IL CORNUTO FELICE
CASO DE LUCA: INVECE CHE CACCIARLO, RENZI TACE E ACCONSENTE
Un mese fa, appena Matteo Renzi ordinò a Matteo Orfini di ordinare a Ignazio Marino di levare le tende dal Campidoglio perchè aveva mentito sulle note spese di sette cene “istituzionali” (totale 20 mila euro) in base alla parola contraria di ristoratori e commensali, pensammo: “Adesso ci divertiamo”.
E scrivemmo che, certo, in un paese e in un partito normali, una menzogna anche di poco conto basta e avanza a giustificare le dimissioni di un sindaco, di un governatore, di un ministro, di un premier, di un presidente.
Ma, siccome siamo in Italia, se tutti i politici che raccontano balle e/o non fanno chiarezza sui propri scontrini dovessero togliere il disturbo, Montecitorio, Palazzo Madama e Palazzo Chigi sarebbero deserti, per non parlare dei palazzi comunali e regionali.
Renzi, nella sua irrefrenabile bulimia di potere, non ci aveva pensato. E i leccapiedi che lo circondano dandogli sempre ragione si erano ben guardati dal metterlo sull’avviso.
Nel breve volgere di quattro settimane, il boomerang scagliato contro Marino gli è già tornato indietro, sui denti. Non una, ma due volte.
A Firenze il suo sindaco Dario Nardella è costretto alla fuga perenne davanti a giornalisti e telecamere per non rispondere alle domande sugli scontrini suoi e di Renzi, che conserva gelosamente in cassaforte rispondendo picche alle richieste di accesso agli atti di Sel e dei 5Stelle: e così, anche se non avesse nulla da nascondere, autorizza il sospetto contrario.
A Napoli il suo governatore Vincenzo De Luca finisce sotto inchiesta — l’ennesima — per uno scandalo ancora tutto da chiarire per le sue responsabilità penali, ma già tutto chiaro per le sue responsabilità politiche.
Da quel che si legge nelle intercettazioni finora note, tre dei faccendieri di cui si circonda don Vincenzo promisero una promozione nella sanità regionale a Guglielmo Manna, marito della giudice civile Anna Scognamiglio, per comprare le sentenze da lei redatte il 22 luglio e l’11 settembre che neutralizzavano il decreto di sospensione del governatore firmato da Renzi.
De Luca sostiene che i tre hanno agito alle sue spalle e a sua insaputa.
I pm affermano invece che De Luca ha subìto la minaccia, non l’ha denunciata e anzi ha promesso la nomina chiesta da Manna in cambio della sentenza che gli salvava la poltrona (Manna si reca più volte nella sede della Regione per contrattare il nuovo posto perchè, dice alla moglie, “mi han chiamato in Regione”).
Ma la questione è ancora controversa, anche se è difficile credere che tre fedelissimi nascondano a De Luca un fatto così enorme, e soprattutto considerare una minaccia quella di una sentenza favorevole alla legge Severino e sfavorevole a lui, cioè una sentenza giusta (la norma che sospende gli amministratori condannati è in vigore dal 1990 e mai messa in dubbio dalla Consulta).
L’asino casca definitivamente il 19 ottobre, quando scattano le perquisizioni della Mobile, anche negli uffici della Regione occupati da uno dei due faccendieri, il capo-segreteria di De Luca, Carmelo Mastursi.
Nel decreto di perquisizione c’è scritto che anche De Luca è indagato per induzione (la vecchia concussione).
Il governatore lo sa, ma per tre settimane non caccia Mastursi e non dice una parola.
Quando poi il 9 novembre Mastursi se ne va perchè si dice molto affaticato, De Luca accredita la sua bugia e lo ringrazia vivamente per la preziosa opera svolta.
E quando esce la notizia che Mastursi è indagato, convoca la solita conferenza stampa senza domande per lanciare i consueti insulti e minacce al nostro giornale (“Dovrebbe chiudere”: sì, ti piacerebbe).
Poi racconta un’altra frottola: “In quest’indagine sono parte lesa”.
Invece è indagato e lo sa.
Tornano in mente Marino e lo scandalo menato da tutti i papaveri renziani perchè “è indagato per gli scontrini e non ce l’ha detto”, dunque “ha perso la fiducia nostra e dei cittadini”, dunque tutti dal notaio a firmare le dimissioni.
E per De Luca? Silenzio di tomba.
“Siamo garantisti”. “Enzo spiegherà ”. Certo, come no.
Poi c’è Renzi: il 27 giugno emana il decreto che sospende De Luca in base a un preciso obbligo di legge (la Severino) e se lo vede annullare da una sentenza firmata dalla Scognamiglio che lo prende pure in giro, scrivendo nella motivazione che la sospensione “comporterebbe la lesione irreparabile e irreversibile del suo diritto soggettivo all’elettorato passivo”.
Una porcheria senza ritegno, perchè una legge dello Stato ha già privato per 18 mesi De Luca dell’elettorato passivo.
Una boiata che De Luca, un’ora dopo il deposito della sentenza, saluta con grande giubilo, facendosi anche lui beffe di Renzi e dandogli dell’analfabeta giuridico: “Sono molto soddisfatto per la decisione del Tribunale di Napoli che ha confermato la sospensione del decreto adottato dal Presidente del Consiglio ai sensi della legge Severino. La grande sensibilità giuridica del collegio partenopeo ha scritto una bella pagina di giustizia a tutto merito della magistratura napoletana, cui rendo onore”.
Ora Renzi scopre che la sentenza contro il suo decreto, oltrechè vergognosa, era pure comprata (ed era stata anticipata via sms — “Abbiamo finito, è fatta”— dalla Scognamiglio al marito, e da questi all’entourage di De Luca — “È andata come previsto” — subito dopo la camera di consiglio cinque giorni prima del deposito).
E lui che fa? Difende la bontà della sua decisione e caccia il responsabile politico di quell’immondo mercimonio? No, tace e acconsente.
Cornuto e felice.
Marco Travaglio
(da “il Fatto Quotidiano“)
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