“ISRAELE NON AVRÀ MAI PACE SE NON METTERÀ FINE ALL’OCCUPAZIONE”: LO STORICO ISRAELIANO ILAN PAPPÉ MENA DURO SULLE POLITICHE DEL SUO PAESE
“È ORMAI GUIDATO DA UNA ÉLITE MESSIANICA CHE SOGNA DI MODELLARE IL NUOVO MEDIORIENTE CON LA COMPLICITÀ DI UN MONDO SEMPRE PIÙ A DESTRA. HAMAS HA COMPIUTO UN MASSACRO, MA LA RISPOSTA È STATA PUNIRE L’INTERA POPOLAZIONE DI GAZA. IL 7 OTTOBRE È IL PRETESTO PER IL MOVIMENTO DEI COLONI DI FARE PULIZIA ETNICA”
Su Tel Aviv piomba la risposta degli ayatollah e il Medioriente si blinda, l’orizzonte prima della pioggia. Il commento dello storico israeliano Ilan Pappé, critico irriducibile del sionismo a cui è dedicato anche il suo ultimo libro Brevissima storia del conflitto tra Israele e Palestina (Fazi), è lapidario: «Israele non avrà mai pace né sicurezza finché non metterà fine all’occupazione di milioni di palestinesi».
Nessun cedimento alla memoria del 7 ottobre, all’alba del primo anniversario. Pappé scuote la testa canuta: «La pulizia etnica iniziata nel ’48 è la causa, la guerra la risposta».
Chiusa lì, occhio per occhio.
L’invasione del Libano, i missili iraniani su Israele. Siamo già oltre il baratro?
«Alla fine l’Iran dovrà trattenersi, non può affrontare una guerra regionale. In Israele invece la leadership politica è convinta che il potere militare sia l’unica strada, non considera alcuna soluzione diplomatica e vede il controllo dell’intera Palestina storica come l’unica chance di pacificare un Paese spaccato tra religiosi e laici.
Per questo, come in Libano, Israele insisterà con la forza: non so se schiaccerà la terza intifada iniziata il 7 ottobre, ma non rimuoverà il vero ostacolo alla pace che non è Hezbollah né l’Iran bensì l’occupazione di milioni di palestinesi».
Che Paese è oggi Israele?
«Un anno dopo il 7 ottobre Israele è quel che era prima, un Paese fratto dove lo Stato di Giudea guadagna terreno. I più laici stanno facendo le valigie e quelli che restano si condannano al silenzio, perché rifiutano la teocrazia ma non hanno un piano per la Palestina. Israele è ormai guidato da una élite messianica che sogna di modellare il nuovo Medioriente con la complicità di un mondo sempre più a destra e in spregio delle Nazioni Unite».
C’è chi chiama terrorismo la risposta israeliana al pogrom del 7 ottobre. È così e crede sia plausibile paragonare Israele, Hamas e Hezbollah?
«Hamas ha indubbiamente compiuto un massacro di civili. Ritengo però che la risposta d’Israele sia stata del tutto sbagliata, non tanto all’inizio, a caldo, ma dopo, quando ha deciso di punire con Hamas l’intera popolazione di Gaza. Il 7 ottobre non è la causa di quella politica genocidiaria ma il pretesto, l’opportunità per il movimento dei coloni di fare pulizia etnica a Gaza e in Cisgiordania».
Lei è un implacabile critico del sionismo. Neppure dopo il massacro dei kibbutz più pacifisti ha deposto le armi
«Quei kibbutz definiti pacifisti sono stati costruiti sulle rovine dei villaggi palestinesi distrutti prima e dopo la nascita d’Israele mentre chi li ha attaccati appartiene alla terza generazione di profughi. Nel ’48 è stato il sionismo di sinistra a incoraggiare i coloni, cacciando le popolazioni indigene e creando a Gaza il mega campo profughi che dopo il ’67 sarebbe diventato una mega prigione. Non puoi vivere accanto a una prigione e pensare che là dentro ti amino perché li aiuti.».
Da un lato c’è Israele ostaggio di coloni irriducibili, dall’altro una causa palestinese a cui l’islamismo ha scippato la matrice anticoloniale volgendola in religiosa. Di Israele ci ha detto, del fronte opposto?
«Penso che gran parte dei palestinesi non voglia Hamas ma la liberazione e che veda il movimento islamico come l’unica forza in lotta per la liberazione».
La strada di Hezbollah è lastricata dalle lapidi di Samir Kassir, May Chidiac, Gebran Tueni, intellettuali uccisi per le loro critiche. C’è un Ilan Pappé nel mondo islamico?
«Ne conosco molti. Ma nelle guerre di liberazione le critiche non sono benvolute, dubito che i partigiani italiani in lotta contro i nazifascisti ambissero al confronto democratico».
Ripete che c’è un prima del 7 ottobre. Può, nel dopo, un Iran ridimensionato riaprire gli accordi di Abramo e il piano due popoli per due Stati?
«Quella di due popoli per due Stati è una strada morta. E non vedo speranza nella politica israeliana futura: continuerà a virare a destra. Inoltre, non sono i popoli ma i regimi a volere gli accordi di Abramo. E se gli Stati arabi diventassero democratici sarebbero ancora più ostili a Israele perché la causa palestinese incarna un sogno che essendo ancora in potenza potrebbe correggere gli errori dei Paesi già decolonizzati. L’unica via d’uscita dalla violenza è un’iniziativa internazionale volta a far nascere uno Stato democratico dal fiume al mare».
Uno Stato binazionale?
«Uno Stato per gli ebrei e i palestinesi, rifugiati compresi».
E come dovrebbe chiamarsi?
«Il nome non conta, potrebbe chiamarsi Nuova Palestina».
Una provocazione. E Israele?
«Gli ebrei dovrebbero accettare di non essere più maggioranza nel nuovo Stato. L’alternativa è la guerra, seguita dalla scomparsa d’Israele. Non puoi pensare di vivere opprimendo un altro popolo in eterno».
La pace si fa con i nemici, insegna Oslo: Israele potrebbe stringere la mano a Hamas?
«Dividersi la terra è impossibile. Forse non lo era nel ’67 ma ora le colonie sono ovunque.
Alla Palestina toccherebbe il 22%: non si parla di strette di mano ma di contenuti».
(da agenzie)
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