JOBS ACT, NESSUNA BATTAGLIA CAMPALE: PASSA LA FIDUCIA AL SENATO TRA BANCHI VUOTI E CHIACCHIERE
ALTRO CHE “L’ART. 18 NON SI TOCCA” E “FIDUCIA MAI”: ALLA FINE TUTTI COPERTI E ALLLINEATI
Ad un certo punto qualcuno dai banchi del Partito democratico si fa coraggio: “Shhhh”. Chiede silenzio.
Parla la senatrice Annamaria Parente e a stento sentono i suoi vicini di banco.
La battaglia campale sul Jobs act, quella della “fiducia mai” e il “parlamento abusato” e “l’articolo 18 non si tocca”, al Senato si chiude così: tra il chiacchiericcio e i borbottii dei parlamentari, qualche sbadiglio, un viavai stile via del Corso.
Il presidente d’Aula Roberto Calderoli non ci ha nemmeno fatto troppo caso: il brusio di fondo è rimasto lì per oltre quattro ore.
Solo, ai banchi del governo, ascolta il ministro Poletti: gira la testa a seconda di chi parla, braccia conserte, si trascina la sua borsa nera e ogni tanto accenna un movimento.
I senatori si alzano, escono, vanno al bar, fanno interviste. Diversivi in attesa del voto. La passeggiata è appena fuori dall’Aula.
Dentro il Senato, il governo chiede (e ottiene) la fiducia sul disegno legge delega per la riforma del lavoro.
Fuori, invece, porte e strade sono blindate dalle camionette della polizia. Protestano studenti e sindacati. In mattinata hanno tirato uova e petardi, poi hanno provato a sfondare i cordoni, le forze dell’ordine hanno deciso “azioni di contenimento”: l’esito è di 3 feriti e 2 fermati.
I senatori per entrare a dare il voto hanno dovuto schivare qualche agente.
Poi nella sala a poltrone rosse e senza finestre, delle proteste di piazza non è rimasto quasi niente. Qualcuno ha faticato ad uscire in pausa pranzo (nessun taxi disponibile, strade chiuse e obbligo di andare a zig zag), ma per il resto è filato tutto liscio.
Quattro ore di discussione. Dall’alto della tribuna ospiti una classe di studenti in visita guarda il Senato: ma le poltrone sono vuote.
I parlamentari seduti ai loro scranni fissano ipad, giornali, il cellulare. E parlano. Lavoro, probabilmente. Si mettono avanti e sbrigano faccende.
Perchè tanto il governo ha blindato il testo (con la 32esima fiducia).
A Palazzo Madama ne hanno già parlato ad ottobre scorso, la Camera ha cambiato quello che doveva cambiare ed ora che torna non c’è nemmeno da fare la fatica di discutere.
Perfino la minoranza Pd ha messo nero su bianco che, vabbè, questa riforma del lavoro non le piace, ma voterà lo stesso.
Non bastano nemmeno i cartelli del gruppetto di Sel (“Ritorno all’800″ su fogli A4 che riescono a leggere solo gli zoom dei fotografi).
All’improvviso è il turno delle dichiarazioni di voto e a qualcuno si scalda l’animo (finalmente). Ma tornano a sedersi solo i colleghi di gruppo di chi parla.
Così Anna Maria Bernini, applaudita da Antonio Razzi rientrato di fretta dopo l’immancabile intervista in sala stampa.
Così per Nunzia Catalfo del Movimento 5 stelle, supportata dai colleghi che per il resto entrano ed escono dall’Aula.
Affollati i banchi del Pd, i cui senatori sono chiamati a sfidare un po’ la propria storia, vista la storia dell’ulteriore trasformazione dell’articolo 18.
Ma il clima è stanco: un parlamentare democratico di sfuggita guarda un catalogo di gioielli. Collier e catene d’oro, probabilmente un regalo: siamo sotto Natale.
“Siamo di fronte a una svolta” prova a svegliare i colleghi Pippo Pagano del Nuovo centrodestra nel vuoto dell’Aula. “C’è l’orgoglio della nostra forza politica di aver contribuito a questo provvedimento storico”.
Tentano una protesta i 5 stelle, ma è tutta un’altra storia rispetto all’ostruzionismo di altri mesi: le manette ai banchi, le corse verso i banchi del governo, le sospensioni. “Questa — dice Catalfo — non la chiamerei una riforma: per fare una riforma vera bisogna investire in capitale umano. Noi ci apprestiamo a votare un testo che nei fatti è identico a quello votato in Senato. Il governo che punta ad abbattere le barriere, oggi ne alza un’altra”. Non è cambiato niente.
Il testo era stato blindato prima, non avrebbe dovuto cambiare mai. E invece torna con le modifiche. E i senatori protestano, o così dicono di fare.
L’azzardo lo fa la berlusconiana Anna Maria Bernini: “C’è stata — dice — una discussione troppo breve e non sufficiente per una legge delega. E’ una mancata riforma del lavoro per gli anni a venire. Il governo ha prodotto un provvedimento vago che non crea effetti reali. Siamo all’ennesima fiducia, siamo all’umiliazione di questo governo. Questa delega purtroppo dice pochissimo. Siamo contro questo provvedimento che danneggia il Paese”.
Ore 18.34, entra Mario Monti, senatore a vita, iscritto ancora — almeno lui — a Scelta Civica: è una delle sue poche presenze in Aula e si prepara al voto di fiducia.
E’ la volta di Annamaria Parente, del Partito democratico. E’ una ex sindacalista della Cisl, settore Poste. Ha sostenuto prima Veltroni e poi Bersani.
Ora difende la legge di Renzi che i sindacati avversano: “E’ il frutto di una visione complessiva. Le risorse sono e saranno fondamentali. Una battaglia che il nostro premier sta combattendo. Una visione d’insieme. Ora la parola passa a voi, governo. Ma noi parlamentari vigileremo sulle effettive attuazioni”.
E quando il chiacchiericcio si fa insostenibile, qualcuno grida “shh” e chiede almeno il ritorno all’ordine se non un rispettoso silenzio.
Poi entra Giovanardi: si guarda intorno per capire se è già l’ora del voto. Chiude il giro il senatore Corradino Mineo: “Credo che il governo non debba abusare in modo grave di questo provvedimento. Già a ottobre ha chiesto la fiducia, quando invece ci potevano essere delle discussioni. C’è da chiedersi se questa assemblea è stata sciolta a sua insaputa”.
Solo così si potrebbero spiegare le assenze, i capannelli, le chiacchiere, gli sbadigli, gli Ipad.
Martina Castigliani
(da “il Fatto Quotidiano”)
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