“SE SI ANDRÀ AL REFERENDUM LA MELONI FARÀ LA FINE DI BERLUSCONI E RENZI”: SABINO CASSESE CONSIGLIA ALLA “SORA GIORGIA” DI TROVARE UNA MAGGIORANZA IN PARLAMENTO
L’EX PRESIDENTE DELLA CONSULTA BOCCIA LA RIFORMA: “RISCHIA DI SBANDARE” – “NON PENSO SIA IL CASO DI LIMITARE COSÌ FORTEMENTE IL POTERE DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA”
Il professor Sabino Cassese non demonizza il progetto di premierato messo in campo dal governo di Giorgia Meloni, ma avverte come «perseguire un eccesso di obiettivi» possa risultare controproducente.
Quindi, questa riforma non garantirà maggiore stabilità dei governi?
«La precarietà dei governi nella storia repubblicana è, senza dubbio, un problema da affrontare. Ma si vuole rimediare per legge a una crisi che riguarda la politica e i partiti: la politica, perché è più volatile dello stesso elettorato, e i partiti perché, base della democrazia, non sono essi stessi democratici. E poi non serve dare più potere al presidente del Consiglio, ne ha già abbastanza
Meloni non sarebbe d’accordo…
«Basta considerare il numero dei decreti legge approvati: più di uno a settimana, in media. E l’aumento della squadra di Palazzo Chigi: più del 20% di nuove strutture e di dirigenti solo in un anno. Ma penso che sarebbe coerente con la riforma proposta inserire un potere di nomina e revoca dei ministri e di proposta di scioglimento delle Camere al presidente della Repubblica, in modo che il presidente del Consiglio diventi titolare di un organo sovraordinato ai ministri».
Concorda sul fatto che il premier eletto, con questo disegno, avrà meno potere di un eventuale premier sostituto non eletto?
«Sì, il secondo presidente del Consiglio appare più solido del primo, che può essere colpito dalla sua stessa maggioranza, senza ricorso a un voto anticipato. Di fatto, cercando di evitare il cosiddetto ribaltone, si spinge il leader del secondo partito a far cadere il premier eletto. In altre parole, si crea all’interno della compagine che si vuole consolidare una concorrenza, che pone in dubbio la stabilità dello stesso governo».
Cosa suggerisce, allora?
«Bisogna evitare di caricare la riforma di finalità, che rischiano di farla sbandare: dalla nuova legge elettorale al premio di maggioranza senza soglia minima fino, appunto, alla norma cosiddetta anti-ribaltone. Sarebbe meglio semplificare i mezzi per rimediare agli attuali malanni del sistema politico: ad esempio, prevedere che, se si vuole cambiare indirizzo politico, si va a nuove elezioni».
Tra le criticità segnalate c’è anche l’assenza di un ballottaggio tra i due candidati più votati, come avviene negli altri Paesi europei che prevedono l’elezione diretta. Che ne pensa?
«Il ballottaggio sarebbe ragionevole, perché consente al popolo di esprimersi due volte. Ma non piace a chi è in maggioranza, perché, in un Paese dove le minoranze sono solitamente divise, può spingere alla loro unione e quindi dare maggiore forza alle minoranze, facendole diventare maggioranza».
Poi c’è il capitolo che riguarda il Quirinale: si crea una frattura tra premier eletto dai cittadini e presidente della Repubblica eletto dal Parlamento?
«È chiaro che il primo avrebbe un’investitura diretta e il secondo solo indiretta. E non penso sia il caso di limitare così fortemente il potere del presidente della Repubblica di gestire le crisi di governo».
Il premier, in realtà, avrebbe una doppia investitura, dal popolo e dal Parlamento…
«E questo potrebbe creare un conflitto, mentre, a mio avviso, si potrebbe superare con la semplice indicazione del candidato presidente del Consiglio dei ministri nella scheda elettorale, come si è già fatto anche con l’indicazione nel simbolo del partito del nome del candidato».
Della cancellazione della figura dei senatori a vita di nomina presidenziale cosa pensa?
«Non credo sia necessario, è un altro esempio di quell’eccesso di finalità di cui parlavo, che finisce per indebolire la riforma costituzionale. Anche perché può diventare legge solo se riesce a raccogliere la maggioranza parlamentare dei due terzi: se si va al referendum, a mio avviso, finirà come quelli Berlusconi (2006) e Renzi (2016)».
(da La Stampa)
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