THE MEN IN BLACK: IL TRIO SOTTO SCORTA CHE SPAVENTA MEZZA UE
SONO DUE TEDESCHI E UN DANESE… AD ATENE NON LI AMANO… IL GOVERNO GRECO: “È MEGLIO SE NEGOZIAMO A PARIGI”
Il soprannome “Men in black” gliel’ha appioppato Cristòbal Montoro, ministro delle Finanze di Mariano Rajoy in Spagna.
I tre, d’altronde, prediligono la grisaglia scura d’ordinanza tra i travet di alto livello che guidano le grandi istituzioni internazionali.
Ci si riferisce ai signori Troika, i tre dirigenti che formano il vertice della struttura messa insieme da Fondo monetario internazionale, Banca centrale europea e Commissione Ue per concedere prestiti ai paesi in difficoltà e ridisegnarne la politica economica in senso fortemente liberista.
Certo, formalmente ne fanno parte anche i loro capi — Christine Lagarde, Mario Draghi, Josè Barroso e il responsabile degli Affari economici Jyrki Kaitanen — ma la Troika vera sono loro
Sono loro che sbarcano negli aeroporti coi loro vestiti neri, loro che parlano coi governi, loro che contrattano le condizioni per concedere i prestiti: loro sono Poul Thomsen, Klaus Masuch e Matthias Mors, un danese e due tedeschi, anche se non è l’inizio di una barzelletta, ma l’ennesima conferma di un’Unione a trazione “nordica”. Il danese è Thomsen, al Fmi dal 1982, specializzato nell’area ex sovietica, è stato il principale artefice delle complicate trattative con la Grecia per la prima tranche di aiuti: la stampa di Atene lo chiamava “Mr blue eyes”.
Masuch, invece, è l’incaricato della Bce: pallido, occhiali leggeri, lo stereotipo del funzionario.
Mors, invece, è l’inviato della Commissione, che poi è anche il creditore più importante tra i tre: esile, basso di statura, affilato, viene dalla direzione Affari economici e finanziari.
I greci, unici in Europa assieme a portoghesi e ciprioti, hanno imparato a conoscerli anche fisicamente in questi anni e, per così dire, non li amano.
I tre sono costretti a muoversi costantemente sotto scorta quando si recano nel paese per le loro periodiche ispezioni e la cosa — ovviamente e ironicamente — ha un costo per la casse pubbliche: è tanto vero che nelle scorse settimane il governo greco ha chiesto ai tre di non farsi più vedere ad Atene. “Veniamo noi, diteci dove”.
E così il 3 e 4 settembre prossimo l’incontro tra i rappresentanti dei creditori internazionali della Grecia e il governo di Antonis Samaras avverrà a Parigi: aria più tranquilla, ristoranti migliori e poi in Francia è pieno di Men in black, la gente non ci fa più caso.
Non è chiaro, a questo punto, cosa sarà della task force che la Troika ha installato ad Atene per controllare passo passo l’erogazione dei prestiti e l’uso dei fondi comunitari.
Si tratta di una quindicina di persone coordinate da un altro tedesco: Horst Reichenbach, alto dirigente della Commissione europea dopo essere stato per anni alla Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo.
Reichenbach però è di stanza a Bruxelles, mentre la capo della task force ad Atene è una funzionaria europea di nazionalità greca: Georgette Lalis, già direttrice del catasto greco che all’albergo d’ordinanza per le truppe brussellesi ha preferito un appartamento in un quartiere residenziale.
I forzati dell’Hilton, in realtà , tecnicamente non fanno parte della task force della Lalis: sono circa trenta persone che lavorano alla delegazione dell’Unione europea in Grecia e fanno da segreteria in loco della Troika tenendo d’occhio l’adesione di governo e Parlamento greci ai diktat contenuti nei Memorandum d’intesa: la loro vita si divide tra l’albergo, presidiato dalla polizia, e le stanze dei ministeri dove negoziano voce per voce i provvedimenti elencati nei Memorandum firmati dal governo in cambio dei circa 300 miliardi di prestiti concessi dalla Troika in questi ultimi anni.
Il blocco monolitico di interessi che appare all’esterno non è però così compatto.
Ha raccontato l’ex ministro dell’Economia greco, George Papaconstatinou: “Quando arrivò la Troika mi trovai davanti tre prospettive diverse. Ai greci piace odiare il Fondo monetario, ma tra i tre è il soggetto più razionale e realistico”.
La Bce, invece, “è l’ortodossia, è il Papa: qualunque cosa succeda, ogni paese dell’Eurozona deve rispettare gli impegni presi”.
A volte, ha detto il politico socialista, i negoziati dovevano fermarsi perchè i tre “dovevano contrattare tra loro”.
Era il debutto: portoghesi e irlandesi assicurano che da quell’epoca il rapporto si è cementato.
Quello con gli europei, invece, stenta ancora a decollare.
Marco Palombi
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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