PIGNATONE, IL GIUDICE INVESTIGATORE CHE HA SCOPERCHIATO L’ITALIA
DA MAFIA CAPITALE A DE LUCA… “LE INCHIESTE SI FANNO PER CELEBRARE PROCESSI, NON PER SCUOTERE L’OPINIONE PUBBLICA”
La nebbia si è dissolta dal porto, a Roma: “Io – ama ripetere Giuseppe Pignatone – faccio processi, non scrivo articoli sui giornali”.
L’ultimo ha portato all’arresto, questa mattina, di 17 persone accusate di terrorismo internazionale.
Il penultimo, due settimane fa, ha scoperchiato il mondo degli appalti Anas governati dalla Dama Nera. Tra i due, a Roma, è piombato anche l’affaire De Luca.
Su tutto, il processo per eccellenza, anzi il Maxi Processo di Mafia Capitale.
Quello che per decenni è stato il porto delle nebbie, dal suo arrivo, pare il tribunale di Milano ai tempi di Tangentopoli.
Tonino Di Pietro, l’eroe nazionale di allora nel pool di Francesco Saverio Borrelli, riconosce alcuni tratti comuni: “Quando la procura della Repubblica ha in mano un fascicolo c’è l’obbligatorietà dell’azione penale, ma come svilupparla dipende dalla serietà e dalle capacità del pm inquirente. Lo puoi fare in modo notarile o da investigatore. Pignatone non lo fa in modo notarile, lo fa da bravissimo investigatore”. E infatti ha messo fine al porto delle nebbie, di quel tribunale che ai tempi della Roma andreottiana valeva un paio di ministeri, perchè sinonimo di controllo e garanzia di non disturbo dei manovratori.
Ora piazzale Clodio è l’epicentro di un sisma.
Davanti alla commissione d’inchiesta Antimafia disse: “Le inchieste si fanno per celebrare processi e produrre sentenze”. Non per scuotere l’opinione pubblica. Consapevole dell’effetto extragiudiziario delle proprie azioni, non è però un contropotere in toga che si pone come Borrelli col governo di allora: “Resistere, resistere, resistere, come su una irrinunciabile linea del Piave”.
Poco amato da Magistratura democratica e da parecchi pm diventati parlamentari dei Ds prima e del Pd dopo, viene raffigurato come un magistrato moderato.
Prudente, poco mediatico, poco appassionato alla ricerca di trame occulte, è stato considerato per decenni l’opposto di Caselli e di Ingroia, fautori dei grandi teoremi accusatori, come la trattativa tra stato e mafia.
Proprio il suo essere magistrato puro però gli ha consentito di arrestare Bernardo Provenzano attraverso un lavoro scrupolosissimo: “La zona grigia — dice chi lo conosce bene — è la sua ossessione, la ricerca delle talpe, la rete dei fiancheggiatori”.
E proprio il suo essere magistrato puro gli consentì di sciogliere Reggio Calabria per ‘ndrangheta o di arrivare alla condanna di Cuffaro, a cui contestò il favoreggiamento aggravato e non il concorso esterno in polemica con Ingroia e Caselli.
Prosegue Di Pietro: “Quando ti dico che puoi fare il magistrato in modo notarile o in modo investigativo, intendo questo: arrestato Mario Chiesa in flagranza, potevo mandavo a giudizio per direttissima, giusto? Giusto. Avrei fatto il mio dovere, ma lo avrei fatto in modo notarile. Ci sarebbe stato il processo, la condizionale e ora starebbe da qualche parte a fare il direttore generale di chissà che azienda. Io invece che facevo l’investigatore, non l’ho mandato per direttissima ma ho cominciato a scavare e ho fatto Mani Pulite. Ecco: Pignatone ha ricevuto notizie di reato, ma non si è accontentato di fare il notaio”.
Il suo “metodo” è rigoroso e fattuale: “Fa i processi per vincerli — dice chi lo conosce bene – non per andare sui giornali”.
La sua vita è riservata, poco mondana. A Reggio viveva in una caserma dei carabinieri. Pignolo, infaticabile studioso, la sua forza è la capacità di fare pool.
A Roma lo ha seguito la squadra di Reggio Calabria, a partire da Michele Prestipino. E c’era, tra gli altri, Stefano Russo, comandate dei Ros di Reggio e, dopo Roma, andato a Trapani, la provincia di Messina Denaro.
In un’intercettazione, Massimo Carminati, Er Cecato, così commenta l’arrivo di Pignatone al porto delle nebbie: “Questa è una persona che non gioca. Tira brutta aria. Questo butta all’aria Roma. Ha cappottato tutto in Calabria. Non si fa ingloba’ dalla politica”.
Qualche tempo dopo, Mafia Capitale, l’inchiesta che travolge Roma, in modo bypartisan . Il metodo è quello usato per le ‘ndrine.
Le microspie conducono gli inquirenti nel “Mondo di mezzo” di Carminati e Buzzi. E da lì al Palazzo.
Il reato di associazione mafiosa affibbiato all’intreccio tra politica, imprenditoria grigia e malavita è buono per animare i dibattiti tra giuristi per i prossimi decenni, ma il timbro della Cassazione è già arrivato: è Mafia nella Capitale.
Tanto che commissione prefettizia, a luglio chiese lo “scioglimento” del Comune.
Il 17 novembre la prossima udienza. Si vedrà .
Un dato è acquisito: “Un dato straordinario e incredibile — dice Nichi Vendola — è come è stata scoperchiata la procura di Roma. E come è venuto alla luce l’insediamento di criminalità , di welfare mafioso, i protagonisti della Roma criminale degli anni 70. Segno che per quarant’anni c’è stata, a dir poco, distrazione, della procura, della prefettura. E mi fermo qui”.
(da “Huffingtonpost”)
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