I BIG DEL PD PROCESSANO IL SEGRETARIO: “QUANTI ERRORI, ORA DIALOGO CON TUTTI”
AFFONDO DI D’ALEMA E VELTRONI, MA BERSANI E’ PRONTO ALLA CONTA
Quando non ci sono richieste esplicite di dimissioni dopo una sconfitta, quando Veltroni e D’Alema partecipano a una riunione senza aprire bocca, è lì che comincia lo scontro nel Pd. Pier Luigi Bersani finisce nel mirino. Sono in discussione il suo ruolo, la sua leadership, la campagna elettorale, gli errori.
La rivolta dei big ha i contorni della critica politica: l’apertura a Grillo, il rifiuto di un confronto con il Pdl.
Ma, come sempre, straripa nelle battute personali. Velenose, niente a che vedere con le metafore di Maurizio Crozza. In tempi non sospetti D’Alema aveva criticato la corsa democratica verso il voto, puntando il dito contro l’arroganza dei vincitori annunciati.
Adesso dice: «Abbiamo sbagliato moltissimo nell’ultimo mese. Purtroppo il nostro segretario è un uomo dell”800».
Veltroni non è da meno. Ricorda il suo risultato di cinque anni fa: «Quando io presi il 34 per cento, due giorni dopo Pierluigi rilasciò un’intervista in cui chiedeva le mie dimissioni ».
E fa un riassunto spietato della recente strategia bersaniana: «Mentre Berlusconi diceva “vi restituisco l’Imu”, mentre Grillo avanzava al grido di “tutti a casa”, ho visto che la risposta del Pd era affidata a un balletto organizzato sulla terrazza di Largo del Nazareno con un gruppo di persone che cantava “smacchiamo il giaguaro”».
È un clima che non promette nulla di buono in giorni che sarebbero complicatissimi anche per leader di statura storica.
Bersani resiste, circondato dai suoi fedelissimi, appoggiato dal grosso dei dirigenti territoriali, fedele al rifiuto dei «politicismi».
È al corrente dell’offensiva dei maggiorenti, ma la liquida così: «Vogliono tornare ai discorsi di vent’anni fa, agli accordi sottobanco, agli inciuci? Fatti loro, le opinioni sono tutte legittime». Ma la sfida interna è partita, aggravata dalla peggiore crisi degli ultimi 60 anni. Perciò si schierano le truppe. Il segretario sembra pronto ad andare a una conta se sarà necessario: nei gruppi parlamentari, nella direzione di mercoledì. Convinto com’è che il partito non digerirà mai un nuovo esecutivo tecnico o un patto esplicito col Pdl.
Ma ci si può chiudere in un unico schema di fronte alla confusione del momento?
Questo è il punto. Sì, se si mette in conto anche l’ipotesi di un ritorno alle urne nel giro di pochi mesi.
La risposta di D’Alema a questi scenari? Un sibilo: «Sono d’accordo con Bersani. Grosso modo».
L’ex premier pensa a un tentativo del segretario, ma aprendo a tutti, non solo ai grillini. A Monti, a Berlusconi, alle forze responsabili «per dare vita a una stagione costituente ».
Di sicuro lui ha avviato un personale giro di consultazioni che non ha escluso, ieri, la telefonata a Gianni Letta, interlocutore principale di D’Alema nel campo avverso da molti anni, per non dire decenni.
Senza dimenticare un contatto con Giorgio Napolitano. Il Movimento 5elle non basta e il “grosso modo” dalemiano si riferisce all’essersi infilati in una soluzione apparentemente priva di piano B. «Una scelta demenziale», l’ha definita Marco Follini.
L’analisi di Veltroni è diversa. Per l’ex segretario, Bersani è tagliato fuori, escluso dai giochi, in nessun modo può guidare da protagonista questa fase. «Inseguire Grillo è del tutto inutile», dice. L’unica via d’uscita può essere «un governo tecnico, un governo del presidente. Uno pseudo-Monti».
Veltroni non ha nomi da proporre. L’Italia ha bruciato una tale quantità di “esterni” che diventa impossibile fare delle previsioni. Semmai, delle esclusioni. «Ecco, Amato – spiega Veltroni nei suoi colloqui – proprio no. Il suo nome può solo ingrassare Grillo».
L’identikit dell’esecutivo però è molto chiaro. «I partiti gli staranno lontano ancor più che col governo uscente. Non dovrà avere ministri politici. Il premier deve avere una credibilità europea e non deve mettere le dita negli occhi nè alla destra nè a Grillo».
La linea di un’alternativa al dialogo con Grillo non è certo isolata nel Pd. «L’importante è non chiamarlo governissimo o grande coalizione. Non è questo di cui bisogna ragionare – spiega Veltroni –. Sarebbe una follia e farebbe saltare il Pd».
Ma il Pd può davvero saltare e non aiutano i 15 giorni che ancora separano lo spoglio dall’apertura delle Camere.
Bersani lavora nella direzione indicata.
A Largo del Nazareno prepara il pacchetto di riforme da presentare al Parlamento. O meglio, ai 5stelle e a Monti, con cui ha ripreso a lavorare.
Le proposte sono incentrate sul lavoro e sulla moralità della politica: anticorruzione, conflitto di interessi, riforma dello Stato, costi della politica e dei parlamentari, legge elettorale.
Non sembra un pacchetto che si possa facilmente sottoporre a Berlusconi.
La “trattativa” con il comico, ripetono i suoi collaboratori, avverrà alla luce del sole, ossia nelle aule parlamentari. In realtà , nel quartier generale del segretario, preparano con cura un contatto diretto con Grillo e Gianroberto Casaleggio.
Senza mediazioni, senza ambasciatori anche se sono del calibro di Romano Prodi. «Un incontro? Non è escluso, mancano ancora parecchi giorni al 15».
La strada è tracciata, ma oggi è più difficile che il partito arrivi unito al traguardo, quale che sia.
I segnali di D’Alema e Veltroni servono a far uscire allo scoperto distinguo o dissensi.
Cosa faranno Finocchiaro, Gentiloni, Tonini, per fare alcuni nomi in ordine sparso, davanti a una conta? E le pattuglie di parlamentari vicini all’uno o all’altro? Il segretario ha dalla sua parte Franceshini, Bindi, Nichi Vendola, Enrico Letta (con qualche perplessità ) e un gruppo di bersaniani disposti a vendere cara la pelle.
«Attenzione – avverte Matteo Orfini – chi vuole un altro governo tecnico o un accordo con Berlusconi dovrà passare sul nostro cadavere. Per fortuna, abbiamo stabilito che si decide a maggioranza nei gruppi e vediamo chi ha più voti».
E se il tentativo con Grillo non funziona, il rischio Grecia fa paura fino a un certo punto. Qualcuno nel Pd ha già disegnato un cerchietto intorno alla data del 9-10 giugno.
Per tornare a votare.
Goffredo De Marchis
(da “La Repubblica”)
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