EGEMONIA CULTURALE, GLI ABBAGLI DEI SOVRANISTI
MA CHE CULTURA DI DESTRA, NELLE REGIONI CHE AMMINISTRANO SI AFFIDANO A MEDICI ESTETISTI, IMPRENDITORI E UFFICIALI DELL’ESERCITO… ALAIN DE BENOIST? IN FRANCIA HA VOTATO MELENCHIN ED E’ ANTILIBERISTA
Marcare il “noi” e il “loro” è in tutta evidenza la via scelta dalla destra per esercitare l’egemonia politica che le elezioni del 2022 le ha assegnato e trasformarla, come si dice nelle interviste, nella famosa egemonia culturale. C’è un “noi” e un “loro” ovunque, persino nel dibattito sul commissario alla ricostruzione dell’Emilia Romagna dove è stato dato l’alt al candidato naturale, Stefano Bonaccini, che avrebbe attraversato con troppa evidenza la linea di confine tra i due campi.
Noi e loro sul vertice della commissione antimafia, dove si è preferita una scelta ultra-identitaria a un nome votabile a più larga maggioranza. Noi e loro sulla grande storia italiana, su Alessandro Manzoni, che sui giornali della destra finisce tra i “loro” perché il presidente della Repubblica lo ha associato ai diritti della persona che precedono quelli dell’etnia. Noi e loro ovviamente sulla televisione pubblica, dove si attende con curiosità la traduzione in show, telegiornali e fiction di quel pronome personale collettivo.
A cosa corrisponda quel “noi” tuttavia non è ben chiaro e ancor meno chiaro è apparso dopo le note vicende del Salone del libro. Qui il “noi” è stato appeso a due figure sostanzialmente estranee alla storia della destra politica italiana e ai suoi percorsi di formazione. Eugenia Roccella è una militante femminista di imprinting radicale, che incrocia la vicenda di Fratelli d’Italia su un tema identitario molto forte – il contrasto alla Gpa, all’utero in affitto – ma di certo non può essere iscritta d’ufficio al “noi”. Alain De Benoist è un intellettuale francese che intervistato da Repubblica qualche anno fa si definiva così: “Un conservatore di sinistra, mi batto per il reddito universale, credo nella decrescita, sono ferocemente contrario al liberalismo. Nei miei libri si nota l’influenza di Rousseau e Marx. Alle presidenziali ho votato per Jean-Luc Mélenchon” (al secondo votò Marine Le Pen perché “avrei scelto chiunque contro l’iper-liberista Macron”).
Non aiuta a capire neppure la mappa delle roccaforti culturali già da tempo acquisite nelle Regioni, dove gli assessorati alla Cultura sono assegnati a medici estetici (Lazio), avvocati civilisti (Lombardia, Veneto), dirigenti d’azienda (Abruzzo), graduati dell’esercito (Sicilia), imprenditori del settore orafo (Piemonte) o addirittura non ci sono proprio (Basilicata), tantoché viene da chiedersi come mai l’urgentissima questione dell’egemonia non abbia trovato mai spazio dove la destra governa da un bel pezzo e perché non ci siano in quei ruoli operatori culturali, visionari, organizzatori di festival, e mai sia emerso né un genialoide alla Renato Nicolini né un intellettuale-innovatore alla Gianni Borgna. Anzi, quando un intellettuale c’era, Umberto Croppi, primo assessore alla Cultura della giunta di Gianni Alemanno, lo si sostituì in fretta con il democristiano Dino Gasperini.
Osserva giustamente Walter Siti su Domani che questa fissazione dell’egemonia culturale è piuttosto nuova per la destra, perché Silvio Berlusconi «col suo formidabile istinto di imprenditore, non se ne preoccupava troppo: sapeva che la sottocultura porta più voti della cultura, lasciava volentieri i Saloni del libro alla sinistra e si inventava Drive In». Ma adesso che il progetto è stato declinato toccherà riempirlo, con tutte le difficoltà del caso perché se il “loro” è facile da definire sul “noi” non esiste una mappa né un elenco, i pochi nomi a disposizione sono già collocati, si tirano indietro, oppure sono giudicati scarsamente allineati.
Gli altri sono tantissimi ma hanno più consonanza col retequattrismo che con la vicenda della destra e quel tipo di egemonia – l’egemonia dell’agenda protoleghista della paura, allarme sbarchi e allarme rom, allarme legittima difesa e allarme ladri in villetta – difficilmente può diventare qualcosa di diverso da una tiritera da talk show a misura di rabbia e frustrazione.
Ai vecchi tempi della destra c’era una battuta ricorrente. Quando qualcuno si riferiva a un’idea, a una posizione politica, a un fatto di cronaca, dicendo “noi dovremmo…” l’altro rispondeva ridendo: scusa, noi chi? Già allora quel “noi” suonava strano, non si sapeva bene dove appenderlo, se a quelli che organizzavano cineforum con i film di Wenders e Jodorowsky (sì, c’erano) o a quelli che andavano a contestare Jesus Christ Superstar (e talvolta erano gli stessi).
Oggi la domanda torna in mente ogni volta che si fa riferimento al tema dell’egemonia culturale perché il vero “noi” della destra, oltre il portato del berlusconismo e del salvinismo, oltre la sostituzione dei “loro” e la redistribuzione degli incarichi, resta piuttosto misterioso persino per chi la conosce bene.
Flavia Perina
(da La Stampa)
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