DI MAIO NON C’ENTRA PIU’ NULLA CON I CINQUESTELLE
ANDREA SCANSI: “RIEMPIVA LE PIAZZE, OGGI NON RIEMPIREBBE NEANCHE UN MONOLOCALE”
Luigi Di Maio non è mai stato un “bibitaro”, un miracolato e un parvenu della politica. Quella era una propaganda cara ai giornaloni, alla “casta” e alla comicità paraculona e senza talento.
Di Maio è nato per fare politica, che è un complimento ma pure una critica. Anche a inizio carriera, nel 2013, quando i 5Stelle erano pieni zeppi di scappati di casa (e lo streaming riprovevole con Bersani ne fu prova), Di Maio sembrava un alieno.
Mai sopra le righe e sempre presente a se stesso, scaltro come vicepresidente della Camera come pure nei primi interventi in tivù. Ricordo come, otto anni fa, un nome potentissimo della tivù italiana mi avvicinò dietro le quinte, prima di un talk-show politico, e mi disse: “Questi 5Stelle sono degli incapaci totali, tranne Di Maio. È così furbo e scaltro da ricordarmi Pajetta”.
Le elezioni 2018 furono stravinte dai 5Stelle per una serie di motivi, compreso il connubio perfetto tra il poliziotto “cattivo” Di Battista (che esaltava gli arrabbiati) e il poliziotto “buono” Di Maio (che convinceva i moderati).
Ora stimato e ora picconato dal padre-padrone Beppe Grillo, Di Maio – bravissima persona e ragazzo corretto – è negli anni cresciuto. Sul selciato delle puttanate ha lasciato non poche impronte: dai congiuntivi sbagliati all’abolizione della povertà, dall’impeachment a Mattarella all’incontro coi gilet gialli.
Tutti errori puntualmente amplificati da quegli stessi fenomeni che, ora, lo celebrano come nuovo Moro. In realtà l’errore più grave che Di Maio ha fatto, oltre a candidare i Carelli e Paragone, è stato fidarsi troppo di Salvini: quella doccia fredda lo ha cambiato irrimediabilmente, rendendolo più ponderato (è un bene) ma anche molto più subdolo politicamente.
Ed eccoci al Di Maio attuale, che agli occhi della comunità 5 Stelle si è macchiato del reato più grave: il tradimento degli ideali antichi. L’elettore 5 Stelle è spesso iper-idealista e manicheo, fumantino e massimalista: non di rado talebano. L’esatto opposto del Di Maio post-Papeete, che appare come poltronaro, aduso alle congiure e disposto ad allearsi con tutti. Da bosco e da riviera.
L’uomo che doveva aprire la scatoletta di tonno si è fatto scatoletta e pure tonno. Non è necessariamente un male: Di Maio è ormai un abile politico di professione. Per questo, non essendo più spettinato e passando il tempo a plaudire Casini e venerare Draghi, piace a giornaloni e potere. Lui stesso è Potere.
Può iscriversi a qualsiasi partito: lo accoglieranno tutti a porte aperte. È bravo e capace. Ma nei 5Stelle non c’entra più niente.
Di Maio è un politico famoso ma senza più consenso, e anche in questo (ahi) somiglia a Renzi. Di Maio ha scritto un (bel) libro che in pochi han comprato, Di Maio è sempre sui social ma le interazioni sono in picchiata (e quelle poche sono perlopiù insulti), Di Maio riempiva le piazze e oggi non riempirebbe neanche un monolocale. Con lui alla guida, il M5S rischierebbe di perdere pure con Calenda, cioè nessuno.
La sua guerra santa a Conte, al netto dalle recenti mosse di (finta?) tregua, è una guerra personale. Di Maio non sopporta che, dalla pandemia in poi, lo sconosciuto che nel 2018 fu proprio lui (con Bonafede) a scegliere sia molto più amato di lui dagli italiani.
È questo il punto: la politica non c’entra nulla, casomai c’entra il limite dei due mandati (ancora: la poltrona). Di Maio può stare dentro i 5Stelle di Conte giusto se si disinnesca al punto da tramutarsi in una sogliola morta, finendola di brigare ogni giorno contro il leader del suo stesso partito. Difficile da credere.
Andrea Scanzi
(da Il Fatto Quotidiano)
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