LA TRUFFA DEL JOBS ACT… E CHI LAVORA RESTA IN FILA
USARE L’ART.18 PER UMILIARE UN SINDACATO NON AIUTA I LAVORATORI, MA LI RAGGIRA
In una delle strade nevralgiche di Roma, via Nomentana, c’era un traffico superiore a quello abituale, assolutamente già invivibile di suo.
Tre km scarsi, e tra semafori impazziti, vigili come l’arbitro Rocchi, corsie preferenziali intasate da chiunque, vialetti laterali impercorribili, si rimaneva imbottigliati per più di un’ora: spiegazione, i lavori stradali.
Giacchè era interrotto il percorso viario, mi sono immesso in quello mentale. Perchè a Roma i lavori di manutenzione si fanno di giorno, meglio se nelle ore di punta, con costi sociali enormi non facilmente misurabili ed effetti collaterali determinanti sulla psiche collettiva, e non invece di notte come nelle metropoli civili o decenti all’estero?
Dice: perchè di notte dovrebbero fare gli straordinari e il Comune non ha i soldi per pagarli, nè direttamente nè indirettamente.
E comunque magari c’è chi si rifiuterebbe di farlo.
Mi domando se tutto ciò abbia qualcosa a che fare con l’art. 18, con la discussione sul Job’s act (o semplificato Jobs act senza genitivo sassone e in ogni caso stolidamente esterofilo: mercato del lavoro andava così male?), con il dato del Fmi che indica nell’Italia l’unico Paese in recessione tra le grandi economie, con i numeri degli italiani che espatriano alla ricerca di lavoro che doppiano quelli degli immigrati (94 mila nel 2013 in crescita esponenziale).
C’entra l’art. 18 per esempio con la possibilità di rotazione negli orari notturni senza straordinari per i lavoratori stradali?
Negli altri Paesi in cui lavorano per le strade di notte come sono messi da questo punto di vista?
Si metterebbero a rischio diritti acquisiti o sarebbe giusto ridiscuterne alla luce della “più grave crisi del dopoguerra”?
E nel concreto la discussione sul Job’s act (oddio…) tocca anche questo genere di problemi?
E che distanza c’è realmente tra via Nomentana e Palazzo Chigi?
Rubo all’effervescente sociologo De Masi alcuni dati.
Il numero complessivo degli occupati da noi è 22 milioni e 380 mila. I casi da art. 18 sono 40 mila. Ma — obietta De Masi — l’80% di essi arriva a un accordo extragiudiziale.
Dunque ne restano 8 mila. In 4.500 casi il lavoratore perde e in 3.500 vince.
Ma non sempre se vince ottiene il reintegro, calcolabile invece solo sui due terzi, quindi poco più che in 2.500 casi.
Ovviamente come già stradetto, scritto e ripetuto, il valore simbolico e rappresentativo di un modo di intendere il diritto al lavoro non si misura contrapponendo i dati esigui all’universo dei lavoratori.
Ma è sciuro che nel maneggiare la polemica politica strumentale sull’art. 18 non si possono tralasciare considerazioni di fondo: se davvero interessa far ripartire il Paese, è impensabile farlo escludendo da questa ripartenza l’unità sindacale, i datori di lavoro e l’esecutivo politico.
Basta voler indebolire uno di questi tre fattori ed è come estrarre maldestramente dal castello di bastoncini dello shanghai quello sbagliato.
Usare l’art.18 per costringere nel ridotto un sindacato che pur ne ha fatte di tutti i colori negli ultimi vent’anni non significa aiutare i lavoratori, ma soltanto raggirarli nell’imbuto tra teoria e pratica.
Così come imbastire polemiche lessicali sul termine “padroni/imprenditori” fa ridere per non piangere in tempi in cui è un sistemaPaese che va in rovina.
Che poi tutto ciò serva a un regolamento di conti interno al Pd, è la ciliegina su una torta andata a male e fanno sorridere i proclami di “lealtà ” in aula dopo le esperienze dell’ultima elezione per il Quirinale…
Se vogliamo continuare sulla falsariga di un derby che si trasferisce da JuveRoma all’art.18, prego, accomodatevi.
Ma intanto noi siamo in fila da una vita sulla Nomentana…
Oliviero Beha
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