UN COLPO DI MORTAIO DA TRIPOLI COME AVVERTIMENTO ALL’ITALIA
L’ESPLOSIONE VICINO ALL’AMBASCIATA ITALIANA… ALTRO CHE PORTI SICURI, E’ A RISCHIO PERSINO LA NOSTRA SEDE DIPLOMATICA GRAZIE ALLA SCONSIDERATA POLITICA DEL NOSTRO GOVERNO
Non ha colpito l’obiettivo. Ma quell’esplosione a poche centinaia di metri dalla nostra Ambasciata ha il sapore, acre, di un avvertimento: per l’Italia in Libia non sono solo i porti a non essere sicuri, ma ora anche le sedi diplomatiche.
Perchè non è più sicura Tripoli, e perchè l'”uomo di Roma”, il premier del governo di Accordo Nazionale, Fayez al-Serraj non riesce più a controllare neanche i quartieri dove è insediato.
Fonti diplomatiche hanno spiegato che l’ambasciata non è stata coinvolta nell’attacco e che il personale diplomatico italiano è illeso.
“Un colpo di mortaio si è abbattuto sull’hotel Al-Waddan facendo tre feriti fra i civili dopo la violazione della tregua, ha annunciato il portavoce del Servizio di soccorso e urgenze, Osama Ali”, riferisce il sito Alwasat.
Il portavoce ha aggiunto che “e un bombardamento di razzi indiscriminato e sporadico contro diverse aree prosegue da sabato mattina”, scrive ancora il sito aggiungendo che “un obice si è abbattuto su un’abitazione nella zona di Ashour senza causare perdite di vite umane”.
A Tripoli sono iniziati la scorsa settimana nuovi scontri — 39 morti e 119 feriti- che continuano nonostante l’accordo per il cessate —il- fuoco raggiunto martedì tra governo di accordo nazionale e milizie rivali.
Sabato mattina la Commissione per la riconciliazione, composta da rappresentanti di Tarhuna, Misurata, Zawiya, Tripoli e Zintan, aveva annunciato che era stato raggiunto un accordo per una nuova tregua, la terza in quattro giorni, riporta il sito d’informazione Libya Observer.
Era dunque prevista l’immediata cessazione delle ostilità e l’ingresso di una forza neutrale a Tripoli composta da “forze delle zone militari occidentali e centrali”. L’intesa prevede, inoltre, che si tenga una nuova riunione venerdì prossimo per “allentare le tensioni tra i gruppi in conflitto e cementare il processo di riconciliazione”, come evidenziato in un comunicato della Commissione.
La Settima brigata di Tarhuna, milizia dipendente dal ministero della Difesa del governo di accordo nazionale che nei giorni scorsi ha dato il via agli scontri, ha annunciato che rispetterà l’accordo dopo una “mediazione delle tribù”.
La Settima brigata, che inizialmente aveva respinto il cessate il fuoco, ha attaccato gruppi fedeli al premier Fayez al-Serraj accusandoli di essere corrotti.
Ma il caos armato non si ferma. “Le parti belligeranti hanno concordato un cessate il fuoco”, scrive sempre il sito Alwasat riferendosi al terzo cessate il fuoco annunciato ieri negli scontri in corso da lunedì fra la milizia ribelle (detta anche “Kany»” e le formazioni al momento fedeli al governo del premier Fayez al Serraj.
“Tuttavia – aggiunge Alwasat – i bombardamenti sporadici di razzi non hanno mai cessato visto che sono ripresi stamattina dopo che già di 15 obici erano caduti ieri sul quartiere Suk El Giuma (nella parte est della capitale).
Un “razzo” ha colpito anche la sede del Consiglio dei ministri del Governo di accordo nazionale nel pieno centro di Tripoli senza causare vittime, riferisce Alwasat citando il portavoce del “Servizio di soccorso e urgenze”. I combattimenti più recenti hanno aggravato il dramma dei migranti chiusi e abbandonati nei centri detentivi del governo vicini agli scontri.
L’Unhcr, l’agenzia dell’Onu per i rifugiati, ha fatto sapere a inizio settimana di aver contribuito all’evacuazione di centinaia di persone: 300 di loro, provenienti per la maggior parte da Eritrea, Etiopia e Somalia, sono state trasferite in un centro «relativamente più sicuro», ha dichiarato l’Unhcr, un luogo dove le organizzazioni internazionali possono prestare aiuto.
Nei giorni scorsi l’Organizzazione internazionale dell’Onu per i migranti (Oim) aveva denunciato che i 150 migranti africani respinti dal governo italiano per dieci giorni nel confronto con la Ue erano rimasti anche fino a due anni nelle mani dei trafficanti. Molti di loro erano stati picchiati, torturati e violentati. I loro racconti erano stati raccolti dal personale dell’Oim e dai medici italiani.
I governi di Italia, Francia, Stati Uniti e Gran Bretagna sempre sabato hanno diffuso un comunicato congiunto in cui “condannano fermamente la continua escalation di violenza a Tripoli e nei suoi dintorni, che ha causato molte vittime e che continua a mettere in pericolo la vita di civili innocenti”.
Ma i comunicati congiunti non devono trarre in inganno.
In Libia si sta giocando una partita — che tiene assieme geopolitica, affari, petrolio, migranti — che vede Roma e Parigi su fronti contrapposti.
Nei giorni scorsi Emmanuel Macron ha ribadito la sua determinazione a portare avanti l’accordo concluso a maggio a Parigi fra le diverse parti in causa in Libia che prevede in particolare l’organizzazione di elezioni a dicembre. “Credo molto profondamente al ripristino della sovranità libica – ha detto il capo dell’Eliseo davanti agli ambasciatori di Francia – in questo Paese diventato teatro di tutti gli interessi esterni, il nostro ruolo è far avanzare l’accordo di Parigi”.
Si dipana così la “guerra delle cabine” di regia nella crisi libica. Parigi versus Roma. Un passaggio cruciale di questa “guerra delle cabine” si avrà entro l’autunno, quando dovrà svolgersi la Conferenza internazionale promossa da Italia e Usa.
Alla Farnesina non hanno dubbi: la Francia muoverà le sue pedine, anzitutto interne alla Libia, per depotenziare al massimo quell’evento. Parigi mantiene il punto sulle elezioni in Libia, che vorrebbe vedere realizzate entro dicembre.
Una linea sostenuta anche dall’Egitto del presidente al-Sisi e, anche se in modo più sfumato, dalla Russia e dagli Emirati Arabi Uniti: vale a dire i Paesi che hanno puntato sulla vittoria dell’uomo forte della Cirenaiaca: il generale Khalifa Haftar.
Lo scorso 23 luglio, il ministro degli Esteri Jean-Yves Le Drian ha fatto il tour dei principali responsabili del Paese nordafricano, per fare pressione proprio sul voto da organizzare e che buona parte della Comunità internazionale, Italia compresa, ritiene prematuro nei tempi prospettati da Parigi.
“A Parigi, i responsabili libici si sono impegnati a tenere elezioni presidenziali e legislative sulla base di un preciso calendario, di qui alla fine dell’anno”, ha insistito il capo della diplomazia francese a conclusione di un incontro con al-Serraj, a Tripoli. “E quello a cui aspirano i cittadini libici.
E’ il cammino da seguire e sono venuto a ricordare tali impegni e il calendario a coloro che li hanno presi e a condividere questo passo con quanti non erano a Parigi il 29 maggio”. Il titolare del Quai d’Orsay si è recato nelle roccaforti di tutti i protagonisti dell’accordo di Parigi.
Oltre a Serraj e al presidente del Consiglio di Stato (la camera alta) Khlaled al-Mechri, entrambi a Tripoli, l’emissario francese ha incontrato Haftar nel suo quartier generale di Bengasi e il presidente della Camera dei rappresentanti, Aguila Salah, a Tobruk, 1.200 chilometri ad Est dalla capitale.
I responsabili consultati da Le Drian si sono impegnati a organizzare le elezioni il 10 dicembre e a procedere a una riunificazione del Paese, a cominciare dalla Banca centrale, cruciale per il controllo delle entrate dall’estrazione del petrolio.
La Francia “appoggia gli sforzi di tutti” coloro che vogliono arrivare ad elezioni nei tempi concordati a Parigi, ha martellato Le Drian, alla sua terza trasferta in Libia. Il ministro degli Esteri ha annunciato un contributo francese di un milione di dollari (850mila euro) per l’organizzazione degli scrutini. Le Drian ha anche fatto tappa a Misurata, città costiera 200 chilometri a Est di Tripoli, controllata da potenti milizie e non associata al processo di Parigi. Qui ha incontrato il sindaco Mustafa Kerouad, degli eletti locali e dei deputati.
Per sabotare la cabina di regia italiana, sottolineano a Roma, Parigi “userà ” i suoi più fedeli alleati libici, a cominciare dall’uomo forte della Cirenaica, il generale Khalifa Haftar.
Un avvisaglia in proposito si è avuto lo scorso 8 agosto, quando il parlamento di Tobruk, saldamente in mano ai fedelissimi di Haftar, ha dichiarato l’ambasciatore italiano Giuseppe Perrone persona non grata: è quanto si legge in documento del Comitato affari esteri del parlamento di Tobruk, pubblicato i dal giornalista libico Faraj Aljarih.
Nel documento si condannano “nei termini più forti” le dichiarazioni rilasciate dall’ambasciatore “a un’emittente satellitare” sulle elezioni in Libia, “in cui ha chiesto con insistenza di rinviare le elezioni”, considerate una “flagrante interferenza negli affari interni della Libia, una violazione pericolosa alla sovranità nazionale e un’aggressione alla scelta del popolo libico”.
“Un’offesa che richiede le scuse italiane”, si legge nel documento. Il portavoce di Haftar, Ahmed Mismari, ha addirittura chiesto aiuto alla Russia perchè intervenga in Libia per rimuovere “dall’arena libica Turchia, Qatar, Sudan e in particolare l’Italia”, dal momento che se “la Francia vuole tenere le elezioni (entro l’anno), l’Italia si è detta contraria… noi concordiamo con la Francia: vogliamo tenere le elezioni quest’anno”.
E chi è contrario, diventa un bersaglio.
(da “Huffingtonpost”)
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