600 lavoratori e che aveva tra i propri clienti Sky, Enel e Wind.
Gli ex dipendenti Qè non ci stanno e hanno dato vita a un movimento insolitamente coeso e battagliero: i loro appelli circolano in rete e hanno trovato il sostegno di testimonial famosi.
“Ho iniziato a lavorare quando mi mancavano sei esami alla laurea. Ora, dopo aver messo da parte gli studi per la sicurezza economica, sono tornata sui banchi. Non mi sono mai ritrovata nei racconti sull’inferno dei call center: io gestivo una commessa delicata e gratificante per conto di Inps. Il nostro territorio non può perdere le sue risorse”.
Come Valentina, buona parte dei colleghi sono stati assunti dai call center grazie alle agevolazioni e a una fiscalità che al Sud è particolarmente vantaggiosa. In questo modo il lavoro rimane a basso costo per anni e gli imprenditori possono contenere le spese e essere competitivi. Si creano continui moti di concorrenza sleale, che orientano di volta in volta un mercato dopato in cui lo stato perde sempre.
“Abbiamo provato per anni a professionalizzare il mestiere, a spiegare che non può essere governato con simili dinamiche. Date un occhio agli investimenti che ha fatto Microsost sulla sua struttura di Dublino. Parliamo di un canale di assistenza pregiato, non di rado gli operatori gestiscono pratiche complicate e sensibili: dai nostri conti correnti alla disoccupazione. Mentre aumenta la centralità dei call center, diminuiscono gli investimenti e di conseguenza la nostra sicurezza” dice Riccardo Saccone.
“Il processo va avanti da anni, ogni giorno un nuovo passetto. Ma ormai non c’è più nulla da tagliare: si incide la carne viva dei lavoratori”.
(da “Huffingtonpost“)
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