DRAGHI DIXIT: IL PATTO DI STABILITA’ NON FUNZIONA, NE’ IL NUOVO NE’ ILVECCHIO
L’INTERVENTO DELL’EX PREMIER SULL ECONOMIST: “SERVONO TASSE E DEBITO COMUNE, CON CESSIONE DI SOVRANITA’: E’ IN GIOCO LA PROSPERITA’ EUROPEA”
L’Europa è fuori strada e nemmeno la riforma proposta dalla Commissione Europea per un nuovo Patto di Stabilità, ammesso che venga approvata dagli Stati membri, basterà per rimetterla in carreggiata. Con un articolo pubblicato dall’Economist, l’ex premier Mario Draghi interviene nel dibattito europeo avvertendo sui rischi di un ritorno alle vecchie regole di bilancio ma, ugualmente, non sposa nemmeno le nuove linee proposte da Bruxelles e già diventate base di negoziati anche piuttosto accesi tra gli Stati membri.
“Le regole fiscali dovrebbero essere rigide, per garantire che le finanze dei governi siano credibili nel medio termine, e flessibili, per consentire ai governi di reagire a shock imprevisti. L’attuale insieme di regole non è né l’uno né l’altro”, scrive l’ex presidente della Bce. Secondo il quale, tuttavia, la proposta della Commissione sarebbe certamente “molto utile” ma anche se pienamente attuata “non risolverebbe completamente il compromesso tra regole rigide e flessibili”.
Non è un caso se per descrivere lo stallo in cui si ritrova l’Unione Europea nel pieno di una fase segnata da profondi stravolgimenti internazionali Draghi parta dall’annosa e irrisolta questione delle regole di bilancio.
Il modello che ha consentito la prosperità in Europa è ormai finito. Basato fino ad oggi sulla dipendenza dagli Stati Uniti per la sicurezza, dalla Cina per le esportazioni e dalla Russia per l’energia, si è rivelato ormai “insufficiente, incerto o inaccettabile”, scrive l’ex premier.
Tuttavia i recenti eventi geopolitici impongono all’Europa di affrontare “una serie di sfide sovranazionali che richiederanno ingenti investimenti in tempi brevi, tra cui la difesa, la transizione verde e la digitalizzazione”.
L’ex premier nel suo intervento fa un parallelo tra la situazione europea e quella americana sotto l’amministrazione Biden, che giudica più adeguata ai tempi che corrono. Perché la Casa Bianca riesce ad allineare “la spesa federale, le modifiche normative e gli incentivi fiscali nel perseguimento degli obiettivi nazionali”.
Questo è precluso all’Unione Europea intesa come soggetto politico: “Allo stato attuale, tuttavia, l’Europa non ha né una strategia federale per finanziare i suoi obiettivi, né le politiche nazionali possono assumerne il ruolo, poiché le norme europee in materia fiscale e sugli aiuti di Stato limitano la capacità dei Paesi di agire in modo indipendente”.
In altre parole oggi l’Ue non ha la forza né gli strumenti per sostenere quel lungo processo di trasformazione industriale verso la sostenibilità ambientale e il taglio delle emissioni, la digitalizzazione e il rafforzamento della Difesa comune. Né con il nuovo Patto di Stabilità l’Ue riuscirà a sostenere il peso di queste sfide.
Come peraltro ben spiegato da uno studio di alcuni economisti, chiedere agli Stati membri di conciliare ambiziosi obiettivi green e stringenti vincoli fiscali è impossibile. E con il nuovo Patto proposto da Bruxelles solo quattro Paesi avrebbero lo spazio di bilancio per contrastare il riscaldamento climatico e raggiungere il target che l’Ue stessa si è data di 1,5°.
Le opzioni per l’Unione delineate da Draghi sono perciò due, una votata al fallimento, l’altra auspicabile ma di complessa attuazione.
La prima è l’allentamento delle norme fiscali in tema di aiuti di Stato, lasciando così tutto l’onere ai singoli membri di finanziare sul piano domestico la propria transizione e la propria Difesa. Sarebbe deleterio, oltre che inutile perché “lo spazio di bilancio in Ue non è uniformemente distribuito”, e quindi alcuni riuscirebbero a raggiungere gli obiettivi, altri no. Il risultato sarebbe che le emissioni dell’Unione non raggiungerebbero complessivamente il target di riduzione, e la Difesa resterebbe comunque sguarnita. Insomma, “o tutti raggiungono i loro obiettivi o non li raggiunge nessuno”.
La seconda opzione è quindi quella di riformare il quadro fiscale europeo.
E qui torna il parallelo con gli Stati Uniti: le sfide che si impongono possono essere affrontate “solo con un trasferimento di maggiori poteri di spesa al centro, che a sua volta rende possibili regole più automatiche per gli Stati membri. Questa è in generale la situazione in America, dove a un governo federale potenziato si affianca a un sistema fiscale largamente inflessibile per gli Stati”.
Detta diversamente, la proposta di Draghi è di ripetere e normare attraverso l’inserimento nei trattati Ue il processo di condivisione messo in campo durante la pandemia con il Recovery Fund.
Un maggiore, stabile e permanente trasferimento all’Ue delle risorse necessarie ad affrontare le crisi e le sfide economiche, ambientali e difensive consentirebbe alla Commissione di poter applicare con rigidità le regole di bilancio ai Paesi membri, che sono stati tuttavia esentati dal finanziamento di enormi capitoli di spesa (basti pensare al Superbonus italiano nato per ridurre l’impatto ambientale degli edifici, o ai miliardi di sussidi erogati dalla Germania alle sue imprese per resistere al caro prezzi dell’energia da combustibili fossili).
È quello che accade negli Stati Uniti dove “un governo federale dotato di poteri si affianca a regole fiscali largamente inflessibili per gli Stati, ai quali nella maggior parte dei casi è vietato gestire deficit. Le regole del pareggio di bilancio sono credibili – con la sanzione ultima del default – proprio perché il livello federale si prende cura della maggior parte della spesa discrezionale”.
Il momento, a detta di Draghi, è propizio per dare una svolta all’assetto europeo. Ci sono enormi sfide economiche e ambientali da affrontare, c’è la corsa globale ai chip e alle materie prime necessarie alla transizione energetica, è in gioco l’allargamento dei confini dell’Ue ai Balcani e, si spera, all’Ucraina, e nel 2024 ci sono le elezioni europee in cui l’Ue si gioca anche in parte la sua credibilità verso gli elettori. Per questo un processo decisionale “più centralizzato” a livello Ue richiederà il consenso dei cittadini sotto forma di “revisioni dei trattati Ue”.
È chiaro quindi che percorso verso l’unione fiscale nell’Eurozona “richiederà nuove regole e una maggiore condivisione della sovranità”. Non è la prima volta che l’ex premier rilancia la sua proposta di cessione e condivisione della sovranità nazionale ma le difficoltà interne agli Stati e l’ascesa dei partiti sovranisti nelle recenti tornate elettorali rendono sempre più complicata da realizzare.
Tuttavia “senza azioni, c’è il serio rischio che l’Europa non raggiunga i suoi obiettivi climatici, non riesca a fornire la sicurezza richiesta dai suoi cittadini e perda la sua base industriale a favore di regioni che si impongono meno vincoli. Per questo motivo, ritornare passivamente alle vecchie regole fiscali – sospese durante la pandemia – sarebbe il peggior risultato possibile”.
(da Huffingtonpost)
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