IL PD DEL MITE ZINGARETTI
ARCHIVIATO IL RENZISMO, FINE DEL LEADERISMO, RECUPERO DELLA MEMORIA, CRITICA AL CAPITALISMO, CAMPO LARGO DELLA COESISTENZA
Con quell’aria un po’ così, da figlio del partito in camicia azzurra e cravatta, così refrattario alla cultura dell’immagine da permettersi il lusso novecentesco di sudare, proprio come una volta, il mite Zinga una svolta l’ha impressa, nel suo grande giorno. E anche piuttosto radicale nelle parole e nei simboli.
Svolta segnata, innanzitutto e di questi tempi non è poco, da un grande recupero del principio di realtà , con qualche accenno di autocritica, grande tabù violato in un partito che, fino a poco tempo fa, la considerava un’attività da comunisti, preferendo suonare la grancassa al leader.
E chiamando modernità ciò che negava la storia e della sinistra, in un eterno presente senza memoria.
Ecco invece, il figlio di un partito dove si analizzava per ore anche la vittoria degli universitari alla Sapienza, figuriamoci la più grande sconfitta della storia della sinistra,
nel suo primo discorso, che annuncia il suo “cambiamo tutto”, anche lo statuto del partito per aprirlo alla società e sottrarlo al dominio delle filiere di potere, spalancando porte e finestre.
E va al dunque, alla cruda realtà delle ragioni per cui questo cambiamento è necessario: “Anche noi, dalla cima di questa montagna di frasi fatte, di intenti roboanti, di schemi politici, abbiamo perso di vista la quotidianità della vita”.
Non è poco, è una critica a ciò che è stato, accompagnata da un recupero identitario, per cui il passato — grande bersaglio della cultura della rottamazione — torna ad essere, nelle citazioni di Gramsci o Moro o nella fotografia a Porta San Paolo, luogo simbolo della Resistenza, non un luogo da abitare nostalgicamente ma un campo di costruzione di senso.
Diciamolo subito. È l’inizio, solo l’inizio, di un possibile “nuovo Pd” — questo il proposito, l’ambizione, il progetto — perchè poi le migliori idee camminano sulle gambe degli uomini.
E le gambe sono di chi, finora, non è propriamente stato su Marte, ma tanta responsabilità ha avuto in questi anni, dal neo eletto presidente Paolo Gentiloni discendendo giù pe li rami.
Non è un dettaglio, a scorrere i nomi della direzione, perfetto accrocco di correnti, come sempre è stato, su cui si è svolta una trattativa serrata fino all’ultimo su nomi e quote, sotto-quote, equilibri all’interno delle singole componenti, con poche novità presenti proprio nella quota nel nuovo segretario, con la presenza, oltre a Carlo Calenda, soprattutto di parecchi giovani.
Però questo nuovo inizio, a giudicare dalla fotografia di giornata, segna una cesura politica, sia pur nello iato tra ciò che è ancora il corpo del Pd e ciò che dovrebbe diventare.
Bastava raccogliere, all’uscita dall’Ergife, lo sfogo di qualche irriducibile del renzismo su un discorso “da Ds” o l’entusiasmo degli altri perchè “finalmente è tornata la sinistra”, ecco bastava ascoltare qualche reazione, per dare il senso di ciò che è accaduto.
Ovvero: un cambio di “paradigma”, politico e culturale. C’era una sala di dirigenti politici, non di tifosi, attenta e ragionante, interprete di quell’ansia di rinnovamento e di alternativa, espressa dal popolo delle primarie che non vive la partecipazione come applauso al Capo e delega fideistica.
E un segretario che si è posto come interprete di una comunità e non come un novello Prometeo che porta il fuoco agli uomini: gli attacchi al governo non sono insulti, l’atteggiamento è di chi ha imparato la lezione, l’analisi della società , delle sue sfumature e delle sue contraddizioni, non cede mai il posto al battutismo.
Nel discorso c’è tutto lo sforzo a ripristinare il primato dalla politica sulla comunicazione, dell’iniziativa sulla testimonianza, secondo l’antica lezione che la grande politica non può prescindere dalla fatica intellettuale di comprendere il tempo che ci è dato di vivere.
Ed è tornato, per prima volta nelle parole di Zingaretti, un principio di critica severa al capitalismo, alle storture del mercato, alla sbornia liberista di questi anni di crisi “in cui abbiamo governato, e non poco, anche noi”, e a una visione ciecamente ottimistica della globalizzazione che ha portato a sottovalutare il tema delle disuguaglianze: “Non abbiamo compreso quanto negli ultimi vent’anni un becero liberismo, ringalluzzito dalla fine così poco dignitosa del socialismo reale, avesse ripreso le redini del comando”.
Parole che non si sentivano da un po’, come la ricerca di un dialogo con quella periferie sociali che hanno abbandonato la sinistra e hanno creduto nei Cinque Stelle. Quel popolo, non i leader che restano avversari, è forse il primo destinatario del discorso. Sentite qui: “Una parte grande di quelli che hanno creduto in Di Maio gli si stanno rivoltando contro perchè non è rappresentata quella speranza di cambiamento che il movimento aveva intercettato e rappresentato. Non è affatto scontato che tornino a noi. Ma questo è il passaggio essenziale che si sta verificando nel quadro politico”.
Lo schema è cambiato. Dal conflitto, inteso come ossessiva ricerca del nemico, interno ed esterno, “noi e i barbari”, al tentativo di ricollocare il Pd nel cuore della società italiana ridisegnando la sua funzione nazionale attraverso la critica dell’esistente e la cultura del “patto”.
Patto col lavoro, con l’impresa, con l’intellettualità “prendendo noi l’iniziativa di incontrarli”, con quei corpi intermedi, ignorati e vissuti come ostacolo negli anni della disintermediazione e del populismo, per costruire una nuova agenda.
Welfare, assunzioni nella scuola, sanità , questione salariale degli insegnanti, tanto sud, mezzo intervento è su un rinnovato ruolo del pubblico e su una attenzione al sociale.
È questa attenzione a una ricomposizione del corpo sociale della sinistra la maggiore novità del discorso. E la grande sterzata, appunto, rispetto alla disintermediazione. Popolo inteso non come generica entità sociologica, ma come costruzione politica, con i suoi bisogni, interessi, contraddizioni.
Il che significa ri-politicizzare lo spazio politico, attorno alla distinzione tra destra e sinistra, proprio in un’epoca in cui la narrazione dominante lo ha incentrato attorno alla contrapposizione tra èlite e popolo, inteso come entità indistinta.
Questa è la novità che colloca la discussione sulle alleanze del “nuovo centrosinistra” fuori dal politicismo delle sigle, perchè dà ad essa uno sfondo sociale. La proposta di Zingaretti, concreta, è sostanzialmente, di un coordinamento tra le forze di opposizione al governo, come terreno su cui costruire una alternativa.
Parliamoci chiaro: è rivolta alla Bonino, a Pizzarotti, ma anche a Leu che resta innominata perchè il neosegretario vuole gestire il passaggio con gradualità .
Però ciò che è a sinistra del Pd torna ad essere un interlocutore, non più il diavolo, a partire dalla lista per le europee perchè non ha senso che chi si riconosce in Europa nel Pse in Italia si presenti diviso “in due liste”.
E anche questa è una novità : “Non si tratta di mettere indietro le lancette dell’orologio che nessuno vuole, a cominciare da chi a mio giudizio ha sbagliato a dividersi da noi. Si tratta di non rimanere immobili e di avviare una rigenerazione di un campo plurale nel quale ognuno deve fare la sua parte”.
Renzi è assente. Lontano dalla sala, e non solo fisicamente.
(da “Huffingtonpost”)
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