CORONAVIRUS, TRA I SENZATETTO DI ROMA CON LA CROCE ROSSA ANCHE RAOUL BOVA E ROCIO MUNOZ MORALES
LE PERSONE IN STRADA SONO AUMENTATE… TRA I VOLONTARI DELL’UNITA’ DI STRADA ANCHE LA COPPIA DI ATTORI: “NELLA VITA BISOGNA SPORCARSI LE MANI PER DARE UNA MANO, E’ UN’OCCASIONE PER ESSERE PIU’ VERI, PIU’ UMANI”
«Un’altra arancia, sì». Dice di chiamarsi Salvatore e attacca bottone volentieri: con parole a volte nitide e a volte biascicate racconta di essere di Bari e di avere 53 anni. «Ah, tu sei di Lecce? Bella Lecce, ricca. Una volta ho conosciuto una ragazza di lì», racconta con accento inconfondibile tra le tende sotto a Ponte Vittorio Emanuele II, in pieno centro a Roma.
Accanto a lui, due germani reali veleggiano placidamente nelle acque torbide del Tevere, a due passi dal Vaticano, a tre da largo Argentina. Il suo vicino di tenda non si fa vedere in volto ma si capisce che non è arrabbiato: è il sarcasmo la sua arma. Quello che permea la sua voce mentre bofonchia cose che fanno ridere Salvatore.
«L’insalata. La pasta. Forchetta e coltello. Un’altra arancia? Ma come un altra? Poi si arrabbiano con me!». Si capisce che, sotto la mascherina, Rocào Muà±oz Morales sta sorridendo mentre porta da mangiare a Salvatore.
Anche gli occhi del suo compagno, Raoul Bova, sotto alla FFPP2 e la divisa della Croce Rossa Italiana, sono inconfondibili. Insieme a Tina, l’infermiera volontaria della Cri, l’attore si accuccia accanto a Salvatore per aiutarlo a provare un paio di scarpe nuove. «Hai le caviglie gonfie. Quando dormi tieni le gambe alzate, poggiale su una valigia. E la prossima volta ti portiamo un paio di calzettoni che non stringono», gli dice Tina. Ride. «Fidati. Anche io sono pugliese? Sono di Andria. Giuro!».
Salvatore prima viveva sotto ai portici del Vaticano, a piazza San Pietro. Ora ha deciso di spostarsi qui sotto a ponte Vittorio Emanuele II, insieme agli altri abitanti di queste tende vista Castel Sant’Angelo. Prima lavorava. «Queste mani sono magiche, so fare tutto. Ma non c’è più lavoro, e mica solo in Italia: nel mondo. E poi ora avete quel problema… il virus». “Avete”. Come se lui non appartenesse al resto del mondo.
L’unità operativa del servizio assistenza ai “senza fissa dimora” — il SASFID della Croce Rossa Italiana — distribuisce ogni settimana pasti caldi e coperte, intimo, slip, calzini quando ci sono. E fornisce assistenza sanitaria, anche i tempi di Coronavirus.
Il protocollo, in caso di sospetto Covid-19, è quello di chiamare l’ambulanza, spiega Tina Moschetta, infermiera volontaria della CRI. «Viene fatto il tampone ed eventualmente portata la persona in ospedale». Ma «per il momento siamo “fortunati”: non abbiamo riscontrato casi tra le persone fragili».
Il giro itinerante del Sasfid — qui con l’unità operativa che si occupa del quadrante del centro storico di Roma — in tempi “ordinari” viene effettuato ogni martedì e venerdì. «In caso di necessità si aumenta», spiega Giacomo, volontario della Croce Rossa Italiana alla guida di uno dei tre mezzi con cui il piccolo team si sposta per le strade deserte del centro.
Questa sera, con la Croce Rossa, ci sono anche volontari un po’ particolari. «Abbiamo cominciato con il terremoto di Amatrice. In questi giorni stiamo aiutando con le consegne a domicilio della spesa a chi non può uscire. E stasera siamo qui», racconta Raoul Bova. Dice che vuole «sporcarsi le mani per dare una mano».
«Ammetto all’inizio di avere provato smarrimento e paura», aggiunge parlando della diffusione dell’epidemia. «Ma poi ho pensato che deve essere occasione per essere più veri. Più umani»
«All’inizio dell’emergenza Coronavirus, quando le persone hanno cominciato a perdere il lavoro, molti sono finiti letteralmente per strada. Non avevano da mangiare, semplicemente», racconta ancora Giacomo (come lui, alcuni volontari chiedono di poter apparire solo col nome), mentre guida un’auto carica di pasti — una trentina: pasta, insalata, frutta, dolce, versione con e senza carne di maiale in caso di «utenti» — così chiamano le persone che assistono — musulmani.
«Gente che ha perso il lavoro da un giorno all’altro per la chiusura, per esempio, degli esercizi commerciali. Tanti italiani, soprattutto», conferma Paola, che di questo piccolo team stasera è la caposquadra. È così che l’unità operativa si è ritrovata, soprattutto nei primi tempi del lockdown, a uscire ogni sera. «E ancora ora distribuiamo molti più pasti di prima», dice ancora Giacomo.
La vita stessa dei senzatetto è cambiata. Non c’è più nessuno per strada per l’elemosina. I ristoranti e bar che normalmente mettono a disposizione quello che resta a fine turno sono chiusi. «Ci cercano per mangiare. Ma soprattutto ci cercano per parlare», racconta Gaà«lle Strigini. «Non parlano più con nessuno. Nel quartiere normalmente queste persone sono conosciute e c’è chi si ferma a scambiare due chiacchiere con loro. Con il lockdown non più».
Gaà«lle ha 26 anni, ha vissuto in Francia e ora studia a Roma per diventare «educatrice di bambini dai 0-3 anni» e fa la volontaria da settembre, sia con la CRI che con la mensa della Caritas da quando è cominciata l’emergenza. Anche lì, hanno aumentato gli orari di apertura a causa dell’aumento dell’affluenza, racconta.
«La solitudine è la cosa che più mi ha fatto paura da quando è cominciata questa storia», dice Rocào Muà±oz Morales. «È una delle ragioni per cui sono qui. Se fa paura a me, ho pensato, chissà cosa provano loro, che sono sempre soli».
Per chi è in strada, il «distanziamento sociale non è una novità ». E in questi tempi di pandemia «cerca da noi informazioni. Molti non avevano idea di cosa stesse succedendo all’inizio», spiega la caposquadra Paola. «E tanti ci chiedono dove andare a dormire in sicurezza».
(da Open)
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