PERCHE’ LA POLITICA DI “CONTENIMENTO DEI PROFUGHI”, SPACCIATA COME SOLUZIONE DA MINNITI, RISCHIA DI AFFONDARE
NON SOLO SI DIMENTICA DI INTERVENIRE SULLE CAUSE DELLA MIGRAZIONE, MA SI ELARGISCONO MILIONI SENZA SAPERE A CHI ANDRANNO REALMENTE… E SARANNO SOLDI BUTTATI, COME SEMPRE
Nel 2016 sono arrivate via mare in Italia più di 180.000 persone. Circa il 90% è partito dalle coste libiche. Dopo varie sortite a Tripoli di Minniti, il 2 febbraio, il premier italiano Paolo Gentiloni e Fayez Serraj, interlocutore del Governo di accordo nazionale libico (Gna), hanno siglato quello che comunemente viene chiamato “l’accordo sui migranti”.
Poco più di un mese dopo, sempre a Roma, Gentiloni ha stipulato un’intesa con il presidente del Niger, Mahamadou Issoufou, a cui ha garantito 50 milioni di euro per il controllo delle frontiere e la creazione di centri di accoglienza nel Paese.
Infine, lo scorso venerdì, praticamente a sorpresa, alcune delle principali (e litigiosissime) tribù libiche del Fezzan hanno siglato una tregua, sempre sotto l’occhio vigile del ministro italiano.
Si delinea sempre più chiaramente la strategia dell’Italia per il contenimento dei migranti: fermarli quanto più possibile vicino alla partenza, o lungo il percorso, per evitare che arrivino sulle coste libiche da cui, oramai si è capito, è praticamente impossibile bloccarli.
Una strategia che presenta non poche criticità e, se la cosa non fosse estremamente seria, verrebbe da dire, con amaro sarcasmo, che rischia di affondare prima ancora dei barconi.
Vediamo perchè.
Il piano italiano si snoda su tre livelli.
In ordine di “contiguità territoriale” alle coste italiane: controllo dei punti di imbarco per l’Italia e dunque delle coste libiche, attraverso supporto finanziario e tecnico agli organismi libici – e in particolare alla guardia costiera e ad alcuni dipartimenti del governo – per limitare il traffico dei migranti e migliorare i centri di detenzione; controllo delle zone di transito e dunque del deserto libico, attraverso un accordo con gli attori più rappresentativi a livello locale (tribù e milizie); chiusura dei confini nei paesi di partenza, come ad esempio il Niger, attraverso finanziamenti per la creazione e il rafforzamento dei sistemi di controllo e respingimento.
Per ognuno di questi step possiamo individuare alcuni problemi di applicabilità . Partiamo dalle coste libiche.
Posto che parlare di “organismi libici e dipartimenti del governo” fa un po’ sorridere, vista l’anarchia che c’è nel Paese, dovremmo chiederci in primo luogo: chi è la guardia costiera che ci siamo impegnati a finanziare e addestrare? La risposta non è edificante. I guarda coste non sono certo “corpi scelti” ma miliziani (o ex miliziani) spesso collusi con i trafficanti.
A volte sono proprio loro a regolare il traffico in molte zone del Paese.
Spesso, poi, non si avvicinano nemmeno alle aree dove si trovano i centri controllati dalle milizie, perchè è troppo pericoloso.
Verrebbe da chiedersi: a chi stiamo dando soldi e attrezzature (motovedette, navi, auto etc.)? Nelle mani di chi potrebbero finire? E a che scopi? Potremmo continuare ma la necessaria brevità della trattazione ci impone di passare al “secondo livello”.
Arriviamo così ai luoghi il transito dei migranti che vogliamo controllare e sigillare: il deserto del sud libico e il confine meridionale con la Libia.
Posto che il Fezzan è un’area in prevalenza desertica e grande più o meno come la Francia e il confine meridionale libico misura 5.000 km, dobbiamo chiederci: da chi sono controllate queste immense zone?
Anche qui la risposta non può certo farci tirare un sospiro di sollievo. Dopo la morte di Gheddafi l’entroterra libico è stato teatro di scontri tra varie tribù, anche quelle che hanno siglato “l’accordo romano”.
I Tebu hanno litigato con i Tuareg per lo meno fino al 2015 quando, con la mediazione del Qatar, hanno stipulato una tregua. I Sulaiman, ostili a Gheddafi fin dalla sua presa di potere e legati alla storica confraternita della Senussia, sono in lotta con i Qadhadhfa — la tribù del rais – per il controllo di porzioni nevralgiche del territorio.
Come se non bastasse nel Fezzan pare essersi stabilito il nuovo comando logistico e organizzativo di al-Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi).
Anche in questo caso verrebbe da chiedersi: a chi stiamo dando i soldi?
Passiamo, ora, al terzo “livello di contenimento”: i Paesi di partenza.
Il Niger è senza dubbio il luogo da cui parte un numero consistente di migranti, ma è anche un paese poverissimo, al penultimo posto nella classifica dello sviluppo umano. Sarà anche per questo che molti disperati partono da qui?
Ora, ammesso che i 50 milioni — che, va detto, verranno erogati su più tranche in base ai risultati delle procedure di monitoraggio — saranno davvero utilizzati per la creazione di centri di accoglienza, siamo sicuri che siano sufficienti delle “politiche tampone” per sistemare il problema?
Nella migliore delle ipotesi avremmo bloccato per un po’ i flussi ma, senza adeguate politiche di cooperazione e sviluppo, rischiamo che questa bomba a orologeria ci scoppi di nuovo in mano nel giro di pochi anni.
Detta in termini brutali, il “metodo Merkel” di “soldi in cambio di contenimento”, richiede, quantomeno, un interlocutore stabile e un piano per il dopo.
Al momento in Libia manchiamo di entrambi.
Non si può non rimarcare che, al momento, la politica italiana sui migranti nasce su basi piuttosto labili che rischiano di minarne l’applicazione.
Nessun accordo sarà davvero realizzabile senza una preliminare stabilizzazione del paese, una stabilizzazione che, al momento, appare tanto difficile quanto necessaria.
(da “Huffingtonpost“)
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