Settembre 7th, 2023 Riccardo Fucile
SALA CONTRO IL GOVERNO: “LA SANTANCHE’ NON HA FATTO NULLA”
Archiviate le vacanze estive, migliaia di studenti si preparano al ritorno in università. E con la riapertura degli atenei torna anche la questione del caro affitti. La prima strigliata al governo arriva dal sindaco di Milano Giuseppe Sala: «Prendo atto che la ministra Santanché si è dimostrata all’inizio disponibile, ma di fatto non è successo niente», commenta il primo cittadino del capoluogo lombardo. Il riferimento è alle nuove regole per mettere un freno agli affitti brevi, che secondo gli esperti contribuiscono a ridurre l’offerta di appartamenti nelle grandi città e a far salire i prezzi delle case. Da fine giugno ad oggi, le case in affitto a Milano su Airbnb sono addirittura aumentate, passando da 20mila a 23mila. Da qui l’appello di Sala affinché le nuove regole su cui è al lavoro il governo seguano l’esempio di altri Paesi. «Milano vorrebbe fare una cosa simile a quella di New York – spiega il sindaco -. Non si possono avere più di 20mila appartamenti per gli affitti brevi. Non ce l’ho con chi ha una casa e la affitta, ma con chi ha fatto razzia di appartamenti in questi anni per poi metterli tutti sul mercato».
Crescono le case per turisti
Mentre la politica – sia a livello locale che nazionale – si decide sul da farsi, gli appartamenti destinati agli affitti brevi continuano a salire. Secondo quanto scrive oggi Repubblica, citando le stime del comune, a Milano gli appartamenti messi in affitto su piattaforme come AirBnb sono aumentati del 15% nel giro di pochi mesi. «Sono numeri coerenti con il fatto che i turisti a Milano sono il 30% in più rispetto al 2019», precisa l’assessore alla Casa Pierfrancesco Maran. Secondo Palazzo Marino, molti di questi appartamenti potrebbero essere messi a disposizione di studenti e lavoratori che necessitano di una casa per periodi di tempo più lunghi. Per farlo, però, «serve una normativa nazionale», insiste Maran. Ad oggi l’unica città che ha avuto il via libera dal governo per una maggiore autonomia è Venezia.
I prezzi alle stelle§
Nonostante mesi di proteste da parte degli studenti universitari, non solo la questione del caro affitti rimane irrisolta ma i prezzi continuano a salire. Sempre a Milano, per esempio, sono circa 3mila le stanze disponibili sui principali portali online. Di queste, solo 600 hanno un canone mensile inferiore a 700 euro. Ed è per questo che molti diffidano dei grandi portali e si iscrivono a gruppi Facebook come «Milano appartamenti e stanze in affitto», che conta oltre 200mila iscritti. Anche qui però i prezzi sono alle stelle: per una singola con letto matrimoniale a Porta Venezia servono 770 euro, in viale Ungheria 800, mentre in Città Studi – una delle zona della città più frequentate dagli studenti – si sale anche a 850 euro.
(da Open)
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Settembre 7th, 2023 Riccardo Fucile
YOLANDA DIAZ: “PER LA DIFESA DEI DIRITTI CONTATE SU DI NOI”
Yolanda Diaz, già ministro del lavoro del governo di Pedro
Sanchez e esponente del movimento Sumar, parla oggi in un’intervista a Repubblica del salario minimo. Diaz è stata ospite alla Festa dell’Unità di Ravenna e ha incontrato Elly Schlein.
A Francesco Bei ha spiegato che in Spagna «In «i cittadini hanno votato contro il cambiamento climatico, per i diritti delle donne. È una Spagna diversa, abbiamo la possibilità di parlare diverse lingue al congresso. Dopo la conversazione con Puigdemont dico che avremo un governo progressista e vedremo la Catalogna non come un problema ma come un’opportunità».
Mentre Giorgia Meloni «rappresenta il negazionismo climatico, democratico e egualitario. Il suo mandato sotterra i diritti e noi dobbiamo combatterla in tutta Italia e tutti insieme in Europa. Dalla Spagna siamo solidali e per la difesa dei diritti contate su di noi».
La battaglia per la dignità
Diaz dice che «aver fissato il salario minimo a 1.080 euro in Spagna ha ridotto la diseguaglianza, quei soldi hanno consentito in tempo di crisi di resistere. Nello stesso periodo siamo riusciti a ridurre la differenza retributiva tra uomini e donne di 4 punti. Quella sul salario minimo è una battaglia per la dignità». E aggiunge che l’estrema destra non è invincibile: «Perché abbiamo la possibilità di fare proposte che migliorano la vita delle persone, dobbiamo trasformare la nostra attività in una grande onda progressista, che dia speranza alle persone, ai professionisti e ai lavoratori, con alcune parole chiave: sanità e scuola pubbliche. Servono proposte, speranza e capacità di camminare uniti».
Il contrasto al precariato
Infine, Diaz spiega la sua ricetta per il contrasto al precariato: «Bisogna far capire a tutti che la destra e l’estrema destra, che hanno le stesse politiche, sono contro i sindacati perché sono contro la democrazia. Io voglio difendere qui i sindacati, perché la battaglia fondamentale è contro la diseguaglianza. Non sono i salari a causare l’inflazione, è stato dimostrato, le persone hanno bisogno di salari più alti perché l’inflazione ci sta impoverendo tutti. Perché non parliamo mai dei salari indecenti di persone che occupano posizioni importanti all’interno dei consigli di amministrazione? Ci sono persone che guadagnano 42 mila euro al giorno, perché non se ne parla mai? Perché sono le persone che sostengono Giorgia Meloni. La battaglia di Elly Schlein e Maurizio Landini è fondamentale. Si arriva a un accordo solo tramite un tavolo di dialogo sociale».
(da agenzie)
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Settembre 7th, 2023 Riccardo Fucile
L’INTERVENTO DELL’EX PREMIER SULL ECONOMIST: “SERVONO TASSE E DEBITO COMUNE, CON CESSIONE DI SOVRANITA’: E’ IN GIOCO LA PROSPERITA’ EUROPEA”
L’Europa è fuori strada e nemmeno la riforma proposta dalla Commissione Europea per un nuovo Patto di Stabilità, ammesso che venga approvata dagli Stati membri, basterà per rimetterla in carreggiata. Con un articolo pubblicato dall’Economist, l’ex premier Mario Draghi interviene nel dibattito europeo avvertendo sui rischi di un ritorno alle vecchie regole di bilancio ma, ugualmente, non sposa nemmeno le nuove linee proposte da Bruxelles e già diventate base di negoziati anche piuttosto accesi tra gli Stati membri.
“Le regole fiscali dovrebbero essere rigide, per garantire che le finanze dei governi siano credibili nel medio termine, e flessibili, per consentire ai governi di reagire a shock imprevisti. L’attuale insieme di regole non è né l’uno né l’altro”, scrive l’ex presidente della Bce. Secondo il quale, tuttavia, la proposta della Commissione sarebbe certamente “molto utile” ma anche se pienamente attuata “non risolverebbe completamente il compromesso tra regole rigide e flessibili”.
Non è un caso se per descrivere lo stallo in cui si ritrova l’Unione Europea nel pieno di una fase segnata da profondi stravolgimenti internazionali Draghi parta dall’annosa e irrisolta questione delle regole di bilancio.
Il modello che ha consentito la prosperità in Europa è ormai finito. Basato fino ad oggi sulla dipendenza dagli Stati Uniti per la sicurezza, dalla Cina per le esportazioni e dalla Russia per l’energia, si è rivelato ormai “insufficiente, incerto o inaccettabile”, scrive l’ex premier.
Tuttavia i recenti eventi geopolitici impongono all’Europa di affrontare “una serie di sfide sovranazionali che richiederanno ingenti investimenti in tempi brevi, tra cui la difesa, la transizione verde e la digitalizzazione”.
L’ex premier nel suo intervento fa un parallelo tra la situazione europea e quella americana sotto l’amministrazione Biden, che giudica più adeguata ai tempi che corrono. Perché la Casa Bianca riesce ad allineare “la spesa federale, le modifiche normative e gli incentivi fiscali nel perseguimento degli obiettivi nazionali”.
Questo è precluso all’Unione Europea intesa come soggetto politico: “Allo stato attuale, tuttavia, l’Europa non ha né una strategia federale per finanziare i suoi obiettivi, né le politiche nazionali possono assumerne il ruolo, poiché le norme europee in materia fiscale e sugli aiuti di Stato limitano la capacità dei Paesi di agire in modo indipendente”.
In altre parole oggi l’Ue non ha la forza né gli strumenti per sostenere quel lungo processo di trasformazione industriale verso la sostenibilità ambientale e il taglio delle emissioni, la digitalizzazione e il rafforzamento della Difesa comune. Né con il nuovo Patto di Stabilità l’Ue riuscirà a sostenere il peso di queste sfide.
Come peraltro ben spiegato da uno studio di alcuni economisti, chiedere agli Stati membri di conciliare ambiziosi obiettivi green e stringenti vincoli fiscali è impossibile. E con il nuovo Patto proposto da Bruxelles solo quattro Paesi avrebbero lo spazio di bilancio per contrastare il riscaldamento climatico e raggiungere il target che l’Ue stessa si è data di 1,5°.
Le opzioni per l’Unione delineate da Draghi sono perciò due, una votata al fallimento, l’altra auspicabile ma di complessa attuazione.
La prima è l’allentamento delle norme fiscali in tema di aiuti di Stato, lasciando così tutto l’onere ai singoli membri di finanziare sul piano domestico la propria transizione e la propria Difesa. Sarebbe deleterio, oltre che inutile perché “lo spazio di bilancio in Ue non è uniformemente distribuito”, e quindi alcuni riuscirebbero a raggiungere gli obiettivi, altri no. Il risultato sarebbe che le emissioni dell’Unione non raggiungerebbero complessivamente il target di riduzione, e la Difesa resterebbe comunque sguarnita. Insomma, “o tutti raggiungono i loro obiettivi o non li raggiunge nessuno”.
La seconda opzione è quindi quella di riformare il quadro fiscale europeo.
E qui torna il parallelo con gli Stati Uniti: le sfide che si impongono possono essere affrontate “solo con un trasferimento di maggiori poteri di spesa al centro, che a sua volta rende possibili regole più automatiche per gli Stati membri. Questa è in generale la situazione in America, dove a un governo federale potenziato si affianca a un sistema fiscale largamente inflessibile per gli Stati”.
Detta diversamente, la proposta di Draghi è di ripetere e normare attraverso l’inserimento nei trattati Ue il processo di condivisione messo in campo durante la pandemia con il Recovery Fund.
Un maggiore, stabile e permanente trasferimento all’Ue delle risorse necessarie ad affrontare le crisi e le sfide economiche, ambientali e difensive consentirebbe alla Commissione di poter applicare con rigidità le regole di bilancio ai Paesi membri, che sono stati tuttavia esentati dal finanziamento di enormi capitoli di spesa (basti pensare al Superbonus italiano nato per ridurre l’impatto ambientale degli edifici, o ai miliardi di sussidi erogati dalla Germania alle sue imprese per resistere al caro prezzi dell’energia da combustibili fossili).
È quello che accade negli Stati Uniti dove “un governo federale dotato di poteri si affianca a regole fiscali largamente inflessibili per gli Stati, ai quali nella maggior parte dei casi è vietato gestire deficit. Le regole del pareggio di bilancio sono credibili – con la sanzione ultima del default – proprio perché il livello federale si prende cura della maggior parte della spesa discrezionale”.
Il momento, a detta di Draghi, è propizio per dare una svolta all’assetto europeo. Ci sono enormi sfide economiche e ambientali da affrontare, c’è la corsa globale ai chip e alle materie prime necessarie alla transizione energetica, è in gioco l’allargamento dei confini dell’Ue ai Balcani e, si spera, all’Ucraina, e nel 2024 ci sono le elezioni europee in cui l’Ue si gioca anche in parte la sua credibilità verso gli elettori. Per questo un processo decisionale “più centralizzato” a livello Ue richiederà il consenso dei cittadini sotto forma di “revisioni dei trattati Ue”.
È chiaro quindi che percorso verso l’unione fiscale nell’Eurozona “richiederà nuove regole e una maggiore condivisione della sovranità”. Non è la prima volta che l’ex premier rilancia la sua proposta di cessione e condivisione della sovranità nazionale ma le difficoltà interne agli Stati e l’ascesa dei partiti sovranisti nelle recenti tornate elettorali rendono sempre più complicata da realizzare.
Tuttavia “senza azioni, c’è il serio rischio che l’Europa non raggiunga i suoi obiettivi climatici, non riesca a fornire la sicurezza richiesta dai suoi cittadini e perda la sua base industriale a favore di regioni che si impongono meno vincoli. Per questo motivo, ritornare passivamente alle vecchie regole fiscali – sospese durante la pandemia – sarebbe il peggior risultato possibile”.
(da Huffingtonpost)
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Settembre 7th, 2023 Riccardo Fucile
880.000 MINORI ASPETTANO LA CITTADINANZA
La ripresa dell’anno scolastico, il primo dalla fine ufficiale
dell’emergenza sanitaria da Covid-19 annunciata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, non ha cancellato l’impoverimento educativo generato dalla pandemia sull’apprendimento e sul benessere psicologico delle studentesse e degli studenti, soprattutto tra i minori in svantaggio socioeconomico. Se la pandemia ha rimesso al centro l’importanza degli investimenti sull’istruzione, dopo l’emergenza, la percentuale di Pil investita dal nostro Paese in questo settore è tornata a scendere al 4,1%, contro una media europea del 4,8%, a cui si aggiunge la carenza di servizi come asili nido, mense e tempo pieno, che restano ancora appannaggio di pochi. La copertura nelle strutture educative 0-2 anni pubbliche e private nell’anno educativo 2021/2022 è pari a 28 posti disponibili per 100 bambini residenti, ancora ben al di sotto dell’obiettivo europeo del 33% entro il 2010 e molto lontano dal nuovo obiettivo stabilito a livello europeo del 45% entro il 2030. Secondo gli ultimi dati disponibili (a.s. 2021/2022) ancora solo il 38,06% delle classi della scuola primaria è a tempo pieno (sebbene in crescita rispetto a 5 anni prima, 32,4% nell’a.s. 2017/2018) e poco più della metà degli alunni della primaria frequenta la mensa scolastica (54,9%, contro 51% dell’a.s. 2017/2018).
Non sorprende che la dispersione scolastica in Italia sia superiore rispetto alla media europea (rispettivamente 11,5% e 9,6% nel 2022) e che l’8,7% di studenti si trovi in condizione di dispersione implicita (secondo i dati INVALSI del 2023), percentuale in diminuzione rispetto allo scorso anno, ma ancora più elevata rispetto a quella registrata prima della pandemia (era del 7,5% nel 2019).
Gli studenti che si trovano in condizione di dispersione implicita sono studenti che, pur ottenendo il diploma di scuola superiore, non raggiungono i livelli di competenze richieste nelle prove di italiano, matematica e inglese, bensì mostrano livelli corrispondenti agli obiettivi formativi previsti per gli studenti di terza media.
Queste sono alcune evidenze emerse nel Rapporto “Il Mondo in una classe. Un’indagine sul pluralismo culturale nelle scuole italiane”, diffuso oggi da Save the Children – l’Organizzazione internazionale che da oltre 100 anni lotta per salvare i bambini e le bambine e garantire loro un futuro – in vista della riapertura delle scuole: una fotografia delle diseguaglianze educative che compromettono i percorsi di crescita di bambine, bambini e adolescenti in Italia.
In uno scenario in cui la scuola italiana è alle prese con un numero sempre minore di studenti, a causa del calo demografico che da anni investe il nostro Paese (rispetto a 7 anni fa, quasi 71.000 bambini in meno hanno varcato la soglia della scuola elementare, 511.485 nell’a.s. 2015/16, 440.733 nell’a.s. 2021/22).) e con classi sempre più multiculturali, quest’anno il Rapporto annuale sulla scuola di Save the Children mette a fuoco i percorsi educativi degli studenti con background migratorio, evidenziando l’opportunità per il nostro Paese di riconoscere e valorizzare le diversità a scuola e superare gli stereotipi legati al percorso migratorio, con proposte capaci di sostenere una scuola inclusiva e multiculturale.
Stiamo parlando di più di 800 mila minori, pari ad oltre 1 su 10 (10,6%) tra gli iscritti nelle scuole dell’infanzia, primarie e secondarie nel nostro Paese. Il mancato riconoscimento della cittadinanza italiana ha un impatto sul successo scolastico e segna il loro percorso di crescita e di formazione rispetto ai coetanei.
Molti studenti con background migratorio, pur nascendo o crescendo in Italia, hanno meno opportunità rispetto ai loro compagni di scuola, a partire dall’inserimento alla scuola dell’infanzia, al ritardo scolastico dovuto alla collocazione in classi inferiori a quelle corrispondenti all’età anagrafica o alla mancata ammissione all’anno successivo, fino all’abbandono precoce, passando in alcuni territori anche per il cosiddetto fenomeno del white flight, ovvero lo spostamento, da parte delle famiglie italiane, di bambini e adolescenti verso scuole situate in aree urbane centrali, con il conseguente aumento della concentrazione di alunni stranieri nelle scuole periferiche e il distanziamento, non solo fisico, ma anche sociale e culturale tra studenti di origine italiana e studenti con background migratorio.
Il percorso scolastico di queste bambine, bambini e adolescenti nel nostro Paese è reso ancora più difficile dalla mancanza del riconoscimento della cittadinanza italiana. Questi studenti incontrano maggiori difficoltà, ad esempio, a partecipare a gite scolastiche e scambi culturali all’estero, riservati spesso ai soli cittadini comunitari, o a competizioni sportive, e, successivamente, anche ad accedere all’Università o ai concorsi pubblici.
Il Rapporto offre alcuni spunti per comprendere la relazione tra educazione e cittadinanza, e, in particolare, quanto i percorsi educativi e scolastici dei minori di origine straniera possano essere influenzati positivamente dal riconoscimento dello status di cittadina o cittadino italiano.
Varie ricerche condotte a livello europeo mostrano che esiste una correlazione positiva tra il successo formativo e il riconoscimento dello status di cittadino ai minori con background migratorio.
Nel nostro Paese, solo il 77,9% dei bambini con cittadinanza non italiana è iscritto e frequenta la scuola dell’infanzia (percentuale che sale all’83,1% per i nati in Italia) contro il 95,1% degli italiani, sperimentando così, fin dai primi anni di vita, percorsi scolastici e educativi diversi, che incidono sui risultati e sulle opportunità future. Tra gli studenti con background migratorio si registrano maggiori ritardi scolastici, casi di dispersione e abbandono scolastico.
Mentre gli studenti di origine italiana in ritardo nell’anno scolastico 2021/22 rappresentavano l’8,1%, quelli con cittadinanza non italiana erano il 25,4%, con un divario che diventa ancora più allarmante nella scuola secondaria di II grado (16,3% contro il 48,4%).
Le disuguaglianze si rilevano anche negli apprendimenti: al termine del primo ciclo di istruzione la percentuale degli studenti che non raggiungono le competenze adeguate in italiano, matematica e inglese (secondo i dati INVALSI del 2023) tra gli immigrati di prima generazione è doppia (26%) rispetto agli studenti italiani o stranieri di seconda generazione.
A gravare sul percorso educativo dei minori con background migratorio, anche le condizioni di povertà economica – con un’incidenza del 36,2% della povertà assoluta tra le famiglie con minori composte esclusivamente da stranieri (per le famiglie composte solo da italiani si ferma all’8,3%, per quelle miste arriva al 30,7%) – e l’impatto della pandemia, che ha in molti casi comportato l’interruzione dell’insegnamento della lingua italiana e delle attività extrascolastiche, la mancanza di dispositivi tecnologici per seguire le lezioni, la mancanza di occasioni di socialità e di rapporto scuola-famiglia.
“I bambini, le bambine e gli adolescenti, italiani di fatto, ma non per legge, sono più di 800 mila nelle nostre scuole e in costante crescita, ma non beneficiano delle stesse opportunità di sviluppo dei loro coetanei italiani. Il loro percorso formativo è segnato da ostacoli e difficoltà che si manifestano fin dall’infanzia, a partire dall’accesso ai servizi, all’accertamento della carriera scolastica, al riconoscimento della validità dei titoli conseguiti in un altro Paese o alla piena partecipazione alle attività scolastiche e extrascolastiche. Per questo, sono necessari interventi e politiche ampie che sostengano nella scuola e nella società le opportunità date da una società multiculturale e consentano di far fiorire i talenti di tutte le studentesse e gli studenti, cosa di cui, peraltro, il nostro Paese ha un enorme bisogno per il suo sviluppo”, ha dichiarato Daniela Fatarella, Direttrice Generale di Save the Children.
“La scuola è lo spazio per eccellenza dell’incontro e dello scambio tra bambini e ragazzi con provenienze diverse e la relazione è spesso la chiave per avviare un processo di inclusione sociale di successo. Per questo, chiediamo al Governo di investire risorse per valorizzare il pluralismo culturale nelle scuole, potenziando la presenza di mediatori culturali negli istituti con un’alta presenza di alunni con background migratorio, ma anche corsi di italiano e attività di socializzazione extrascolastica, soprattutto nelle aree più svantaggiate e a rischio povertà dove si concentrano le famiglie con entrambi i genitori nati all’estero”. “Da troppo tempo l’Italia attende una riforma legislativa che riconosca piena cittadinanza ai bambini e alle bambine che nascono o giungono da piccoli nel nostro Paese, rafforzando così il senso di appartenenza alla comunità nella quale crescono e spingendo in avanti le loro aspirazioni per il futuro. È un’opportunità che il nostro Paese non può perdere”, ha dichiarato Raffaela Milano, Direttrice Programmi Italia Europa di Save the Children.
“L’impegno a favore dei percorsi scolastici degli studenti con background migratorio deve inserirsi, a pieno titolo, in un piano di contrasto a tutte le gravi disuguaglianze educative che oggi pregiudicano il futuro dei bambini: le disuguaglianze territoriali (con i gravi divari tra Nord e Sud), quelle legate alla condizione economica delle famiglie, quelle relative al genere, in particolare per l’accesso delle bambine alle discipline scientifiche. Il superamento delle disuguaglianze educative va messo al centro degli interventi previsti dal Piano nazionale di ripresa e resilienza, così come dei fondi ordinari e della nuova programmazione europea. Un intervento organico e strutturale a sostegno delle scuole e dei territori che affrontano giornalmente questa sfida è la strada per assicurare davvero, nei fatti, una scuola ‘aperta a tutti‘, come recita la nostra Costituzione”.
I risultati dell’indagine Immerse
Il 67,5% degli studenti stranieri iscritti nelle nostre scuole è nato in Italia: dall’anno scolastico 2017/18 al 2021/22 il numero è cresciuto del 10,8%, passando da 531.467 a 588.986 alunni, con un incremento di oltre 57 mila minori.
Nella scuola dell’infanzia, su 100 alunni con background migratorio circa 83 sono nati in Italia; nella scuola primaria quasi tre minori su quattro (73,6%); nella scuola secondaria di I grado sono il 67% e nella scuola secondaria di II grado il 48,3%, quasi uno su due.
Il 65,5% degli studenti stranieri presenti in Italia si concentra nelle regioni del Nord, seguite, a distanza, dal Centro (21,9%), Sud e Isole (12,6%). Per comprendere la relazione tra educazione e cittadinanza, ovvero quanto i percorsi dei minori con background migratorio si differenzino in base al possesso dello status di cittadina o cittadino italiano, il Rapporto presenta i risultati di un’indagine quantitativa realizzata da Save the Children, che ha coinvolto 6.059 studenti tra i 10 e i 17 anni, che frequentano la scuola primaria e secondaria di primo e secondo grado in cinque città (Catania, Milano, Napoli, Roma e Torino). La ricerca approfondisce il senso di appartenenza alla scuola, le relazioni sociali, il sostegno dei docenti e della comunità educante, le aspirazioni future degli alunni stranieri.
L’indagine fa parte del più ampio progetto di ricerca europeo IMMERSE – Integration Mapping of Refugee and Migrant children in Schools and other Experiential environments in Europe, che si propone di individuare una nuova generazione di indicatori per studiare lo stato dell’inclusione sociale e scolastica dei minorenni rifugiati e migranti in Europa. L’11% degli alunni con background migratorio ha dichiarato di aver avuto periodi di interruzione della scuola di sei mesi o più – assenze prolungate che rappresentano uno dei campanelli d’allarme della dispersione scolastica – contro il 5,9% degli studenti con genitori italiani. Tra i minori con background migratorio che hanno risposto di aver smesso di frequentare la scuola per periodi prolungati e che non hanno cittadinanza italiana, l’8,3% indica tra le motivazioni principali il fatto che non ci fossero posti disponibili a scuola, il 3,2% la conoscenza limitata della lingua italiana, il 2,2% la necessità di aiutare i genitori a casa e il 2,5% il fatto che la scuola non sia utile.
Queste percentuali scendono nettamente tra i minori con background migratorio che hanno la cittadinanza italiana: solo l’1,5% afferma di non aver trovato posto a scuola, mentre quasi nessuno sostiene di non conoscere la lingua italiana o di dover restare a casa per aiutare la famiglia, o ancora ritiene che frequentare la scuola sia inutile. La cittadinanza italiana sembra influire positivamente sul livello di istruzione più alto che gli studenti si aspettano di raggiungere. Il 45,5% degli studenti italiani (43,2% per quelli con background migratorio) intervistati ritiene di poter ottenere un diploma di laurea, un master o un dottorato, dato che scende al 35,7% per gli studenti con background migratorio senza cittadinanza.
Questi risultati mostrano come i minori con background migratorio, se cittadini del Paese ospitante, tendono a maturare aspettative e aspirazioni equivalenti a quelle dei coetanei nati in Italia. Nel processo di integrazione, di crescita e formazione di questi studenti è fondamentale anche il grado di fiducia degli insegnanti nelle loro capacità e potenzialità, che può influenzare negativamente le aspirazioni future di bambini, bambine e adolescenti.
Se per il 64,5% degli studenti italiani intervistati i docenti manifestano sempre o quasi sempre fiducia nelle loro capacità, nel caso degli studenti con background migratorio solo il 53,4% afferma che gli insegnanti dimostrano fiducia nelle loro capacità di proseguire gli studi, mentre in un caso su 10 (10,8%) questo non avviene mai o quasi mai. Anche nella scelta degli indirizzi di studio il luogo di nascita svolge un ruolo determinante: mentre gli studenti con cittadinanza non italiana nati nel nostro Paese si orientano verso gli istituti tecnici (39,7%) e i licei (23,8%), gli studenti nati all’estero si iscrivono prevalentemente agli istituti tecnici (37,8%) e ai professionali (34,9%).
L’indagine ha permesso infine di tracciare un quadro più generale circa le difficoltà degli studenti in Italia e il loro senso di appartenenza alla scuola, al quartiere e al Paese. Gli studenti intervistati, di qualsiasi origine siano, incontrano ostacoli e difficoltà legate alla mancanza o scarsità delle opportunità offerte nel territorio: solo il 22% degli intervistati, poco più di 1 su 5, dichiara di vivere in aree dove sono presenti attività di sostegno, di apprendimento o di supporto linguistico (aiuto per fare i compiti, corsi di lingua, ecc.), organizzate nel tempo extrascolastico e solo il 38,9% dichiara di partecipare a qualche attività nel dopo scuola, come attività sportive, corsi di arte o musica. Il 17,9% degli studenti con background migratorio senza cittadinanza italiana afferma di non sentirsi mai o quasi mai parte della scuola. Tale percentuale scende al 13,8% per gli studenti con background migratorio e con cittadinanza italiana e al 10,6% per i coetanei con entrambi i genitori italiani.
I minori che dichiarano di provare un forte senso di appartenenza verso l’Italia, il proprio quartiere e la propria città sono pochi, sia tra chi ha origini italiane, sia tra i minori con background migratorio. Tra i primi, solo il 26,2% si sente “vicino” all’Italia, il 30% al quartiere e il 24% alla propria città. Tra i minori con background migratorio, coloro che hanno ottenuto la cittadinanza italiana si sentono più vicini all’Italia (18,5%) e più vicini al loro quartiere (26%) e città (18%) rispetto ai minori stranieri senza cittadinanza italiana (rispettivamente 14%; 21,5%; 13%). L’indagine fa emergere dunque un senso di estraneità tra la maggioranza degli studenti interpellati, indipendentemente dalle loro origini, rispetto al territorio in cui crescono, mentre il senso di appartenenza più forte è quello che li lega al gruppo dei pari, agli amici. Che siano italiani, oppure nati e/o cresciuti in Italia, oppure arrivati da poco, i legami di amicizia abbattono differenze e stereotipi. La maggioranza dei minori con background migratorio (51,5%), così come quelli di origine italiana (64,2%) hanno degli amici provenienti da un Paese diverso rispetto a quello in cui sono nati. Meno di uno studente italiano su quattro (22,6%) afferma di non avere alcun amico di origine straniera. Le relazioni tra pari possono rappresentare una chiave su cui far leva per strategie di coesione che mettano al centro il protagonismo delle giovani generazioni, di ogni provenienza.
La campagna sulla cittadinanza di Save the Children
In Italia più di 800 mila bambine, bambini e adolescenti sono italiani di fatto, ma non di diritto. In base a una legge che risale a trent’anni fa, possono ottenere la cittadinanza italiana solo quando diventano maggiorenni e dopo un complesso iter burocratico. In una fase delicata come quella della crescita, non avere la cittadinanza italiana e sentirsi diversi rispetto ai compagni di classe ha ripercussioni sia pratiche – come la possibilità di partecipare alle gite scolastiche e alle attività sportive – che psicologiche, nella maturazione del senso di appartenenza alla comunità nella quale si vive. Tutto ciò può avere impatto negativo anche sui percorsi scolastici.
Per questo, Save the Children ha lanciato oggi una campagna per la cittadinanza. Con la petizione “Cittadinanza italiana per i bambini nati o cresciuti in Italia.
È il momento di riconoscere i loro diritti!”, l’Organizzazione chiede al Parlamento italiano di riformare la legge sulla cittadinanza e consentire a bambine, bambini e adolescenti nati in Italia o arrivati nel nostro Paese da piccoli, figli di genitori regolarmente residenti, di diventare italiani prima del compimento della maggiore età. Più volte il Parlamento ha affrontato la questione, senza però arrivare mai a un risultato.
Save the Children, con questa campagna, chiede una riforma della legge sulla cittadinanza perché la domanda di appartenenza delle nuove generazioni alla comunità nazionale sia finalmente riconosciuta. L’opportunità di sviluppo dell’intero sistema Paese che una riforma sulla cittadinanza porta con sé è un’occasione che l’Italia non può perdere. L’Organizzazione chiede, inoltre, al Governo italiano di sostenere l’inclusione delle studentesse e degli studenti con background migratorio nelle scuole, potenziando l’offerta educativa a loro dedicata, soprattutto nei territori dove la concentrazione degli stessi è più alta, attraverso servizi di mediazione culturale e la costruzione di percorsi che valorizzino il pluralismo linguistico e culturale nelle scuole.
Il PNRR contempla diverse riforme e investimenti per rafforzare il sistema educativo, dedicando un’intera Missione (la n.4) al miglioramento qualitativo e quantitativo dei servizi di istruzione, dagli asili nido all’università. Un intervento che richiede necessariamente di prevedere un approccio attento anche ai bisogni specifici degli studenti con background migratorio per offrire a tutti i minori, a prescindere dalla propria origine, la possibilità di costruire il proprio futuro.
(da agenzie)
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Settembre 7th, 2023 Riccardo Fucile
LA STORIA DEI FRATELLINI MALTRATTATI CHE MANGIAVANO LA TERRA… SALVATI DAL POLICLINICO UMBERTO I DI ROMA… IL PIU’ PICCOLO DI 4 ANNI NON ERA NEMMENO IN GRADO DI CAMMINARE
Pietro e Paolo, nomi di fantasia, hanno appena 4 e 6 anni. Sono stati portati dalla Polizia al nostro Pronto Soccorso del Policlinico Umberto I di Roma il 10 maggio alle 16.47. Soli, denutriti, con ematomi e cicatrici. A comunicarlo è l’ospedale stesso che racconta la loro storia sui social. I bimbi vagavano da soli in una zona fuori dal Raccordo anulare. Le loro prime parole sono state un grido di aiuto: «Non vogliamo tornare dalla mamma, abbiamo fame, vogliamo il gelato».
Il recupero al Policlinico
Il personale ospedaliero, coordinato dalla Dottoressa Laura De Vito, medico di Direzione sanitaria, ha curato i piccoli nella Terapia Intensiva Pediatrica della Dottoressa Papov, dove sono rimasti fino al 17 maggio, per poi essere trasferiti in Gastroenterologia pediatrica seguiti dalla Dottoressa Marina Aloi. Presentavano gravi problemi alimentari. A causa dei residui presenti nello stomaco si ritiene che avessero mangiato della terra. I bambini sono stati seguiti sia sotto l’aspetto neurologico che nutrizionale, con la Dottoressa Isabella Preziosa, e dietetico, con la Dottoressa Romina Alberti. Cinque infermieri dedicati, coordinati dal Dott Carmine Rullo, si sono alternati per prendersi cura dei bambini h24. «Il piccolo Pietro – racconta l’ospedale – nonostante avesse 4 anni, all’arrivo in Pronto soccorso non era in grado neppure di camminare. Col tempo e con l’aiuto di fisioterapisti ha imparato a farlo, ad andare sul monopattino e anche a ballare. Il loro percorso di rinascita è stato illuminato dalla generosità dei volontari dell’associazione ARVAS, dai tanti regali che hanno ricevuto e dall’enorme affetto di tutti i professionisti sanitari che si sono occupati di loro». Oggi, Pietro e Paolo vivono serenamente in Casa Famiglia e sono adottabili.
Revocata la patria potestà ai genitori
Intanto, spiegano dal Policlinico, le indagini hanno confermato il grave stato di abbandono dei piccoli e di irresponsabilità totale dei genitori, a cui è stata revocata la patria potestà. Il 6 luglio i bambini hanno lasciato definitivamente l’ospedale. Il più grande è andato subito nella nuova Casa, mentre il piccolo Pietro è stato sottoposto prima a un delicato intervento in Neurochirurgia Pediatrica per ridurre delle raccolte ematiche, causate dalle percosse subite negli anni, che pressavano sul suo cervello e ne compromettevano la vista e altre funzioni.
(da agenzie)
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