Settembre 1st, 2023 Riccardo Fucile
LE SFORBICIATE VANNO A COLPIRE, PER UN TOTALE DI OLTRE 1,3 MILIARDI, L’ALTA VELOCITÀ AL SUD E LA LINEA ROMA-PESCARA… NELL’ELENCO DI TAGLI C’E’ ANCHE L’ERMTS, IL SISTEMA CHE SERVE A POTENZIARE LA SICUREZZA ED EVITARE COLLISIONI, DE-FINANZIATO DAL MINISTRO FITTO PER BEN 500MILIONI DI EURO
Matteo Salvini vuole sapere. A poche ore dalla tragedia ferroviaria che a Brandizzo, in Piemonte, ha ucciso cinque lavoratori, il vicepremier nonché ministro delle Infrastrutture, promette che il suo dicastero nominerà una commissione d’inchiesta per capire perché quel treno «è passato dove non doveva passare». Questo terribile incidente è accaduto, ha proseguito Salvini, proprio mentre «stiamo investendo decine di miliardi di euro per velocizzare, modernizzare, potenziare le ferrovie ovunque».
Tocca alla magistratura indagare sulle cause del disastro, accertare le eventuali responsabilità di chi avrebbe dovuto impedire ai cinque operai di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. Va accertato, quindi, perché le procedure di sicurezza non sono state rispettate.
Intanto, però, le parole del ministro accreditano il grande sforzo del governo per migliorare l’efficienza del sistema. Efficienza che non può non includere anche la sicurezza dei viaggiatori e di chi per le ferrovie si trova a lavorare, come i dipendenti dell’azienda a cui erano stati appaltati i lavori sui binari. E allora c’è un dato, una notizia di poche settimane fa, che finisce per illuminare una circostanza che non si incastra con le parole pronunciate ieri da Salvini.
A fine luglio, infatti, il ministro Raffaele Fitto ha illustrato i programmi che verranno esclusi dai finanziamenti del Pnrr e un capitolo importante riguarda proprio le ferrovie. I tagli, o il rinvio degli investimenti, vanno a colpire, per un totale di oltre 1,3 miliardi, l’Alta velocità al Sud e la linea Roma-Pescara. L’elenco comprende anche l’Ermts, cioè il sistema di gestione del traffico ferroviario, un progetto decisivo per aumentare la sicurezza della circolazione.
Secondo quanto annunciato, questa voce del Pnrr perderà circa 500 milioni. Grazie all’Ertms, un acronimo che sta per European rail traffic management system, il macchinista riceve costantemente informazioni aggiornate sul traffico ferroviario e se il treno supera la velocità consentita in quel tratto di rete viene automaticamente attivata la frenata d’emergenza. Di fatto viene assicurata la guida strumentale del locomotore, tenendo tra l’altro sotto controllo il distanziamento da eventuali altri convogli in viaggio sullo stesso binario.
Proprio per la sua importanza sul fronte della sicurezza, l’installazione dell’Ertms sull’intera linea ordinaria italiana (sull’alta velocità c’è già) è stata a suo tempo inserita tra i lavori finanziati con i fondi del Pnrr. Nel giugno dell’anno scorso, Rfi ha aggiudicato un appalto da 2,7 miliardi, diviso in quattro lotti, per «la progettazione e la realizzazione su tutto il territorio nazionale» del sistema Ertms. E questo era il primo obiettivo obbligatorio da raggiungere secondo quanto previsto nella tabella di marcia del Pnrr concordata con l’Unione europea.
Adesso i lavori andranno riprogrammati e i tempi di realizzazione non potranno che allungarsi.
Il solo fatto che un programma per il 2022-206 sia stato approvato entro la fine del primo anno in cui dovrebbe essere attuato, rappresenta un grande passo avanti per l’Italia. In precedenza, infatti, le procedure di approvazione a dir poco farraginose comportavano gravi ritardi per arrivare al via libera definitivo. Nel solo 2023 sono previsti investimenti di 477 milioni destinati ad aumentare la sicurezza della rete.
Nell’arco dell’intero piano, che ha durata quinquennale, la spesa complessiva programmata ammonta a 9,6 miliardi. È questa la somma indicata nelle tabelle del ministero alla voce «Sicurezza e adeguamento a nuovi standard». Altri 2,7 miliardi, erano compresi nel capitolo «Adeguamento tecnologico». Erano i fondi destinati all’Ertms. Fino a quando non è arrivato il taglio deciso dal governo.
(da Domani)
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Settembre 1st, 2023 Riccardo Fucile
IL PROBLEMA È CHE OGNI ESPULSIONE COSTA ALLO STATO CINQUEMILA EURO E COMPORTA COMPLESSE PROCEDURE… A BLOCCARE TUTTO SPESSO È LA MANCANZA DI ACCORDI DI RIAMMISSIONE CON I PAESI D’ORIGINE (VEDI LA TUNISIA DI SAIED, CHE TIENE ROMA PER LE PALLE)
I moduli grigi, circondati da filo spinato, sono pronti. I primi 100 migranti sono già stati trasferiti da Lampedusa, ma le sezioni vanno ancora strutturate: una parte centro di accoglienza, l’altra sezione per le procedure di frontiera. Passa dal nuovo hotspot di Modica-Pozzallo una delle scommesse del governo Meloni sull’immigrazione.
Sarà questo, infatti, il primo centro di trattenimento per le persone che provengono da Paesi terzi sicuri. Fallita la strategia di “fermare le partenze” ora si punta alla riproposizione di una vecchia ricetta, quella del “rimandiamoli tutti a casa”, tradotto: aumentare i rimpatri. Lo ripete da giorni anche la presidente del Consiglio
Più facile a dirsi, però, che a farsi. Negli anni tutti i governi che ci hanno provato alla fine hanno dovuto ammettere il fallimento.
Al Viminale, però, sono convinti di avere due assi nella manica: per prima cosa le nuove norme inserite nel decreto Cutro (legge 50/2023). In particolare, le cosiddette procedure accelerate di frontiera per chi proviene dai Paesi considerati sicuri, cioè verso i quali le persone possono essere rimandate. 17 in tutto: Albania, Algeria, Bosnia-Erzegovina, Capo Verde, Costa d’Avorio, Gambia, Georgia, Ghana, Kosovo, Macedonia del Nord, Marocco, Montenegro, Nigeria, Senegal, Serbia e Tunisia.
Per chi entra irregolarmente in Italia, via mare o via terra, ed è originario di uno di questi Paesi, è previsto dunque un procedimento speciale, accelerato, una sorta di “direttissima”. Il secondo obiettivo è rendere possibile il rimpatrio anche dei migranti in attesa di processo. Un altro punto chiave sarà inserito invece nel prossimo decreto sicurezza, più volte annunciato.
Il primo a dirsi scettico è il presidente della Regione Veneto, Luca Zaia che parla di una strategia paragonabile all’idea di «svuotare il mare con un secchio».
Secondo il governatore veneto della Lega «quest’anno arriveremo a oltre 200 mila persone, solo l’8% avrà lo status di rifugiato. Quindi almeno 150 mila dovrebbero essere riaccompagnate una ad una in aereo con le forze dell’ordine. La vedo dura».
Fu proprio la Lega, con Matteo Salvini ministro dell’Interno a puntare sui rimpatri per mostrare il pugno duro sui migranti nel periodo dei cosiddetti “porti chiusi”. Nel 2018 furono 6.396 le persone rimandate indietro, leggermente meno di quanto successo l’anno precedente quando al Viminale c’era Marco Minniti e il dato si attestò sui 6.577.
Il dato è poi bruscamente sceso durante la pandemia per la chiusura delle frontiere: così nel 2020 il numero si dimezza a 3.351, un dato che rimane più o meno stabile anche nei due anni successivi, 3.420 nel 2021 e 3.916 nel 2022.
Anche nei primi sette mesi di quest’anno (da gennaio a luglio 2023), nonostante il flusso dei migranti abbia superato i 100 mila arrivi, le persone rimpatriate sono state 2.500. Numeri in linea con l’andamento registrato dal 2020.
A bloccare negli anni l’obiettivo di “rimandare tutti a casa” non sono state solo le procedure di emissione di provvedimenti di espulsione, cioè i fogli di via per chi non ha diritto a restare. La catena si ferma quando si tratta di applicare nella pratica il provvedimento.
Innanzitutto, le riammissioni sono vincolate agli accordi tra i Paesi. Ad oggi l’Italia ne ha un numero limitato, qualche intesa è in via di definizione ma i Paesi che accettano di riprendere indietro i migranti sono sempre gli stessi. Non è un caso che la maggior parte delle persone negli ultimi anni sia stata rimpatriata principalmente in Tunisia, con cui l’Italia ha un solido accordo da tempo.
Negli incontri avuti di recente con i rappresentanti dell’esecutivo, il presidente Kaled Saïed ha ribadito di voler proseguire sulla scia di quest’intesa ma solo per quanto riguarda i cittadini tunisini. Ha rimandato al mittente, invece, l’ipotesi di riprendere nel suo Paese anche le persone che lì sono transitate prima di imbarcarsi verso l’Italia. Cioè la stragrande maggioranza degli oltre 114mila migranti approdati sulle nostre coste da gennaio.
L’altro scoglio, infine, è quello economico. Rimpatriare con scorta una persona fino al Paese di origine può costare anche 5000 euro a migrante, perché la macchina burocratica da mettere in moto è complicata e prevede personale specializzato. A questa voce va aggiunta la spesa per le strutture preposte alla detenzione, cioè i Cpr.
Secondo un report della Coalizione italiana per le libertà e i diritti civili, che ha analizzato i bandi delle prefetture negli ultimi anni, nel periodo 2021-2023 il costo previsto per gestire i dieci centri finora attivi sul territorio è di 56 milioni di euro. Una cifra che potrebbe raddoppiare se, come da intenzioni, si riuscirà ad aprire un centro per il rimpatrio in ogni regione
(da agenzie)
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Settembre 1st, 2023 Riccardo Fucile
DIFFONDONO IL CREDO DI PUTIN E “INQUINANO” IL DIBATTITO PUBBLICO SULLA GUERRA: “IN ALCUNI CASI NON SONO PROPAGANDISTI RUSSI, MA COMMENTATORI ITALIANI CHE VEDONO LA GUERRA COME IL RISULTATO DI UNA PROVOCAZIONE OCCIDENTALE. UNO DI QUESTI, REGOLARMENTE INVITATO A LA7 E ALLA RAI, È ALESSANDRO ORSINI”
Ogni volta che Nello Scavo torna dall’Ucraina è preso dalla frustrazione. Come corrispondente di guerra per il quotidiano nazionale italiano Avvenire, sa che la prima domanda che la gente gli farà è: “È davvero così grave come dicono?”.
“A volte penso che solo se torno gravemente ferito la gente inizierà a prendermi sul serio”, ha detto al Guardian. “È come se non credessero che la Russia stia massacrando i civili. Il problema è che Vladimir Putin ha sempre goduto di ampie simpatie nella politica e nell’opinione pubblica italiana, e il Cremlino ha sempre goduto di un’efficace propaganda qui”.
Sebbene il governo italiano di estrema destra sia uno dei più convinti sostenitori europei dell’Ucraina, la propaganda e la disinformazione russa permeano i media italiani – cosa che i ricercatori attribuiscono alla politica e allo storico anti-atlantismo – con ospiti apertamente filo-russi invitati nei talk show più popolari del Paese. Un sondaggio pubblicato da Ipsos ad aprile ha rivelato che quasi il 50% degli italiani preferisce non schierarsi nel conflitto.
Matteo Pugliese, ricercatore italiano di sicurezza e terrorismo presso l’Università di Barcellona, ha seguito la sfilata di funzionari governativi, ideologi e personaggi mediatici russi ospitati dalle reti televisive italiane dopo l’invasione russa. Tra questi, il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov e la sua portavoce Maria Zakharova, l’ideologo ultranazionalista russo Alexander Dugin, Olga Belova, giornalista di Russia 24, un’emittente che ha negato il massacro di Bucha, e Yulia Vityazeva, giornalista di NewsFront – con sede nella Crimea occupata dalla Russia e gestita dall’FSB – che in un post su Telegram ha auspicato che una bomba colpisse il concorso canoro Eurovision a Torino dopo la vittoria dell’Ucraina.
“Rispetto ad altri Paesi dell’Europa occidentale, l’Italia ha dato un’esposizione sproporzionata alla propaganda russa, secondo me semplicemente perché i produttori televisivi volevano aumentare lo share di certi programmi con dibattiti accesi”, ha detto Pugliese.
Pugliese ha notato che il maggior numero di propagandisti russi, 12, sono stati ospitati da Rete4, un canale di Mediaset, di proprietà di Silvio Berlusconi, un vecchio amico di Putin che, pochi mesi prima di morire, ha affermato che il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, ha “provocato” l’invasione della Russia. Berlusconi, che è stato tre volte primo ministro, ha coltivato stretti rapporti con il presidente russo, elogiando la sua leadership e contribuendo a stringere accordi energetici che per alcuni sono la causa dell’attuale dipendenza dell’Italia dal gas russo.
“In Italia, soprattutto i partiti di destra hanno mantenuto buoni rapporti con Putin”, ha detto Scavo. “Non solo Berlusconi, ma anche l’attuale vice premier Matteo Salvini, che indossava una maglietta con il volto di Putin”.
L’anno scorso il Copasir, il comitato parlamentare italiano per la sicurezza, ha avviato un’indagine in seguito alla diffusa preoccupazione per l’apparizione di commentatori russi legati al Cremlino sui canali di informazione italiani, mentre diversi giornalisti ucraini si sono rifiutati di accettare inviti a programmi televisivi italiani.
In alcuni casi gli ospiti della TV italiana non sono propagandisti russi, ma commentatori italiani che sembrano vedere la guerra come il risultato di una provocazione occidentale. Uno di questi, regolarmente invitato a La7 e alla Rai, è Alessandro Orsini, professore di sociologia del terrorismo e della violenza politica alla Luiss di Roma.
Orsini ha detto pubblicamente che Zelensky è un “criminale di guerra” tanto quanto Putin ed è diventato così popolare che i suoi dibattiti nei teatri italiani fanno il tutto esaurito. Orsini, che si definisce pacifista, ritiene che l’unico modo per salvare l’Ucraina sia riconoscere la presunta vittoria di Putin. Le sue idee sono diffuse nel movimento pacifista italiano, con diversi intellettuali che spingono per la pace a costo della resa dell’Ucraina. Quando è stato accusato di essere filo-russo, Orsini ha detto di “non avere nemmeno un amico russo”.
“Non è pacifismo suggerire la resa come soluzione”, ha detto Arianna Ciccone, fondatrice di Valigia Blu, un sito web italiano di factchecking indipendente, e co-fondatrice del Festival Internazionale del Giornalismo.
“Queste persone sono sempre state storicamente anti-Nato. Nascondono ipocritamente il loro antiamericanismo dietro una ‘maschera’ di pacifismo. In alcuni casi questo si traduce in un vero e proprio sentimento anti-ucraino. Spesso abbiamo avuto in TV noti giornalisti e filosofi che hanno espresso dubbi su Bucha e Mariupol. Nemmeno di fronte a una montagna di prove hanno avuto il coraggio di ammettere la verità. Come possono essere pacifisti?”.
L’anno scorso, uno studio indipendente dell’Istituto per il Dialogo Strategico (ISD) ha rivelato che l’Italia era il paese con più condivisioni sui social dei post che mettevano in dubbio i crimini di guerra russi perpetrati a Bucha.
I conduttori televisivi italiani difendono la loro decisione di ospitare presunti propagandisti russi o commentatori con “opinioni diverse” sulla guerra come parte del dovere di dare voce a entrambe le parti del conflitto. “Nel farlo, però, non sembrano preoccuparsi del fatto che chi difende l’invasione russa spesso diffonde disinformazione e contribuisce così a destabilizzare i telespettatori con affermazioni prive di fondamento”, ha aggiunto Ciccone.
Un esempio lampante è l’affermazione di Mosca – respinta dalle Nazioni Unite e utilizzata come giustificazione per l’invasione su larga scala nel 2022 – secondo cui l’azione militare ucraina nel conflitto del Donbas equivale a un genocidio. Decine di italiani si sono uniti ai “proxy” russi nel Donbass negli anni successivi al 2014 per combattere contro Kyiv.
La maggior parte di loro sono estremisti di destra attratti dall’ultranazionalismo russo, ma tra le loro fila si contano anche uomini appartenenti all’estrema sinistra.
In parte si tratta di un’eredità della forza del dopoguerra del Partito Comunista Italiano, che ha raggiunto un picco del 34,4% dei voti nel 1976 e ha sostenuto quella che era vista come la resistenza dei Paesi comunisti contro l’imperialismo americano.
Questa visione, in parte, anima ancora i sostenitori dell’estrema sinistra italiana che vedono nella Russia un baluardo contro gli Stati Uniti e credono anche alle affermazioni di Putin sui “nazisti ucraini”. In occasione del Giorno della Vittoria del 2022, festa che commemora la vittoria sovietica sulla Germania nazista, il partito comunista di Zagarolo, a Roma, ha diffuso una serie di manifesti con la lettera Z usata dal governo russo come motivo pro-guerra. Gli organizzatori dell’evento hanno respinto le critiche, affermando che “non si tratta di una provocazione”.
Secondo un sondaggio del Pew Research Center, pubblicato a luglio, l’Italia è tra i Paesi dell’UE in cui la fiducia nei confronti di Zelensky è più bassa. Secondo l’European Council on Foreign Relations, gli italiani sono risultati i più simpatici alla Russia tra gli Stati membri intervistati, e il 27% di loro attribuisce la responsabilità della guerra all’Ucraina e agli Stati Uniti.
“Il risultato di tutto questo è una grande confusione nell’opinione pubblica italiana, che si dibatte su chi incolpare per la guerra, dando la colpa in egual misura a Russia e Ucraina”, ha detto Pugliese. “Questo è certamente un successo per la propaganda del Cremlino”.
(da Guardian)
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Settembre 1st, 2023 Riccardo Fucile
È UN VICEPRESIDENTE-OMBRA, SEMBRA MA NON È UN DEMOCRISTIANO. INCAPSULATO IN UNA INFLESSIBILITÀ ULTRA-CONSERVATRICE UN PO’ OTTOCENTESCA E DA BACIAPILE, È DOTATO DI UNO SPICCATO SENSO DELLE REGOLE
Una delle non moltissime sfide memorabili all’epoca dei collegi uninominali fu quella nel 2001 tra Massimo D’Alema e Alfredo Mantovano a Gallipoli. Una bella gara anche perché era senza paracadute del proporzionale, o dentro o fuori. Silvio Berlusconi mandò un elicottero per fare propaganda per il candidato di Alleanza nazionale anti-D’Alema. Alla fine prevalse proprio D’Alema, seppur di poco («Il Cavaliere ha sprecato il carburante», ironizzò il lìder Maximo).
Quella volta davvero il capo dei Ds ebbe paura di non rientrare in Parlamento: quel Mantovano si rivelò un osso durissimo. Perché Alfredo Mantovano, sessantacinque anni, leccese, è un politico tosto. Oggi è sottosegretario alla presidenza del Consiglio ma in realtà è un vicepresidente-ombra che fa, appunto, ombra a Matteo Salvini (che molto ne soffre) e Antonio Tajani, che invece fischietta come sempre.
Da ultimo, Giorgia Meloni ha messo nelle sue mani la patata bollente dell’immigrazione, esautorando un Matteo Piantedosi che dai fatti di Cutro è politicamente sotterrato, e senza coinvolgere Salvini che si ritiene il dominus della questione.
Senza questo uomo di legge, ex magistrato, politico da trent’anni ma senza essersi mai sporcato le mani con la politica intesa alla Rino Formica – «sangue e merda» –, gentile senza essere untuoso, dotato di uno spiccato senso delle regole che gli consente di essere l’interlocutore primo del Quirinale.
Il tutto, per Mantovano, incapsulato in una inflessibilità ultra-conservatrice un po’ ottocentesca e da baciapile ben distinta e distante dall’antimodernità militante di una Eugenia Roccella: il sottosegretario ha fatto le sue battaglie contro l’aborto, la fecondazione assistita e quant’altro, ma tutto questo non lo porta a manifestazioni di intolleranza. Rigido sui principi, mediatore in politica: ingredienti che fanno di Mantovano l’uomo giusto al posto giusto, il che gli garantisce oggi grandissimo potere.
Mantovano ha buone doti di ascolto, è arciconvinto delle proprie idee ma non chiuso al confronto. Sembra ma non è un democristiano. [Quel che è sicuro è che pesa su di lui quel senso delle regole tipico del giurista di destra, secondo una particolare tradizione di avvocati del mondo missino come Giulio Maceratini, Raffaele Valensise, forse Romano Misserville, per non parlare del senso dello Stato di un uomo di destra come Paolo Borsellino.
Dalla sua, Mantovano ha anche un altra carta buona: non è e non vuole essere un leader di partito, dunque non s’impegola nelle ragnatele di potere dei seguaci di Giorgia Meloni, non punta al Parlamento Europeo, restando quindi al di sopra della politichetta di questa fase.
Se fossimo in un altro tempo politico, Mantovano sarebbe una riserva nel caso di naufragio meloniano, ma è chiaro che se cade lei cade tutto il cucuzzaro. Cosi il “vicepremier ombra” non ha avversari che possano impensierirlo. Almeno per ora.
(da linkiesta.it)
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Settembre 1st, 2023 Riccardo Fucile
SECONDO IL SONDAGGIO “DEMOS”, IL SOSTEGNO NEI CONFRONTI DEL PRESIDENTE È CRESCIUTO DAL 2015 A OGGI, ED È TRASVERSALE ALL’ETÀ E AL CREDO POLITICO
In Italia, un Paese per molti versi diviso, c’è un riferimento condiviso. Oltre ogni distinzione. Politica, sociale, territoriale. È il Presidente Sergio Mattarella. In un recente sondaggio, condotto da Demos per Repubblica, ha raggiunto un grado di consenso, fra i cittadini, ben più che maggioritario.
Quasi 3 italiani su 4, per la precisione: il 73%, infatti, esprimono nei suoi confronti “molta-moltissima fiducia”. Un sostegno larghissimo. Che non ha conosciuto flessioni significative, dopo la prima elezione, avvenuta nel 2015. Al contrario: è cresciuto. Soprattutto negli ultimi anni, fino a raggiungere il livello attuale.
D’altra parte, in Italia è, da tempo, diffusa la domanda di un(a) “leader forte”. Che dia un volto e un’identità alla politica. In tempi nei quali la politica è confusa. Senza veri riferimenti. O, al contrario, con troppi riferimenti. Troppi leader e troppi partiti, che vanno e vengono. Basta ricostruire quanto è avvenuto nell’ultimo decennio. Dopo il declino di Berlusconi e l’irruzione del M5S. L’anti- partito che ha occupato lo spazio dell’anti-politica.
Non sorprende, dunque, che oltre la metà degli italiani si dica d’accordo con l’elezione diretta del Presidente della Repubblica.
Tuttavia, il grado di consenso registrato da Mattarella, in questa fase, assume significati diversi. Risponde, anzitutto, alle divisioni fra le parti e i partiti. Tra maggioranza di governo e opposizione. Ma anche al loro interno. Nel “campo largo” dell’opposizione, in particolare, le distanze sono talmente “larghe” che è difficile trovare punti di incontro. Fra il Pd e il M5S, soprattutto. Mentre appaiono evidenti anche i contrasti nel Pd e nel M5S. Tuttavia, nella maggioranza ci sono distanze anche fra FdI e Lega. Ma sono evidenti anche le divisioni interne.
In particolare, nella Lega. Così diventano più chiare le ragioni della fiducia verso il Presidente Sergio Mattarella. Cresciuta, negli ultimi anni, quando la “paura del virus” ha spinto i cittadini alla ricerca di un riferimento comune. Per affrontare la sfida della pandemia, infatti, gran parte del Paese ha ri-scoperto la fiducia nello Stato e nelle sue istituzioni. E si è stretta intorno al Presidente.
È significativo, perfino sorprendente, in tempi di divisione e spaesamento, quanto la fiducia nei confronti del Presidente sia estesa e trasversale. Sul piano della posizione politica e di partito. Infatti, come emerge dal sondaggio di Demos per Repubblica , raggiunge i massimi livelli fra gli elettori del Pd e di FI. Nonostante la candidatura di Mattarella abbia prodotto lo strappo fra Berlusconi e Renzi.
Ma il Presidente raccoglie circa due terzi del consenso anche nella base degli altri partiti. Inoltre, è significativo come “attragga” componenti lontane e pressoché opposte, sul piano dell’età. Raggiunge, infatti, il grado di fiducia più elevato – quasi il 90% – fra coloro che hanno 65 anni e oltre. Seguono gli ultra 50enni.
Ma, subito dopo, a distanza, ci sono i più giovani. Con meno di 30 anni. Fra i quali la popolarità di Mattarella supera – di poco – il 70%. Piace, dunque, ai più anziani e ai più giovani. Insomma, in un Paese diviso, per certi versi, frammentato, il Presidente costituisce un riferimento. Di fronte ad ogni problema. Ad ogni emergenza. Senza protagonismo. Senza alzare la voce. E, probabilmente, la principale ragione della sua popolarità è proprio questa.
(da La Repubblica)
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Settembre 1st, 2023 Riccardo Fucile
GIORGIA MELONI ERA A CAIVANO, IN CAMPANIA, POI È VOLATA AD ATENE IN SERATA. A ESPRIMERE IL CORDOGLIO DELLO STATO CI HA DOVUTO PENSARE MATTARELLA (POI UNO SI CHIEDE PERCHÉ IL 73% DEGLI ITALIANI SI FIDA SOLO DI LUI)
Non è andato sul luogo della tragedia mentre ha preferito rimanere a Venezia per la seconda giornata del Festival del Cinema. Nella giornata dell’incidente mortale di Brandizzo, il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Matteo Salvini ha avuto altre priorità: dopo il red carpet di mercoledì sera, ieri mattina il leghista ha partecipato all’incontro organizzato dalla sottosegretaria Lucia Bergonzoni, sua compagna di partito, sull’iniziativa Cinema Revolution e sui dati dell’estate.
Mercoledì sera, invece, insieme alla compagna Francesca Verdini, il ministro e vicepremier aveva visto il film Comandante di Edoardo De Angelis con Pierfrancesco Favino: “È stato un orgoglio essere a Venezia, a una splendida prima di un bellissimo film che ho applaudito e a festeggiare un importante compleanno della Mostra”, ha spiegato il leghista.
(da il Fatto Quotidiano)
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Settembre 1st, 2023 Riccardo Fucile
PIU’ I PREZZI SI ALZANO, PIU’ INCASSA IL GOVERNO
I fondi a disposizione del governo Meloni per la manovra 2024 non abbondano, ma una mano potrebbe arrivare dai carburanti. Il prezzo di benzina e diesel continua infatti ad aumentare, così come le entrate per le casse statali da Iva e accise. Queste risorse saranno fondamentali in vista della legge di bilancio, su cui la stessa presidente del Consiglio ha già messo le mani avanti invitando a usarle con la “massima attenzione”.
La “doppia tassa” attiva sui carburanti in Italia darà una mano a mettere in piedi la manovra finanziaria
Il “tesoro” delle accise: ecco perché non si tagliano
Le accise sui carburanti sono una voce importante per il bilancio dello Stato. Nel 2022 il governo Draghi le aveva tagliate su benzina e diesel di oltre il 34 per cento – circa 25 centesimi al litro -, per far fronte agli aumenti dei prezzi causati dalla guerra in Ucraina. Costo: circa 7 miliardi di euro. Il governo Meloni ha prima ridotto e poi eliminato il taglio, ripristinando le “vecchie” tasse sui carburanti.
Dopo una discesa rispetto ai picchi del 2022, a metà 2023 i prezzi sono tornati a salire e il governo si è concentrato su presunte “speculazioni” di mercati e benzinai, intervenendo con un decreto che obbliga le stazioni di servizio a esporre il prezzo medio della regione di appartenenza.
La misura non ha però impedito ai prezzi di aumentare e per questo si torna a parlare con insistenza di un nuovo taglio delle accise, una delle promesse elettorali più pubblicizzate del centrodestra.
(da Today)
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Settembre 1st, 2023 Riccardo Fucile
IL NUOVO MACHISMO POLITICO E’ INDIFFERENTE ALL’EDUCAZIONE
Joe Formaggio (non è un nome d’arte, si chiama veramente così) è un esponente veneto di Fratelli d’Italia, appassionato di mitragliette. Lo indispone vedere africani per le strade, vuole un Veneto di soli bianchi e lo dice serenamente.
Stefano Bandecchi, imprenditore, ex parà, è sindaco di Terni, diventato celebre per lo sputo punitivo nei confronti degli ultras della Ternana (roba sua) e per le varie minacce verbali disseminate lungo il suo impetuoso iter politico, “ti spacco i denti” la meno irriferibile. La stazza fisica, di tutto rispetto, suggerisce di mantenere le distanze di sicurezza.
L’idea che le leggi — quelle vecchie e quelle nuove — bastino a tenere a freno gli intemperanti, i prepotenti, i razzisti e le altre numerose genie di sopraffattori, temo sia illusoria: lo dico anche in relazione all’intenzione del Pd di presentare in Parlamento l’ennesima legge antifascista e antirazzista — come se non bastasse il fallimento delle precedenti.
C’è da ristabilire, quasi da zero, una specie di pedagogia della convivenza che prescinde perfino dalle questioni ideologiche (pure importanti).
Il nuovo machismo politico oggi in circolo, metà ridicolo metà orrendo, ben prima che indifferente ai diritti è indifferente all’educazione.
Ci sono cose che non si fanno e non si dicono perché a farle, e a dirle, è l’incivile, il cafone al cubo, quello che ingombra la scena e rovina la vita agli altri.
Se questa inibizione sfugge (e sfugge, ormai, a moltissimi), vuol dire che siamo, civicamente parlando, all’anno zero. Bisognerebbe mandare, a certe persone, non l’ufficiale giudiziario, ma una maestra elementare che gli dica: su, venga con me, non si spaventi, sono qui per aiutarla. Cominciamo dall’Abc.
(da La Repubblica)
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Settembre 1st, 2023 Riccardo Fucile
RIGIDITA’ E MANIPOLAZIONE NON MIGLIORANO LA NOSTRA DEMOCRAZIA
Nel programma elettorale di Fratelli d’Italia si trova la proposta del presidenzialismo. Poi, talvolta, Giorgia Meloni si è espressa senza precisione a favore del molto diverso semipresidenzialismo francese. Adesso sembra che il Ministro per le Riforme Istituzionali Maria Elisabetta Alberti Casellati abbia pronta una bozza che configura una forma finora ignota di Premierato.
L’unico elemento che accomuna presidenzialismo, semipresidenzialismo e premierato all’italiana è l’elezione popolare diretta del capo dell’Esecutivo (nel premierato il Primo ministro) che implica la trasformazione della forma italiana di governo dal parlamentarismo ad un generico presidenzialismo.
Non ho abbastanza informazioni per discutere la bozza Casellati. Mi propongo di farlo a suo tempo. Tuttavia, non poche indiscrezioni suggeriscono che a suo fondamento sta il disegno di legge di revisione costituzionale intitolato “Disposizioni per l’introduzione dell’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei ministri”, primo firmatario Renzi. Un inedito “presidenzialismo” ne sarebbe l’esito concreto.
I firmatari preferiscono sostenere che si propongono il passaggio dalla democrazia rappresentativa ad una non meglio definita democrazia decidente. Questa aggettivazione, sostanzialmente assente nella discussione e nelle analisi delle democrazie realmente esistenti, fu ampiamente propagandata, fra gli altri dall’ex presidente della Camera dei deputati Luciano Violante, dai sostenitori del referendum costituzionale del 2016 poi sonoramente bocciato dagli elettori.
Per definire la sua proposta costituzionale in numerose occasioni, per lo più senza essere contrastato e corretto, Renzi ha fatto ricorso alla nient’affatto originale espressione Sindaco d’Italia, inventata più di dieci anni fa da Mario Segni e mai precisata. Non approfondisco il problema, che dovrebbe immediatamente apparire evidente, della differenza enorme fra governare un comune e governare una nazione (sic).
Non faccio neppure riferimento al fatto che, utilizzata tre volte in Israele, l’elezione popolare diretta del Primo ministro è stata poi abbandonata. Mi limito, invece, a analizzare il disegno di legge Renzi et al. nelle sue carenze e nelle sue implicazioni. Della carenza più flagrante i proponenti sono consapevoli e lo dichiarano.
Nel disegno di legge dedicato all’elezione del capo dell’esecutivo manca qualsiasi indicazione concernente, non dirò la legge elettorale (meno che mai l’improponibile semi-incostituzionale Italicum), ma il meccanismo con il quale quel capo sarà eletto. Peraltro, se all’origine stanno le modalità con le quali vengono eletti i sindaci dei comuni al di sopra dei 15 mila abitanti, quella legge la conosciamo: vince al primo turno il candidato/a che ottiene il 50 per cento più uno dei voti espressi altrimenti passano al ballottaggio le due candidature più votate. Importante è ricordare che i vincenti hanno diritto al 60 per cento dei seggi nel consiglio comunale. Si pone qui il problema dell’attribuzione di questo premio di maggioranza in una situazione di Parlamento bicamerale.
Dal testo del disegno di legge sembra potersi dedurre che l’elezione del Presidente del Consiglio, pur contestuale a quella delle Camere, sarà separata, immagino su una scheda apposita sulla quale con ogni probabilità dovranno apparire i simboli dei partiti che lo sostengono.
L’eletto/a nominerà i ministri e avrà il potere di revocarli. Potrà essere sfiduciato dalle Camere. In caso di «dimissioni, morte o impedimento permanente», il Presidente della Repubblica «scioglie le Camere».
In maniera data sostanzialmente per scontata (as a matter of fact direbbero gli anglosassoni), vengono colpiti i due più importanti poteri costituzionali del Presidente della Repubblica italiana: la nomina del Presidente del Consiglio e, su proposta di questo, dei ministri (art. 92) e lo scioglimento (oppure no) del Parlamento (art. 88). Nelle circostanze sopra elencate sarà obbligo costituzionale del Presidente sciogliere il parlamento. Perderà qualsiasi discrezionalità e qualsiasi ruolo configurabile nell’ambito dei “freni e contrappesi” di cui una democrazia liberal-costituzionale ha assoluta necessità e sui quali poggiano la sua democraticità e la sua flessibilità.
DUE CRITICHE
In attesa di conoscere i cruciali meccanismi con il quale il capo del governo sarà eletto/a, due rilievi fortemente critici sono già formulabili. Il primo attiene alla rigidità del modello previsto contro la flessibilità delle forme di governo parlamentare che consente loro di affrontare situazioni politicamente, socialmente, economicamente emergenziali.
Il secondo è che il modello non garantisce affatto né decisionalità né governabilità, entrambe, affermerebbe il grande politologo Giovanni Sartori, derivanti più dalle qualità del personale politico che da scelte e strumenti istituzionali, ma soprattutto comporta il rischio dello stallo, dell’immobilismo.
Per evitare lo scioglimento automatico, Presidente del Consiglio, parlamentari e partiti cercheranno regolarmente il minimo comun denominatore o il “nessun” comune denominatore, preferendo l’indecisione allo scioglimento. Dominus, però, sarà sempre il Presidente del Consiglio che avrà la possibilità di scegliere il momento migliore per lui e per il suo partito nel quale (ri)chiamare alle urne l’elettorato.
Concludendo, nei termini nei quali è descritta nel ddl Renzi et al. l’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei ministri implica tre conseguenze a mio parere molto negative. Primo, sterilizza il Presidente della Repubblica strappandogli qualsiasi possibilità di essere e agire come “freno e contrappeso” al Presidente del Consiglio. Secondo, esalta in misura non valutabile il Presidente del Consiglio e il suo potere sulla sua stessa maggioranza e sul Parlamento. Terzo, irrigidisce la forma di governo in maniera esagerata e probabilmente controproducente.
Rigidità e manipolazione vanno di pari passo e non comporterebbero in nessun modo un miglior funzionamento del sistema politico e della democrazia. Se la bozza Casellati si muove secondo le direttive renziane parte molto male.
(da editorialedomani.it)
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