I PRIMI PASSI PER IL VOTO AL QUIRINALE
LE VARIE IPOTESI, MA I PARTITI PRENDONO TEMPO
«Tra i parlamentari del Pd le tavole della legge si riducono a due comandamenti. Primo: vietato anche solo ipotizzare elezioni anticipate. Secondo: scomunica per chi anche solo immagina che dopo il voto si possa finire fuori dal governo».
È attraverso questa autoironia feroce che in quel partito si invita a leggere in controluce e con beneficio di inventario la prudenza con la quale il segretario Enrico Letta ripete il suo mantra: «Del Quirinale prossimo venturo non si parla fino a gennaio e comunque Mario Draghi deve guidare il governo fino al 2023, termine naturale della legislatura».
Insomma, quale che sia il vero pensiero del segretario, non è il momento di tirarlo fuori, perché anche solo prospettare soluzioni per il Colle più alto che preludano al voto farebbe salire la pressione del partito oltre i limiti di guardia e potrebbe bruciare candidati eccellenti.
In Parlamento ci si interroga sulle parole del leader dem, vista la sua vicinanza non solo politica ma anche culturale con il presidente del Consiglio, e si arriva a una conclusione che un deputato di Italia viva porta allo scoperto: «Perché dica queste cose ancora non si sa, ma certo se le dice lo fa in accordo con Mario Draghi».
Mario Draghi, dunque. Il premier continua il suo lavoro con le ali della sua composita maggioranza che si intestano battaglie identitarie stando bene attente però a non appesantire la marcia del governo. Per sapere che cosa pensi lui dell’identikit del nuovo capo dello Stato bisogna accontentarsi di una breve risposta concessa in conferenza stampa: «Trovo un po’ offensivo pensare al Quirinale come a una possibilità, anche nei confronti del presidente della Repubblica».
Se si seguono le vie ufficiali le risposte dei partiti e dei parlamentari sono tutte uguali: «È troppo presto», «fari spenti», «tutto tace almeno fino alle amministrative di ottobre», ma in realtà non si parla d’altro che del Quirinale, con un misto di speranze e timori.
Perché non ci sono maggioranze certe, perché storicamente l’Aula di quel voto è luogo di agguati, perché questa volta più della metà dei grandi elettori sa che non tornerà alla Camera o al Senato e non solo per il taglio dei parlamentari.
L’esercito dei Cinque Stelle, per quanto un po’ ridotto dalle defezioni, ha a disposizione il pacchetto di voti più consistente anche se l’unità interna non è più granitica da tanto.
Il Movimento, sondaggi alla mano, vede le elezioni anticipate come uno spettro ma riflette così: «Per il Piano nazionale di ripresa e resilienza c’è bisogno di continuità, ma possono bastare nove mesi».
Proviamo a contare: nove mesi da adesso, nuovo presidente a febbraio, un governo che in poco tempo stringe sulle riforme e completa le vaccinazioni, forse, se ci fosse accordo, una nuova legge elettorale proporzionale e poi il voto.
Un esponente Pd fa più o meno lo stesso ragionamento e lo rende più esplicito: «Dovrebbe arrivare un segnale che dica che il prossimo presidente della Repubblica non scioglierà le Camere in un battibaleno. Si potrebbe anticipare la Finanziaria e chiuderla a settembre per poi votare a ottobre. A quel punto la legislatura avrebbe compiuto quattro anni e sei mesi, quelli che servono a garantire i vitalizi e a rassicurare un po’ la nutrita pattuglia dei peones».
Mai come in questo Parlamento, si ragiona un po’ in tutti i partiti, è difficile eleggere un presidente che sia espressione solo di una parte, oltre al fatto che sarebbe un passo indietro rispetto allo sforzo che ha portato ad affrontare pandemia e crisi economica con un governo di unità nazionale.
I leader del centrodestra, dopo le aperture di Matteo Salvini a Draghi, si trincerano dietro la candidatura di Silvio Berlusconi, facendone però un nome di bandiera, irritando così anche un po’ il federatore che è stato capace tante volte di portarli al governo.
L’uovo di Colombo, la riconferma di Sergio Mattarella, che consentirebbe all’attuale governo di proseguire il suo percorso, si scontra con la sua volontà, più volte dichiarata, di non essere disponibile, sia per ragioni personali che per convincimento politico: auspica anzi una riforma che non consenta un’immediata rielezione al Quirinale, così come proposto già da un suo predecessore, Antonio Segni.
Né pare immaginabile un patto tacito per un reincarico a tempo, che indebolirebbe la figura stessa del presidente della Repubblica.
Almeno al momento tutti i partiti sembrano rispettosi della sua volontà anche se un appello alla sua sensibilità istituzionale, in caso di bisogno, non potrebbe arrivare che all’ultimo minuto.
E comunque, si osserva, per reggere alla nuova maggioranza che può emergere dalle elezioni, servirà un presidente che sia espressione della parte più larga possibile del Parlamento. Peraltro la scelta di Mattarella di spendere il nome di Mario Draghi per il governo, se da una parte lo rende non facilmente sostituibile in quel ruolo, dall’altra rafforza ulteriormente il suo curriculum per il Colle.
Partita ovviamente ancora aperta, quindi, e aperto il gioco di attribuire a questo o a quel leader la volontà di spingere questo o quel candidato. E così qualcuno profetizza che Enrico Letta voglia puntare su Paolo Gentiloni e altri dicono che Matteo Renzi abbia un piano B che prevede Pier Ferdinando Casini come capo dello Stato.
In Italia viva si premette che Mario Draghi sarebbe la via maestra e che andrebbe clonato ma, pur senza fare nomi, si immagina che un presidente non divisivo potrebbe dare il tempo di costruire in Parlamento e nel Paese «l’alleanza dei draghetti», un movimento senza Draghi ma che avrebbe l’obiettivo di rompere gli schieramenti e ridisegnare la sfida politica, per riportare alla presidenza del Consiglio Mario Draghi dopo le elezioni del 2023.
In realtà sono molti quelli che potrebbero voler votare prima. Non ne fanno mistero Giorgia Meloni e Matteo Salvini, che tenterebbe così anche di mettere in riga la fronda interna. Ne avrebbe voglia Giuseppe Conte, che ha assoluto bisogno di rendere concreta la sua leadership. Non è detto che dispiacciano a Enrico Letta, soprattutto se il voto nelle grandi città e le suppletive di Siena andassero a suo favore come i sondaggi prevedono.
Per il resto si attende, tra riflessioni, avvertimenti e timori. Si ragiona sull’Europa, che orfana di Angela Merkel è alla ricerca di figure autorevoli. Si avvertono i franchi tiratori di professione che un patto impallinato nell’urna porterebbe a elezioni senza passare dal via. E crescono le preoccupazioni, esplicitate da un esponente Pd: «Se ci facciamo sfuggire l’opportunità di portare Mario Draghi al Quirinale finisce che prima o poi ci saluta, e allora sono guai».
(da Il Messaggero)
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