IL GIORNALISTA BRENT RENAUD UCCISO DAI RUSSI A IRPIN
DAL NEW YORK TIMES AL REPORTAGE SUI PROFUGHI
Qualche giorno fa era andata molto bene a una troupe britannica di Sky News, salvata dal giubbotto anti proiettile; ma nella follia della guerra la buona sorte non dura per sempre: un giornalista americano, il video e film maker Brent Renaud, 51 anni, è stato ucciso mentre cercava di testimoniare l’orrore dei corridoi umanitari violati, delle vite che sfilano con i bimbi per mano e il terrore negli occhi mentre cercano di lasciare Irpin, il paese alle porte di Kiev su cui da giorni i russi fanno piovere piombo e correre sangue.
Il tentativo di aggirare la capitale ucraina passa da lì, e Brent lo sapeva bene: come altre centinaia di giornalisti, fotografi e video maker aveva varcato i ponti per provare a raccontare quanto sia orribile “l’operazione speciale” che sta martoriando un popolo. Non c’è nulla di più pericoloso che essere lì, oggi, ma Brent non era uno che si tira indietro di fronte al pericolo, quando serve a mostrare al mondo cosa ci sia dietro e dentro le parole
Insieme al fratello Craig, Brent Renaud aveva vinto decine di premi per i film e i programmi realizzati ovunque i civili paghino il conto, nel mondo, di guerre dichiarate e di scelte scellerate: in Iraq e in Afghanistan, in Libia e in Egitto, nel terremoto di Haiti, nelle violenze terrificanti in Messico…
Ha vinto un Peabody, due Columbia DuPont, due Overseas Press Club, un Edward R. Murrow e un IDA, senza contare un’infinità di nominations e gli applausi del pubblico e della critica.
I suoi lavori restano, lui non più. Lo hanno colpito al collo, mentre fuggiva a un’imboscata subito dopo aver passato un check point diretto verso il cuore di Irpin. Di quello che resta, di Irpin: la gente nei rifugi, la fame e la sete, il terrore a mettere un piede fuori ma la consapevolezza che non si può restare oltre. Eppure “l’operazione speciale” di Mosca non riesce nemmeno a rispettare quel briciolo di umanità. Si spara, si bombarda, si colpisce.
Brent non era solo, su quell’auto. Gli altri se la sono cavata, il suo collega Juan Arredondo è stato ricoverato in ospedale, ferito ma vivo: “Avevamo passato un ponte a Irpin, volevamo filmare la fuga dei rifugiati, abbiamo trovato un’auto che si è offerta di portarci al secondo ponte, abbiamo passato un check point e poi hanno iniziato a sparare all’auto. Siamo scesi, lui era dietro di me, è stato colpito al collo, ci siamo divisi, è rimasto a terra”, ha detto a una collega che ha raccolto la sua testimonianza in ospedale.
La morsa che si stringe intorno a Kiev – per cingerla d’assedio come i russi hanno fatto con Kharkiv, Kerson e Mariupol – è una presa mortale, un incubo che l’esercito ucraino e le forze territoriali tentano di scongiurare con ogni mezzo.
Sulla linea di attrito, i civili languono e muoiono. E muoiono anche i giornalisti che raccontano questa infamia. Brent, che in passato aveva lavorato anche per il New York Times, aveva al collo una press card del quotidiano americano: era una chiave con cui aprire porte, ma non era a Kiev su incarico del Times, che spiega in un comunicato: “Aveva un nostro vecchio badge, ma non era lì per noi. Siamo addolorati”.
(da La Repubblica)
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