Settembre 28th, 2023 Riccardo Fucile
UNIONE CONSUMATORI: “UNO SPETTACOLO SCADENTE, E’ UN PATTO SENZA OBBLIGHI E NON VINCOLANTE”… ESILARANTE LA FRASE “PER ONORARE LA FESTIVITA’ RELIGIOSA DEL NATALE”: MA CHE C’ENTRA IL NATALE, PER I CREDENTI NON E’ CERTO UNA FESTA CONSUMISTICA, FATE GLI INTEGRALISTI CATTOLICI E POI PENSATE AD ABBUFFARVI?
Un ipotetico impegno a scontare del 10% prodotti alimentari e beni di prima necessità. Dovrebbero aderirvi circa 25 mila punti vendita, in tutta Italia, per una durata di tre mesi. Si parte il primo ottobre e, parola di Giorgia Meloni, «se l’esperimento funzionerà bene lavoreremo tutti quanti per prolungare questa iniziativa».
A Palazzo Chigi, a firmare il cosiddetto patto anti-inflazione, c’è la presidente del Consiglio, il ministro delle Imprese Adolfo Urso e a quello dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida. Con loro, i rappresentanti delle 32 associazioni aderenti all’iniziativa. È un protocollo che si basa sulla buona volontà di produttori, distributori ed esercenti.
Se un solo componente dell’intera filiera venisse meno all’impegno e alzasse il prezzo nel proprio passaggio del prodotto, lo sconto finale sarebbe vanificato.
Anche per questo motivo Meloni parla di sperimentazione: a gennaio, si valuterà se effettivamente i cittadini abbiano beneficiato delle riduzioni dei prezzi su pasta, carne, passata di pomodoro, zucchero, latte, uova, riso, sale, farina, cereali, saponi, detergenti, pannolini e farmaci di largo consumo.
In concomitanza con la firma del protocollo, Urso ci tiene a sottolineare altri due aspetti. Il primo ha a che fare anche lo sfera religiosa: «È importante che inizi domenica – primo ottobre – e che comprenda l’intero periodo natalizio, per onorare una festività religiosa a cui siamo particolarmente attenti». L’altro punto toccato da Urso riguarda l’inserimento del progetto «in un obiettivo più ampio che il governo si è dato fin dall’inizio della legislatura».
Ovvero, abbattere l’inflazione, che «si è ridotta alla metà rispetto a quella che abbiamo ereditato, in Italia più di quanto si sia ridotta nell’Ue e in Francia e Germania».
Unione nazionale consumatori: «Uno spettacolo scadente»
Non usa mezzi termini Massimiliano Dona, presidente dell’Unione nazionale consumatori. Definisce l’intera iniziativa «uno spettacolo scadente». E prova a sbugiardare l’entusiasmo del ministro Urso: «Si tratta di un patto senza obblighi, in cui ci si appella al buon cuore di chi lo ha sottoscritto, perché diventi più buono. Un fioretto in previsione del prossimo Natale. Una presa in giro per le famiglie che faticano ad arrivare a fine mese: ci si approfitta del fatto che a ottobre dello scorso anno si era raggiunto il record dell’inflazione, +11,8% contro il +5,4% tendenziale di agosto 2023, meno della metà, per poter cantare vittoria e gridare al successo del trimestre anti-inflazione, dato che, nel confronto tra ottobre 2023 e ottobre 2022, sarà inevitabile un crollo dell’inflazione. Ma si tratterà solo di un effetto ottico dovuto alla matematica».
(da agenzie)
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Settembre 28th, 2023 Riccardo Fucile
NEL PRIMO SEMESTRE DEL 2023, FACEBOOK HA SEGNALATO CHE CIRCA UN TERZO DELLE NOTIZIE FALSE IN EUROPA SI TROVAVA SULLE BACHECHE ITALIANE… NON A CASO IL 45% CREDE ALLE BALLE DEI SOVRANISTI
Un triste primato che deve far riflettere. I social network italiani sono in cima alla classifica della diffusione di fake news. ]Infatti, nel corso del primo semestre di quest’anno, Facebook Italia ha condotto una vera e propria battaglia contro la disinformazione, eliminando più di 45 mila contenuti considerati dannosi
Circa il 33% del materiale fake in circolazione su Facebook era dunque concentrato in Italia. Nessuno risulta esposto come gli italiani.
Rilevante il primato italiano anche per quanto riguarda TikTok: 1.334.235 account falsi e dunque disattivati, 300mila in più di quelli disabilitati in Spagna e Germania. È il numero più alto di tutta Europa. Questi account non collegati a persone realmente esistenti o riconducibili a persone registrate sotto mentite spoglie in Italia catturavano.
Questi dati sono stati diffusi dopo la prima pubblicazione semestrale dei rapporti delle grandi piattaforme online (Google, Meta, Microsoft, TikTok), documenti con i quali esse hanno dimostrato il loro impegno per ridurre la diffusione della disinformazione.
Anche X, l’ex Twitter di Elon Musk, pur non essendo tra i firmatari del Codice Ue di buone pratiche sulla disinformazione, è assoggettato a vincoli precisi per quanto riguarda la rimozione di contenuti, secondo ciò che prevede la nuova regolamentazione del Digital Services Act, che dal 25 agosto si applica a tutti i giganti della Rete e dal prossimo febbraio conoscerà una applicazione generalizzata al mondo del web e dei social.
I prossimi report, attesi per l’inizio del 2024, verteranno anche sull’informazione politica, visto che si avvicinano le elezioni europee e il rischio di manipolazione delle opinioni attraverso la diffusione di false notizie è destinato a crescere a dismisura.
Le elezioni del 2024 saranno in questo senso un altro banco di prova, anche per l’avvento dell’intelligenza artificiale che, semplificando la generazione di immagini false, aumenta l’apprensione riguardo all’incremento della disinformazione nelle prossime campagne elettorali. Tale preoccupazione è così significativa che Google sta pianificando l’introduzione di requisiti per gli annunci politici sulle sue piattaforme, richiedendo la chiara indicazione quando immagini, audio o testi sono stati generati tramite l’uso dell’intelligenza artificiale.
In tale preoccupante contesto, l’importanza di valorizzare l’informazione di qualità rendendola sempre più facilmente riconoscibile e accessibile in Rete chiama in causa gli sforzi dei produttori di news come i giornalisti, affinchè siano sempre più scrupolosamente rispettosi della loro deontologia professionale, e l’impegno delle piattaforme web e social affinchè collaborino fattivamente e costantemente nelle azioni di contrasto alle fake news.
(da agenzie)
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Settembre 28th, 2023 Riccardo Fucile
ESILARANTE PIANTEDOSI CHE PARLA DI “AZIONI DINAMICHE” DEI MILITARI: FARANNO LE FLESSIONI NELL’ATRIO DELLE STAZIONI O I PARA’ DI VANNACCI SCENDERANNO DAL CIELO?… IN ITALIA ABBIAMO GIA’ 324.000 ADDETTI ALL’ORDINE PUBBLICO
Dietro front! Giorgia Meloni annulla la ritirata parziale di Mario Draghi e manda altri soldati di pattuglia lungo la Penisola. Il precedente esecutivo aveva tagliato le ronde metropolitane da 7800 a cinquemila militari. Quello di destra, non riuscendo a rendere concreto un cambiamento sul fronte della sicurezza, rispolvera gli slogan di legge e ordine tirando fuori quattrocento militari dalle caserme.
La loro missione sarà quella di presidiare le “principali stazioni ferroviarie”, il che li renderà molto visibili agli occhi dei cittadini: un perfetto spot in tuta mimetica.
E il ministro dell’Interno Piantedosi, per niente preoccupato dal dovere chiedere una supplenza dell’Esercito, ha aggiunto una frase ad effetto: “Verrà impiegato non più in forma solo statica, ma anche dinamica, per esercitare al meglio la funzione operativa e di deterrenza”. Cosa significhi la “forma dinamica” è oscuro. Ci saranno grandi manovre a Termini? I parà lanceranno raid a Santa Maria Novella? I bersaglieri scateneranno la controffensiva alla Centrale di Milano?
Il titolare della Difesa Guido Crosetto sostiene che “questa decisione testimonia l’impegno a fornire risposte concrete alle esigenze del Paese”. Quindi l’Italia dopo un anno di Meloni sente più bisogno di sicurezza? E in che misura le quattro centurie daranno “risposte concrete”?
Per coprire una giornata, perché le grandi stazioni vanno vigilate soprattutto dopo il tramonto, servono tre turni di otto ore. Contando ferie e riposi, quindi, si potranno schierare poco più di cento fanti per volta ossia circa cinquanta pattuglie divise tra una dozzina di infrastrutture ferroviarie. Uomini e donne in divisa molto motivati, ma potranno mai essere loro a fare la differenza
Nelle città ci sono già cinquemila militari. Ma soprattutto l’Italia ha uno dei primati europei per numero di operatori delle forze dell’ordine. La polizia di Stato ne conta 98 mila; 107 mila i carabinieri; 64 mila la Guardia di Finanza; 60 mila gli agenti di polizia locale, quelli che una volta venivano chiamati vigili urbani; 38 mila della polizia penitenziaria; 11 mila della Guardia Costiera, che in base all’ultimo decreto potrà occuparsi pure dei centri migranti; 6.800 i carabinieri forestali. In totale si tratta di oltre 324 mila uomini e donne: un dato che permette di comprendere quanto sia limitato il contributo dei rinforzi mandati nelle stazioni.
A parte le valutazioni sull’incisività del nuovo battaglione, l’operazione “Strade Sicure” pone due questioni molto più profonde. La prima è di natura istituzionale: la nostra è l’unica democrazia del pianeta a schierare i militari non per fronteggiare una minaccia terroristica o mafiosa, ma per controllare la delinquenza spicciola.
Nel resto d’Europa i soldati hanno cominciato a pattugliare piazze e binari solo per impedire attentati jihadisti: una mobilitazione che ha toccato l’apice nel 2016 con gli assalti dell’Isis a Parigi, Bruxelles, Nizza, Berlino e Barcellona mentre adesso questa presenza sta venendo progressivamente ridotta. In Sud America si impiegano le forze armate contro i narcos, come avvenne in Sicilia nel 1992 con l’intervento dell’Esercito per contrastare lo stragismo di Cosa Nostra. Ora Stato Islamico e Al Qaeda non paiono più in grado di colpire in Occidente e – grazie anche alla prevenzione di intelligence e corpi di polizia – da noi non sono mai riusciti a farlo. E quindi a che serve “Strade Sicure”? Come ha ribadito ieri il governo Meloni, è un deterrente contro la piccola criminalità: alpini, parà, granatieri per tenere lontani scippatori, ladruncoli e quell’onda di devianza sociale che si riversa sempre più sulle stazioni ferroviarie, ultima tappa di una via crucis della disperazione.
“Il controllo del territorio e dell’ordine pubblico – aveva dichiarato nell’aprile 2022 l’allora ministro della Difesa Lorenzo Guerini – è compito delle forze dell’ordine, su questo dobbiamo stare molto attenti. Io sto ricalibrando insieme al capo della polizia il dispositivo di “Strade Sicure”: da 7.800 scenderemo a cinquemila. Non lo faccio perché voglio essere reticente a dare un aiuto, ma perché le cose vanno ricondotte nel loro alveo più ordinario e vero”. Ricorrere ai soldati per affrontare la microcriminalità trasmette un segnale sinistro sulla credibilità e la tenuta delle istituzioni democratiche. È un mondo all’incontrario, per citare il generale Vannacci, in cui mandiamo professionisti della Difesa, addestrati per anni al mestiere delle armi, a inseguire i delinquenti.
E qui si introduce la seconda questione. Il conflitto in Ucraina ha imposto la necessità di riformare le forze armate e aumentarne gli organici per misurarsi con la ricomparsa degli scenari di guerra totale. E il personale che viene spedito nelle città non può completare la formazione specifica per svolgere il suo ruolo in battaglia: fino al governo Draghi, per anni l’Esercito ha dovuto destinare a “Strade Sicure” quasi il 15 per cento dei ranghi. Spesso sono state impiegate quelle specialità che non erano in prima linea nelle missioni di pace all’estero – come carristi, artiglieri, contraera, trasmissioni – ma che dopo l’Ucraina sono tornate protagoniste degli scenari bellici. È un tema sottolineato più volte da generali e ammiragli nelle audizioni in Parlamento.
Argomenti di cui il vicepremier Salvini però non si cura: “Meno criminalità e violenza, più controlli e sicurezza: avanti così”. E dichiara che “Strade Sicure” è “stata cancellata in questi anni dalla sinistra”. Una considerazione falsa: è stata soltanto ridotta dal governo Draghi, di cui anche la Lega faceva parte. E negli scorsi dodici mesi neppure Salvini ha sentito l’urgenza di rinforzarla. Ma ora si avvicinano le elezioni e una manciata di soldati in più diventano un’ottima propaganda, una sorta di manifesto in carne e ossa della destra al potere.
(da La Repubblica)
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Settembre 28th, 2023 Riccardo Fucile
IL RESTO È UN GIOCO DI PRESTIGIO, GRANDI TITOLI, MOLTA ENFASI, SOLDI MESSI DI QUA E TOLTI DI LÀ, PERDITE DI TEMPO E PURE DI DENARO… IL FONDO SOVRANO NAZIONALE FATTO SALTARE, LA FUFFA DELLA GIORNATA NAZIONALE, I DOMINI INTERNET E IL CONTRASSEGNO PER I RISTORATORI ITALIANI ALL’ESTERO
L’opera più concreta e tangibile del ministero del Made in Italy, introdotto un anno fa dal governo di Giorgia Meloni e assegnato al rodato Adolfo Urso, è la targa in marmo Made in Italy apposta all’ingresso del ministero in via Veneto che fu di Benito Mussolini.
Il resto è un gioco di prestigio, grandi titoli, molta enfasi, soldi messi di qua e tolti di là (e diteci se non è Made in Italy!), una manciata di burocrazia, certificati, attestati, perdite di tempo e, chissà, pure di denaro. Le ultime notizie – le relazioni, i rimandi, i cavilli e il pregevole documento dei servizi studi di Camera e Senato – rendono più comprensibile il disegno del governo.
Lo sforzo maggiore è per il Fondo Sovrano Nazionale. Si abbonda: sovrano e nazionale. Questo Fondo con la maiuscola dovrebbe «sostenere la crescita e consolidare le filiere strategiche, il tessuto economico industriale, l’approvvigionamento di materie prime».
Per offrirvi un contesto di riferimento sui fondi, europei: la Danimarca ha 4 miliardi di dollari, la Grecia 8, la Spagna 15, la Germania 25. E il governo Meloni ha stanziato un miliardo di euro. Obiezione accolta: è la genesi, è l’istituzione, è l’atto di nascita. Però l’Italia non dispone neppure di queste risorse.
Per dire di un Paese che non sa pensarsi oltre le 24/48 ore: il Fondo per gli Investimenti fu creato cinque anni fa con una dotazione minima, poi ampliata nel ’20 e, mentre esplicita la sua funzione, viene di fatto soffocato.
Con il denaro che costa di più, l’inflazione non ancora sotto controllo, il Prodotto Interno Lordo in flessione, non è il momento più adatto per allestire un Fondo Sovrano Nazionale sensato e soprattutto utile. E questo è il progetto più meditato.
La giornata nazionale del Made in Italy, a suo modo, e non è un bel modo, è ben rappresentativa del Made in Italy. Ha lo stesso valore del liceo del Made in Italy, nessuno, e però si ammanta di tratti di involontario umorismo.
Il governo ha indetto la giornata nazionale del Made in Italy per il 15 aprile di ogni anno e ha ordinato la mobilitazione di regioni, province, comuni . Attenzione alla postilla di un comma: «Non determina gli effetti civili di cui alla legge 260 del ’49». È una festa senza festivo, una giornata straordinaria senza straordinari in busta paga, è una chiamata di partecipazione collettiva senza nuovi oneri a carico della finanza pubblica.
Un’altra epica battaglia del governo Meloni è quella rivolta al «rafforzamento della tutela dei domini Internet riferiti al patrimonio culturale». Per la serie: spezzeremo le “reti” a questa Internet. […] È un gioco, tipo il gioco del solletico. Il ministero della Cultura, in sintesi, può stipulare protocolli per ripristinare l’ordine digitale. Giù le mani dal punto it! Nota bene: neanche un euro in più di spesa.
Al ministro Gennaro Sangiuliano è affidata una seconda missione: «La valorizzazione e la tutela del patrimonio culturale immateriale». Dinanzi a cotanta impresa, tuttavia, Sangiuliano è coadiuvato dal collega Francesco Lollobrigida, ministro dell’Agricoltura e della Sovranità Alimentare e delle Foreste.
In questa apoteosi di sovranità, in cosa dovranno cimentarsi Sangiuliano e Lollobrigida? Ah saperlo.
Il governo è innanzitutto impegnato a «perimetrare» il patrimonio culturale immateriale ispirandosi alla convenzione di Parigi di vent’anni fa: «S’intendono le espressioni, gli strumenti, gli oggetti, i manufatti che le comunità e i gruppi e in alcuni casi gli individui riconoscono parte del loro patrimonio culturale». La tensione filosofica è massima, quella finanziaria inesistente: Sangiuliano e Lollobrigida, fate come vi pare, ma soldi non ce ne sono.
Il «contrassegno per il Made in Italy» e la «valorizzazione delle pratiche tradizionali e del paesaggio rurale» sono di notevole inventiva come le «Imprese del made in Italy nel mondo virtuale e immersivo», ma la «certificazione di qualità della ristorazione italiana all’estero» è imbattibile. Inarrivabile. Trascendente.
Il governo vorrebbe concedere «ai ristoratori che operano all’estero e i cui esercizi commerciali offrono prodotti enogastronomici tradizionali italiani, la possibilità di ottenere la certificazione distintiva di “ristorante italiano nel mondo”. Tale riconoscimento e finalizzato a valorizzare e sostenere gli esercizi di ristorazione italiana nonché a contrastare l’utilizzo speculativo dell’Italian sounding».
Il governo vorrebbe eliminare o quantomeno ridurre lo spaesamento degli italiani che vogliono mangiare italiano all’estero o dei turisti/autoctoni che pensano di mangiare italiano all’estero. È una lotta senza confini all’appropriazione indebita di «cucina italiana».
Alle pizze con la frutta di stagione. Agli spaghetti che non si arrotolano alla forchetta. Il governo smania per compilare una lista di ristoranti veramente italiani, una guida alla crescentina e alla genovese come mai vista. Le regole sono molto severe, rigide, per nulla Made in Italy.
«la suddetta certificazione e rilasciata, su istanza del ristoratore e previa verifica di determinati requisiti, da un ente certificatore accreditato presso l’organismo unico di accreditamento nazionale italiano, sulla base di una tariffa approvata e di un disciplinare adottato con decreto del ministro dell’Agricoltura, del ministro degli affari Esteri di concerto con il ministro dell’Economia, il ministro del Made in Italy, il ministro della Salute, il ministro del Turismo.
Il suddetto decreto individua anche i requisiti e le specifiche per il rilascio della certificazione stessa, con particolare riferimento all’utilizzo di ingredienti di qualita e di prodotti appartenenti alla tradizione enogastronomica italiana». Una trafila complessa, sei ministri coinvolti. (Sangiuliano risparmiato).
La stesura della Costituzione fu più semplice. Al dunque i servizi studi di Camera e Senato obiettano: «Si osserva che la disposizione in commento non chiarisce quale sia l’organismo deputato a rilasciare la suddetta certificazione e se tale organismo sia già esistente o da istituirsi». Che importa.
La carovana di assaggiatori del governo Meloni è pronta a inforcare le bici per un giro verneriano. Per multare quelli che mangiano la pasta con la maionese. Per salvare le parmigiane dall’ordalia salutista. Per risparmiare al cosciotto di agnello l’onta dei vegani. Amanti del bicchiere di vino con un panino, seguaci del raviolo ripieno alla domenica, cultori del polpo cotto nell’acqua sua di tutto il mondo, unitevi.
(da L’Espresso)
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Settembre 28th, 2023 Riccardo Fucile
LA GERMANIA METTE ALL’ANGOLO L’ITALIA SU ACCOGLIENZA MIGRANTI E RISPETTO DELLE ONG
Nuovo stop ai negoziati tra i governi Ue sul regolamento per le situazioni di crisi, l’ultimo che manca per completare il Patto migrazione e asilo. In linea con l’annuncio fatto ieri dal cancelliere Olaf Scholz, la Germania – che a luglio aveva bloccato l’intesa – oggi ha confermato il suo via libera al testo di compromesso presentato dalla presidenza spagnola.
Ma le concessioni fatte a Berlino non sono andate giù al governo italiano che non ha dato per ora il suo assenso.
Durante la sessione dedicata ai negoziati sul Patto, il ministro Matteo Piantedosi non è intervenuto e poco dopo ha lasciato anzitempo il Consiglio di Bruxelles per rientrare a Roma.
La palla ora passa nelle mani degli ambasciatori che dovranno trovare un’intesa, ma nessuno è disposto a scommettere su un esito positivo a breve. Il titolare del Viminale “ha preso del tempo per esaminare il testo a livello giuridico” ha spiegato il suo collega Antonio Tajani, a Berlino per incontrare la collega tedesca Annalena Baerbock.
Sarebbero due in particolare gli emendamenti introdotti da Madrid per andare incontro alle richieste del governo tedesco, e in particolare ai Verdi, che si stanno rivelando indigesti per il governo Meloni.
Nella bozza di compromesso discussa questa mattina dal gruppo di lavoro sugli Affari Interni – che “La Stampa” ha potuto visionare – è stato cancellato per intero l’articolo 5 del regolamento. Il testo precedente prevedeva infatti la possibilità di derogare agli standard previsti sulle condizioni di accoglienza in caso di forti flussi di migranti, un’opzione fortemente voluta dal governo italiano, ma duramente contestata dai Verdi tedeschi. La presidenza spagnola ha deciso di depennare l’intero articolo, scontentando così Piantedosi.
Inoltre è stato specificato, nero su bianco, che i casi di “strumentalizzazione” dei migranti non potranno essere estesi alle “operazioni di aiuto umanitario”.
Il che significa che le navi delle Ong che fanno attività di ricerca e soccorso non potranno essere accusate di “strumentalizzare” i migranti per destabilizzare un Paese. Anche in questo caso, l’aggiunta è stata letta come una concessione a Berlino e come un dito negli occhi all’Italia proprio nei giorni in cui è in corso uno scontro tra i due governi sul finanziamento tedesco alle organizzazioni non governative.
(da La Stampa)
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Settembre 28th, 2023 Riccardo Fucile
IL COORDINATORE PROVINCIALE LO HA PRIMA SCONFESSATO (“DICHIARAZIONI NON IN LINEA CON IL PARTITO”) E POI HA COMMISSARIATO IL CIRCOLO
Un post su Facebook è costato la sospensione al presidente del circolo di Fratelli d’Italia di Saluzzo. Sul suo profilo social, Mario Pinca ha affiancato l’annuncio della morte del presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano e quella del boss mafioso Matteo Messina Denaro, commentando: «Quindi l’anno si può dichiarare concluso nel migliori dei modi».
«Pinca ha fatto dichiarazioni che non sono in linea col partito» osserva il coordinatore provinciale William Casoni, che ha disposto il commissariamento del circolo e la sospensione dell’iscritto: su eventuali altri provvedimenti decideranno gli organi nazionali di FdI.
«Ho sbagliato e me ne assumo tutta la responsabilità» commenta il diretto interessato, precisando: «Il post comunque non l’ho scritto io, è mio nipote che ha usato il mio cellulare».
(da agenzie)
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Settembre 28th, 2023 Riccardo Fucile
“GRATI ALLA GUARDIA COSTIERA ITALIANA E ALLE ONG, L’IMPORTANTE E’ SALVARE VITE UMANE”
Dati alla mano, la Germania non le manda a dire. In una conferenza stampa tenuta a Berlino insieme al vicepremier Antonio Tajani, la ministra tedesca degli Esteri, Annalena Baerbock, ha voluto mettere i puntini sulle i dopo le lamentele dell’Italia sul finanziamento di Berlino ad alcune ong che operano nel Mediterraneo.
“Ogni vita umana conta” tra chi cerca di attraversare il Mediterraneo. Tante persone vengono salvate e “quasi il 95%” delle persone salvate che arrivano in Italia lo sono grazie alle navi delle autorità italiane, questa “è un’attività umanitaria molto importante di cui siamo grati“. Nondimeno, anche chi fa salvataggi in mare volontariamente con navi civili, però, va dato un contributo e “la loro attività ha quindi il nostro appoggio”, ha aggiunto la ministra del governo Scholz, che aveva promesso una risposta alla lettera inviata dalla premier Giorgia Meloni. Seppure in modo cordiale, Meloni aveva chiesto chiarimenti al cancelliere in merito ai fondi per le ong, paventando una “moltiplicazione degli arrivi” spinta dalla presenza delle navi umanitarie nel Mediterraneo Centrale.
La risposta di Berlino affidata a Baerbock smentisce proprio la teoria del cosiddetto pull-factor, secondo la quale la presenza in mare delle ong costituisce un fattore di attrazione per i viaggi dei migranti e una variabile della quale gli stessi trafficanti tengono conto, con effetto moltiplicatore sulle partenze. Le percentuali citate dalla ministra tedesca davanti a Tajani sono quelle ufficiali e prendendo in considerazione i dati del Viminale. Nei primi sette mesi del 2022, quando non era in vigore il decreto Cutro che ha inasprito le regole e complicato l’attività delle ong, da gennaio a luglio sono sbarcate poco più di 47mila persone, di cui 19mila soccorse dalle autorità italiane e 6.224 dalle ong, il 15%. Le altre 22mila sono invece persone approdate autonomamente. Nel 2023, nonostante lo stesso periodo abbia registrato oltre 68mila persone soccorse, quelle sbarcate da una nave umanitaria sono appena 3.777, il 4,24%. Con 64mila salvataggi operati dalle autorità e 24mila approdi autonomi.
(da Il Fatto Quotidiano)
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Settembre 28th, 2023 Riccardo Fucile
“NON ERA IL CASO DI IMPOSTARE UNA LEGGE DI BILANCIO IN DEFICIT, NON SIAMO CREDIBILI IN EUROPA”
«Purtroppo è una delusione. Certo, non ha sbancato i conti ma non era il caso di impostare una manovra in deficit, oltretutto in un momento in cui bisogna dimostrare all’Europa di saper essere rigorosi».
Carlo Cottarelli, economista attento e obiettivo, analizza la Nadef e trae un giudizio negativo «con una parziale attenuante: il calo del Pil per quest’anno dall’1 allo 0,8%. Peraltro, non sono sicuro che si riesca a rispettare la previsione dell’1,2% nel 2024».
Il calo del Pil basta a giustificare l’esplosione del deficit?
«Il governo ha dovuto “gonfiare” il deficit per mantenere almeno qualche promessa come il taglio del cuneo. Ne risulta però aggravata la posizione relativa del Paese nel momento in cui è ultimo in Europa come spread e costo del debito. Sarebbe stato meglio iniziare a tempo dovuto un’attenta revisione della spesa, che avrebbe reso meno affannosa la rincorsa a caricare il disavanzo e un domani il debito, che per ora scende solo per l’inflazione. Una spending review triennale avrebbe cominciato già a dare frutti. Rispetto agli anni in cui ero commissario, esistono ancora sacche di improduttività da cui ricavare cifre superiori ai 300 milioni annunciati».
Pesante come un macigno, è decisiva la questione del superbonus?
«Due giorni fa Eurostat ha confermato per il 2023 la decisione presa all’inizio dell’anno: i debiti dei bonus vanno contabilizzati nell’anno di inizio dei lavori anziché spalmati lungo il periodo di ammortamento. Questo ha lavorato a nostro favore, consentendoci di alleggerire i deficit futuri appesantendo i bilanci ‘21 e ‘22. Anche il 2023 ha subito un pesante carico: ma per essere coerenti con gli obiettivi fissati da Draghi, rispondendo ai criteri di equità e rigore proclamati dal governo, si doveva stare entro il 3,7% anziché sforare tanto. Per l’anno prossimo c’era la possibilità di ridurre drasticamente il disavanzo, che invece è stato fissato ben sopra i limiti europei. I mercati fiutano l’aria di tensione e lo spread è in crescita».
Come finirà la partita del Patto di stabilità?
«Non ci presentiamo con le migliori credenziali. Sbaglia però chi dipinge un derby fra la posizione rigorista della Germania e quella flessibile della Commissione, una trattativa one-on-one per definire percorsi di rientro specifici per ogni Paese. Anche la Germania è pronta a un negoziato e si rende conto che non ha senso tornare all’antico dei numeri fissi e irrevocabili. Chiede solo che il negoziato per personalizzare il trattamento sia condotto entro certi binari, non una trattativa in libertà. Posizione ragionevole, a meno che i paletti siano troppo rigorosi».
C’è poi la discussione parallela sulle spese “deducibili”…
«Deve entrare nelle trattative. Piuttosto che avere un’esclusione di alcune spese direi che dev’essere tenuta in considerazione la qualità della spesa stessa per valutare il sentiero di riduzione del debito, sempre con precisi paletti. Se no si rischia di perdersi in una discussione su quali spese dedurre: serve una cornice entro cui muoversi».
Il Mes è un’arma negoziale?
«Non mi sembra opportuno impostare un do ut des di questo tipo. Sarebbe poi un’arma spuntata: la Germania non ha bisogno del Mes, una carta che avrebbe poco valore».
Si è parlato dell’ennesimo condono fiscale: che dobbiamo pensare
«Che andrebbe rivisto l’articolo 1 della Costituzione: l’Italia è una repubblica fondata non sul lavoro ma sui condoni. Sono trent’anni che combatto contro questo vizio malsano e forìero di evasione. Ma un po’ tutti i governi, con la sola eccezione a mia memoria dell’esecutivo Gentiloni, hanno fatto ampio ricorso ai condoni, chiamati nei modi più vari: scudo, sanatoria, pace fiscale».
(da agenzie)
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Settembre 28th, 2023 Riccardo Fucile
LO STATO RINUNCIA A CREDITI DOVUTI E I FESSI ONESTI PAGANO IL CONTO AI DISONESTI
Condoni, condoni, sempre condoni: In trent’anni sono costati all’Italia 107 miliardi di euro di mancato gettito e questo basterebbe a togliere dal tavolo ogni discorso riguardante nuove sanatorie indiscriminate e non rivolte ad alleviare evidenti stati di necessità o indigenza. La proposta di Matteo Salvini e della Lega di promuovere nuovi condoni arrivata al governo Meloni, di recente, ha riaperto un annoso dibattito. Salvini è partito dal tema del condono edilizio sul modello lombardo per il fronte del patrimonio immobiliare nazionale. L’idea è stata lanciata durante un intervento al convegno di Coordinamento legali di Confedilizia, l’associazione che rappresenta gli interessi dei proprietari di casa. Salvini ha dichiarato che un condono edilizio permetterebbe di mettere in regola “centinaia di migliaia” di costruzioni che non seguono le norme. L’obiettivo, secondo il leader leghista, è quello di portare più soldi nelle casse dello Stato, in vista della prossima manovra. Salvini ha sottolineato che le piccole irregolarità edilizie stanno intasando gli uffici tecnici dei Comuni di mezza Italia.
“Non sarebbe più saggio per quelle di piccole entità andare a sanare tutto quanto, così lo Stato incassa e i cittadini tornano nella disponibilità piena del loro bene?”, ha chiesto retoricamente il ministro. Anni di prassi insoddisfacente da parte di governi di ogni colore politico dovrebbero sconsigliare mosse del genere. Il mito dello Stato che incassa con i condoni va di pari passo con un’altra leggenda del nostro Paese: quello che vedrebbe un fisco attivo sul modello “Sheriffo di Nottingham”, salassatore implacabile e cinico. Tanto da avere almeno 1.100 miliardi di euro, più di metà del Pil, di crediti non riscossi. E lo “Stato che incassa” nei condoni è un “Giano Bifronte”.
A fianco del quale c’è lo Stato che rinuncia a incassare. Parlano i numeri. Nei condoni promossi nel trentennio successivo allo scandalo di Mani Pulite, che fece del tema della corruzione e del predominio dei “furbi” una questione nazionale, con punte di iconoclastia, le risorse a cui lo Stato ha rinunciato con i condoni promossi sono state molto di più di quelle incassate. Undici in trent’anni, dal governo Andreotti VI al governo Draghi, divenuto effettivo nel 2022, hanno fatto sì che “da strumento per gestire passaggi riformatori” queste misure divenissero “un mezzo per raccogliere risorse” e per “tagliare i ricorrenti nodi gordiani di un contenzioso periodicamente intasato”, ha scritto la Banca d’Italia in un report.
Tutti i condoni della Seconda Repubblica
107,7 miliardi di euro di risorse perdute contro 70,8 di incasso: l’Italia ha rinunciato a poco più del 60% delle risorse relative ai debiti oggetto di condono e solo in piccola parte (pensiamo al saldo e stralcio del Conte I) targettizati in termini di platea a cittadini con redditi bassi o a debiti limitati. In definitiva, dal 1992 a oggi abbiamo avuto quattro condoni fiscali propriamente detti: uno nel 1992 con Andreotti (5,9 miliardi di euro, al cambio attuale, di entrate contro 10,1 di risorse non incassate), uno nel 1995 pensato dal governo Berlusconi I e messo a terra dal governo Dini (2,2 miliardi di incasso, 3,8 di debiti condonati), il mini-condono di D’Alema nel 1998 (1,8 contro 2,6 miliardi) e, soprattutto, il maxi-condono del Berlusconi II nel 2003. Il condono del 2003 consentiva la regolarizzazione di tutti i reati tributari commessi fino al 31 dicembre 2002.
Il condono è stato molto controverso, in quanto ha consentito a molti contribuenti di evadere le tasse senza subire conseguenze. Altro che “fisco ladro”: il condono del Ministro dell’Economia Giulio Tremonti con un gettito mancato di 33,7 miliardi di euro è stato il più costoso per le casse nazionali e anche l’apologia dell’idea secondo cui “lo Stato incassa” garantendo entrate per 22,8 miliardi di euro. Un quinto tipo di manovra di questo tipo è stato il condono alle sanzioni sui debiti fiscali del 2021 promosso da Mario Draghi, che fece rinunciare a 3,6 miliardi di euro di risorse per far entrare nelle casse dello Stato 2,8 miliardi di euro. I governi Amato (1993), Berlusconi I (1994), Prodi I (1996) e Berlusconi II (2002) promossero quattro condoni edilizi per regolarizzare le opere realizzate in difformità dalle norme urbanistiche e/o edilizie, rendendole legali e sanando quote di sanzioni. Il gettito complessivo di questi quattro condoni è stato di 17,9 miliardi, ma lo Stato ne ha al contempo lasciate per strada, non incassate anche se dovute, ben 28,9 miliardi. E infine, “gemelli” nei condoni sono stati gli arcinemici Matteo Renzi e Giuseppe Conte. Il primo con la voluntary disclosure sul ritorno dei capitali “neri” all’estero in Italia previa sanzione nel 2015 (3,2 miliardi contro 4,8 di gettito perso), il secondo col citato saldo e stralcio del 2018 (2,5 contro 3,4)
L’analisi-autodenuncia di Tremonti sui condoni
Insomma, in Italia non c’è un condono in trent’anni che abbia fruttato più di quanto lo Stato abbia rinunciato a incassare. In sostanza sottraendo risorse ai cittadini: quattro manovre finanziarie, in termini di risorse, sono state sottratte per accattivarsi il voto dei furbi da parte di uno Stato inefficiente prima, perchè in difficoltà nell’incassare, e fesso poi, perchè chiamato a condonare.
“In Sudamerica il condono fiscale si fa dopo il golpe” per conquistare consensi ai nuovi regimi, mentre “in Italia lo si fa prima delle elezioni, ma mutando i fattori il prodotto non cambia: il condono è comunque una forma di prelievo fuorilegge”, sentenziava dalle colonne del Corriere della Sera Giulio Tremonti, allora economista socialista in rampa di lancio. Destinato poi a diventare tra Berlusconi I e II il “re” dei condoni della Seconda Repubblica. Tremonti rincarava la dose: promuovere massicciamente i condoni, come hanno fatto quasi tutti i governi alternatisi nel trentennio secondorepubblicano, significa difendere un “sistema smontato e rovesciato, in cui a dettare legge sono proprio i fatti fuorilegge, l’evasione e la furbizia”. Per Tremonti esagerare coi condoni vuol dire far sì “che il rapporto fiscale si basi su questa ragione pratica: farla franca, confusi tra milioni di evasori; farla lunga, coltivando con calma la lite; farla fuori, con poche lire di condono”. Vista col senno di poi, un’autodenuncia di un’intera classe politica che in nome della rapidità d’incasso ha sacrificato la rule of law e soldi decisivi per promuovere sanità, servizi, welfare, opere pubbliche e strategie industriali. Sic transit gloria mundi.
(da mowmag.com)
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