PNRR, GOVERNO SERVO DELLE IMPRESE DEL NORD: FINORA IL 65% E’ FINITO IN SETTENTRIONE, SOLO IL 21% AL SUD
IL 60% DELLE SPESE DEL PIANO SONO DETRAZIONI PER I PRIVATI
Una cosa va detta subito a scanso di equivoci. Il governo Meloni e il ministro Raffaele Fitto si sono ritrovati in mano una cartaccia: il Piano nazionale di ripresa e resilienza è in ritardo dal minuto uno e probabilmente non poteva essere altrimenti, dato lo stato comatoso della Pubblica amministrazione e la metrica estranea (quella Ue delle milestone e dei target qualitativo-quantitativi) in cui deve essere realizzato un Piano disperso in mille rivoli. Ora l’idea, in teoria razionale, sarebbe levare di mezzo i progetti che non hanno speranza di essere finiti in tempo e magari finanziare interventi di più rapida attuazione. Peccato che nessuno abbia idea di quali siano, che non siano state avviate discussioni preliminari con la Commissione (e dire che la scadenza è il 31 agosto) e che il governo non abbia neanche pensato di coinvolgere il Parlamento.
Senza trasparenza alcuna, insomma, quattro o cinque persone e relativi staff stanno di fatto pensando di “appaltare” la parte del Pnrr ricalibrata alle imprese coinvolte in progetti in ambito energetico (RePowerEu) e della manifattura sostenibile (Industria 5.0). Il motivo è semplice: il Pnrr a livello di spesa finora è stato soprattutto sgravi fiscali per i privati. Questi i dati ufficiali (gli ultimi) della Corte dei Conti: “A fine 2022 la spesa sostenuta ammontava, in base ai dati ReGiS, a circa 24,5 miliardi. Tenendo in considerazione anche il progresso dei primi mesi del 2023, l’avanzamento complessivo sale di ulteriori 1,2 miliardi, a 25,7 miliardi, sulla scia dell’elevata domanda registrata nelle misure dell’Ecobonus-Sismabonus (8,7 miliardi) e dei crediti d’imposta Transizione 4.0 (6,7 miliardi)”
In sostanza, al 30 aprile due sole misure di sgravio fiscale rappresentavano il 60% del Piano di ripresa: l’unica cosa che ha funzionato, “tirando” più fondi del previsto, mentre l’attuazione di altri progetto dal rilevante peso economico (politiche attive del lavoro, alta velocità, Italia a 1 giga e Italia 5 G, biometano, etc) veniva spostata agli anni prossimi.
Se l’importante è spendere, la soluzione è semplice. “Il principale capitolo in cui saranno indirizzate le prime risorse è proprio questo piano Transizione 5.0”, diceva il ministro delle Imprese (et pour cause) Adolfo Urso già a marzo: parliamo di “risorse significative da capitoli di spesa di progetti considerati non esattamente in linea con gli obiettivi del Pnrr su progetti realizzabili nei tempi dovuti al 2026”.
E cos’è transizione, o meglio Industria 5.0? Un piano Ue che, detto in brussellese, punta su “ricerca e innovazione come fattori abilitanti per la transizione verso un’industria europea sostenibile, incentrata sull’uomo e resiliente”. In pratica sono sgravi per investimenti privati indirizzati in particolare a tre settori: Mobilità, trasporti, automotive; Aerospazio e difesa; Elettronica. Sia detto en passant, è anche la richiesta di Confindustria: “La nostra proposta è di destinare buona parte delle risorse che rimarrebbero ‘scoperte’ verso incentivi all’investimento per le imprese”, ha messo a verbale Carlo Bonomi un mese fa.
Ammesso e non concesso che la Commissione dia il via libera, è una buona idea? Mica tanto: il Pnrr, riforme a parte, doveva servire a rilanciare in Italia gli investimenti pubblici (materiali e immateriali) con l’obiettivo prioritario della “riduzione dei divari territoriali”. È il motivo per cui il 40% dei fondi dovrebbe finire al Sud. Si usa il condizionale perché degli sgravi fiscali ai privati il Mezzogiorno raccoglie le briciole: estenderne la portata nel Pnrr significa dirottare la spesa verso Nord.
Per convincersene, basta tornare a un apposito box inserito dalla Corte dei Conti nel Rapporto 2023 sul coordinamento della finanza pubblica. Lì si scopre che i fondi di Transizione 4.0 (6,7 miliardi) finora sono andati soprattutto alle imprese del Settentrione (65% circa), mentre il Sud è fermo poco sopra il 20%: si tratta di soldi dedicati agli investimenti in beni strumentali materiali 4.0 (5,4 miliardi), formazione 4.0 (617 milioni), ricerca, sviluppo e innovazione (560 milioni) e beni strumentali immateriali sia innovativi (software) che tradizionali (90 milioni). Il Pnrr dedica alla “Transizione 4.0” quasi 13 miliardi e mezzo (circa tre dei quali per sgravi già esistenti), ma l’incentivo sta funzionando male sia a livello territoriale che di bersagli (era pensato per la manifattura, che però pesa solo per il 55% dei crediti d’imposta maturati). Finanziare ora l’erede “Industria 5.0” con nuove “significative risorse” può certo correggere il difetto di mira, cioè privilegiare l’industria in senso stretto, ma aggravare ancor più la disfunzionalità territoriale.
Il discorso non cambia di molto guardando all’Ecobonus (che poi è il Superbonus) e al Sismabonus, a cui il Pnrr dedica quasi 14 miliardi. Non ci sono dati specifici sugli sgravi interni del Pnrr, ma il rendiconto totale del Superbonus al 30 aprile (dati Enea) assegna al Mezzogiorno il 30% circa dei 74,5 miliardi di investimenti ammessi a detrazione: una percentuale che peggiora se si isolano gli ultimi mesi, cioè da quando è bloccata la cessione del credito, decisione che ha reso lo sgravio disponibile di fatto solo per chi ha capacità fiscale (redditi alti o più che alti). Riassumendo, aumentare gli sgravi per il settore privato nel Pnrr significa non solo rinunciare a finanziare beni pubblici, ma anche usare soldi che dovevano attenuare i divari territoriali per ampliarli.
Il Mezzogiorno, peraltro, non rischia di vedersi danneggiare dal Piano di ripresa solo per questo, come correttamente rileva la Relazione sull’attuazione presentata dal governo la scorsa settimana: è vero che al Sud sono destinati il 40% dei fondi di Pnrr e Fondo complementare (87 miliardi fino al 30 giugno 2026 all’ingrosso), ma il rischio è mancare “l’effettiva attuazione degli interventi” in modo che si finisca per “non garantire la riduzione dei divari territoriali”.
Le defaillance amministrative centrali e locali in questo senso sono più di un sospetto: com’è noto dei Fondi di coesione Ue del ciclo 2014-2020 destinati al Mezzogiorno si era riusciti a spendere a fine 2022, cioè in otto anni, solo il 34%, pari a 43 miliardi totali. Ora, oltre ad avviare i progetti del ciclo 2021-2027, si dovrebbe spendere il doppio in tre anni. Il rischio della fregatura è altissimo.
(da Il Fatto Quotidiano)
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