FERMATE LA CARRIERA, VOGLIO SCENDERE
“FARE CIO’ CHE PIACE” INVECE DEL “GUADAGNA SEMPRE DI PIU'”, CAMBIA IL COSTUME… SI MOLTIPLICANO QUELLI CHE INSEGUONO VITE NORMALI RIFIUTANDO IL SUCCESSO AD OGNI COSTO
Preferirei di no. Lentamente, poco alla volta, abbandonano la gara, passano in un altro campionato. Sognando altri traguardi.
Ancora non sono tutti come Bartleby: lo scribano che improvvisamente si ribella al suo capo e al suo destino, ripetendo un’unica, ossessiva frase.
È una rivolta meno frontale, più silenziosa, senza slogan. Si procede per sottrazione.
I soldi, il potere? No, grazie. La fine del carrierismo è una scelta obbligata: le opportunità professionali sono sempre di meno, il lavoro è precario, anche l’investimento lavorativo diventa a breve termine.
Tutti gli studi lo dimostrano: le aspettative sono cambiate, e così anche le priorità .
Secondo un sondaggio dell’istituto Csa, il 60 per cento dei neolaureati francesi associa il successo professionale a un lavoro gratificante, motivazione che oggi viene molto prima dello stipendio.
Avere un salario elevato interessa appena il 20 per cento dei ragazzi e ottenere un posto di responsabilità addirittura solo il 2.
Ma anche i giovani italiani, registra l’Istud, si allontanano lentamente dal carrierismo: quando si chiede il senso della parola “lavoro” solo il 3,1 per cento la associa al potere, e il 3,6 al denaro.
Sono “ adultescenti”, secondo un neologismo dei media americani per definire una generazione che non vuole crescere, rimandando matrimonio, figli, carriera, anche perchè ognuna di queste cose è diventata più rara, fragile, incerta.
È la “generazione limbo” descritta dal New York Times , che pensa e parla diversamente dal passato. Solo il 22 per cento dei nuovi assunti, scrive il quotidiano americano, usa la parola carriera, contro il 30 fino al 2007, prima della Grande Crisi.
Il manifesto di questo nuovo movimento è La Regina delle Nevi di Michael Cunningham, in cui i protagonisti inseguono “vite normali”.
Ma la crisi economica non spiega tutto.
Karen Demaison, fondatrice dello studio di consulenza in risorse umane Critères de choix , sostiene che si tratta di un cambio di mentalità che parte da lontano, a cominciare dagli anni Ottanta e dai famosi yuppies , arrampicatori professionali a ogni costo.
La generazione di oggi è il contrappasso di quell’epoca.
«Oggi i ragazzi desiderano ancora il successo ma non a qualsiasi prezzo», spiega la consulente d’impresa. «I ragazzi di oggi sono stati in qualche modo vaccinati dall’esperienza, non sempre a lieto fine, degli adulti».
I quarantenni o cinquantenni workhalcolic , che spesso finiscono per sacrificare tutto sull’altare di una promozione, non sono più un modello.
«I giovani sono diventati più diffidenti rispetto all’impresa e al lavoro in generale, si è creata una distanza – conclude Demaison – e non c’è più un’adesione assoluta».
In principio c’è una promessa tradita: i giovani oggi hanno capito che non avranno più una posizione sociale e professionale migliore dei loro propri padri, com’è accaduto dal dopoguerra in poi.
E così si è invertita anche la scala dei valori.
Il “lavoro dei sogni” è solo per il 4,3 per cento legato allo stipendio. Al primo posto (22,6%) viene un impiego che corrisponda ai propri interessi, che dia soddisfazione (11,9%), prestigio (10,3%).
Secondo l’Istud, quasi un quinto dei neolaureati italiani (22,5%) pensa che la qualità della vita sia nella conciliazione tra vita privata e lavoro.
È una preoccupazione che fino a qualche decennio fa praticamente non esisteva.
Il “ work lifebalance” (equilibrio tra lavoro e vita) era un’esigenza tradizionalmente femminile, ora condivisa invece anche dagli uomini. Tanto che sempre più imprese cercano di sviluppare strumenti per facilitare la gestione della vita famigliare dei loro dipendenti, come chiave per una migliore produttività .
«La necessità di armonizzare vita privata e professionale è la grande sfida economica e sociale dei prossimi anni», nota Cècile Van de Velde, sociologa e autrice del saggio “ Repenser les inègalitès entre gènèrations ” (Ripensare le diseguaglianze tra generazioni, ndr).
«Non è vero che i giovani non tengono più al lavoro», precisa la sociologa, «ma vogliono che abbia il posto giusto e non che invada ogni attimo della vita».
Questa “barriera” è paradossalmente sempre più difficile da erigere, anche per via delle nuove tecnologie.
«C’è una tensione sempre più forte e talvolta insopportabile – spiega Van de Velde – tra le varie dimensioni esistenziali».
I giovani hanno una visione più lucida e realista, ma non per questo disincantata.
Anzi, nonostante lavoro e opportunità di carriera scarseggino sempre più, i millennials sono più esigenti dei loro genitori. “Fai ciò che ti piace” ha sostituito nelle mentalità il “guadagna sempre di più”, osserva la sociologa francese.
Ci sono laureati disposti a fare scelte radicali, scegliendo un lavoro meno remunerato ma che corrisponda di più alle proprie aspirazioni di vita. «Sono fenomeni completamente nuovi, mai osservati prima», nota Van de Velde.
Nel momento in cui non c’è più automatismo tra studi, lavoro e carriera, anche i giovani cambiano strada e priorità .
L’Istud ha creato un osservatorio sulla Generazione Y, proprio per aiutare le imprese a mappare un approccio al lavoro radicalmente diverso in quanto a vocazioni, attitudini.
Solo il 36 per cento dei ragazzi pensa che per fare carriera serva lavorare molto, mentre il 38 per cento è convinto che la chiave del successo sia la fiducia in se stessi.
E così quasi la metà (43%) dei giovani tiene a mantenere un buon equilibrio tra ufficio e vita privata, intesa non solo come famiglia, ma anche amici, tempo libero. Metà dei giovani laureati sogna invece di mettersi in proprio, avviando un’attività e diventando il «capo di se stesso».
Dalla concezione del lavoro dipendente, ormai in crisi, avanza quella, nuova, del lavoro intraprendente.
La propensione al lavoro autonomo, professionale, imprenditoriale dei giovani sta crescendo particolarmente in Italia, come dimostrano la natalità di nuove imprese, il neoartigianato e lo sviluppo di cooperative e imprese sociali. Secondo l’ultimo studio dell’Istud, il 30 per cento dei ragazzi punta a essere titolare di un’impresa o comunque lavorare da collaboratore esterno per un’azienda.
«Il carrierismo era uno dei tanti nomi che avevamo dato al Progresso», spiega Domenico De Masi. Ora che quella promessa è avvolta nella nebbia, i ragazzi non sono più disposti a crederci. Secondo il sociologo del lavoro, «fare carriera» è un’altra di quelle eredità dell’epoca industriale che oggi ha perso senso e valore.
«I ragazzi si allontanano da categorie mentali che non sono più capaci di spiegarci il presente», continua De Masi che ha studiato questo smarrimento nel suo ultimo libro, Mappa Mundi, modelli di vita per una società senza orientamento .
La crisi del lavoro, sottolinea il sociologo, è anche psicologica. I giovani disinvestono affettivamente su qualcosa che non è più sicuro, cercando altrove certezze e riconoscimenti. Anche il futuro è a tempo determinato.
Anais Ginori
(da “La Repubblica”)
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