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MANOVRA, CHI HA SBAGLIATO DI PIU’? MELONI E SALVINI

LE BOCCIATURE DI BANKITALIA, CNEL E CORTE DEI CONTI ALLA FINANZIARIA VERTONO SU QUATTRO PUNTI (POS E CONTANTE, FISCO, REDDITO DI CITTADINANZA E RIDUZIONE DEL DEBITO), TRE DEI QUALI HANNO LE IMPRONTE DIGITALI DI SALVINI (E GIORGIA NON SI SMARCA)

La finanziaria messa in campo dal governo Meloni ha preso schiaffi da tutti: Bankitalia, Cnel, Corte dei Conti. Un rilievo dopo l’altro per dire a brutto muso al centrodestra: Ci dispiace, così non va.
Ma cosa non è andato giù ai tanti critici della manovra? I punti controversi sono quattro: i pagamenti con il pos e il tetto al contante, le modifiche alla flat tax e le criticità sul fisco, il taglio al reddito di cittadinanza e la riduzione del rapporto debito-Pil (obiettivo che va centrato nel triennio).
Tre delle quattro “criticità” sono state partorite dalla testolina creativa di Matteo Salvini. Se questa è l’accoglienza delle istituzioni italiane (con cui Giorgia Meloni dimostra di non avere alcuna “consuetudine”, a differenza di Draghi) figuriamoci cosa puo’ accadere quando la manovra arriverà a Bruxelles. Al tiro di fionda visto in patria seguiranno colpi di cannone.
Il nervosismo a palazzo Chigi, non a caso, sta lievitando come l’impasto per la pizza. Persino il fido Fazzolari, considerato tra i più lucidi consiglieri di “Io sono Giorgia”, ha fatto una figura da cioccolataio portando un attacco scomposto a Bankitalia (“Le critiche? Non mi sorprendono, Bankitalia è partecipata da banche private”) per poi essere redarguito da una nota di palazzo Chigi, che ha corretto il pensiero audace del sottosegretario: “Fazzolari non ha mai messo in discussione l’autonomia di Bankitalia. Anzi, ribadisce il pieno apprezzamento per l’operato di via Nazionale”. Frittata fatta.
Lo scontro frontale con palazzo Koch che, secondo “Repubblica”, la Meloni avrebbe autorizzato sguinzagliando Fazzolari, in realtà è solo l’ennesimo intralcio che rende ancora più difficoltosa la trattativa che il governo sta conducendo con Bruxelles per non vedersi bocciare la manovra. La Ducetta sarebbe disposta ad abbassare da 60 a 30 il limite per pagare con il pos. Ma visto che in ballo ci sono i soldi del Pnrr sarebbe anche disposta a far saltare tutto e amen.
Come nota “Repubblica”: “Meloni non puo’ bruciare miliardi solo per difendere una misura bandiera”. Sembra essere tornati alla confusione pasticciona dei primi mesi da segretario del Pd di Enrico Letta. Sbarcato al Nazareno, coto-Letta pensò bene di fissare le priorità nazionali nel voto ai 16enni, nel ddl Zan, nella patrimoniale per dare la dote ai 18enni. Si è visto che fine ha fatto. Nello stesso furore identitario è cascata la Meloni.
Tetto al contante, pagamento con il pos, flat tax: sono queste le necessità di un paese alle prese con una crisi energetica e inflazionistica senza precedenti, con bollette alle stelle e supermercati costosi come una boutique di lusso? Ovviamente no. E’ piccolo cabotaggio politico, irrilevante rispetto ai nodi, enormi, che dovrebbe affrontare il governo. La guerra in Ucraina mette a repentaglio l’economia mondiale e gli approvvigionamenti e in Italia riusciamo a impantanarci su un tetto al contante da 5 mila euro. Che poi: chi ce l’ha ‘sti pacchi di soldi da portare a spasso? Follie.
Una necessità politica è la revisione del codice degli appalti, in chiave Pnrr. Draghi aveva chiesto al Consiglio di Stato, cioè a Franco Frattini, di immaginare una semplificazione dei testi di legge per agevolare la messa a terra delle opere previste dal Piano concordato con l’Europa. Al lavoro certosino dei giuristi di palazzo Spada quel buontempone di Salvini ha opposto il suo “metodo”: “Sto presidiando il terreno sia della manovra di Bilancio, perché ci sono parecchi quattrini alla voce infrastrutture, sia sul tema codice degli appalti. Entro dieci giorni dobbiamo arrivare in Consiglio dei ministri, e questi 230 articoli li voglio assolutamente tagliare con l’accetta affinché diventi un codice a favore delle imprese, non contro le imprese”. Come hanno reagito al Consiglio di Stato? Bene, fatevelo da soli
A palazzo Chigi il sottosegretario Mantovano e il segretario generale Deodato sono i vasi di coccio in mezzo a tanti vasi di ferro: devono barcamenarsi, come equilibristi, per far dialogare poteri e istituzioni evitando rotture clamorose e strappi dolorosi.
Il ministro per gli Affari europei, Raffaele Fitto, ha l’ingrato compito di comunicare a Bruxelles che i 55 punti previsti dal Pnrr non saranno portati a conclusione nei termini previsti, cioè entro il 31 dicembre 2022 data di scadenza imposta dall’Unione. A rischio c’è la seconda rata del Piano, con conseguente perdita di liquidità e di credibilità con l’Europa.
I dolori del giovane Fitto, preoccupato per la messa a terra del Pnrr, tradiscono un’incontenibile irritazione nei confronti del Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Matteo Salvini. L’ultimo incontro tra i due risale al 24 novembre 2022, un’era geologica nella clessidra europea delle scadenze.
La Commissione nominata da Salvini per tagliare del 50% il testo degli appalti (grimaldello fondamentale per agevolare la realizzazione dei progetti) avrebbe dovuto concludere il lavoro entro fine novembre per poi condividere il testo con gli alleati prima di presentarlo a Palazzo Chigi. Nessuno ha dato credito alla sparata del “Salvini falegname” quando, alla fine del mese scorso, dichiarava di voler “tagliare con l’accetta” i 230 articoli del Codice degli appalti. Nessuno poteva credere che una Commissione di “tecnici” potesse essere così dipendente dalle ubbie di Salvini da assecondarne le sparate pur non condividendole.
Risultato finale: il plico con le modifiche è stato rimesso da Fitto e Meloni nelle mani esperte del sottosegretario Alfredo Mantovano costretto, con la destra, a difendere la Manovra di Bilancio e con la sinistra ad intervenire contemporaneamente sulla versione originale del Codice degli appalti.
“L’encomiabile” lavoro svolto dalla “Commissione Salvini” non sarebbe riuscito a superare le verifiche supplementari dei giudici amministrativi mettendo a rischio il raggiungimento dell’intero obiettivo. Se Draghi aveva messo nelle mani del Ministero dell’Economia e della Ragioneria generale dello Stato le chiavi del Pnrr, il governo di centrodestra ha solo il povero Fitto a fare da punching ball di tutte le rogne e i problemi.
Giorgia Meloni, dal canto suo, vede e subisce le difficoltà dell’esecutivo ma, nella sua ossessione di dare l’immagine di un governo coeso, preferisce tenere i conflitti (l’ultimo è Fitto vs Salvini) sotto il livello di guardia. Anche perché la Regina della Garbatella si sta rendendo conto che vincere le elezioni e andare a palazzo Chigi non equivale alla presa della Bastiglia. Non c’è una stanza dei bottoni dietro la sua scrivania. Il vero potere è altrove, disseminato nei ministeri e nelle istituzioni, in Bankitalia e al Consiglio di Stato, ben incarnato da quel “deep state” che puo’ mettere i bastoni tra le ruote come e quando vuole.
Un approccio più diplomatico avrebbe aiutato “Io sono Giorgia” a trovare le chiavi per arrivare a quei super boiardi che possono fare e disfare l’azione dell’esecutivo. Ma la leader di Fratelli d’Italia sembra voler seguire, se non addirittura intestarsi, le sparate di Salvini. Il Capitone smania, freme, è impaziente: la sconfitta del suo candidato al congresso della Lega a Brescia, dopo la batosta alle elezioni, lo ha reso furioso.
Sta perdendo la presa sul partito (ormai anche il governatore del Friuli, Fedriga, non nega più le crepe interne), i “nordisti” di Umberto Bossi gli fanno aperta opposizione e i consensi languono. Di qui la decisione di spostare il suo baricentro d’azione al Sud, con il tormentone del ponte sullo Stretto di Messina, magari per riacchiappare quei voti meridionali che avevano ingrassato il suo consenso alle politiche del 2018 e alle europee del 2019.
(da Dagoreport)

This entry was posted on martedì, Dicembre 6th, 2022 at 21:54 and is filed under Politica. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. You can leave a response, or trackback from your own site.

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