Settembre 10th, 2023 Riccardo Fucile
NON FATELO SAPERE A VANNACCI, LA NUOVA CAMPIONESSA ITALIANA DI BOXE NEI PESI LEGGERI È NERA E SI CHIAMA PAMELA MALVINA NOUTCHO… HA 31 ANNI ED È UN’INFERMIERA ALL’OSPEDALE MAGGIORE DI BOLOGNA – NATA IN CAMERUN, SI È TRASFERITA IN ITALIA A OTTO ANNI
«Non riesco ancora a credere di avere in mano la cintura. Sono campionessa». Può dirlo forte Pamela Malvina Noutcho Sawa, 31 anni, infermiera al Maggiore di Bologna, dopo aver battuto Nadia Flahi sul ring di Casoria al termine di dieci round tesissimi, nell’incontro per il titolo italiano dei pesi leggeri.
Un sogno realizzato partendo dalla palestra della Bolognina Boxe, zona Stalingrado, dove Pamela s’è allenata tutta estate col tecnico Alessandro Dané, in una città in vacanza.
Ma la sua storia comincia molto prima: i natali in Camerun, il trasferimento in Italia a otto anni con una parte della famiglia, la scuola e la laurea in infermieristica.
Nel 2015 Pamela s’innamora della boxe, sport che le darà l’occasione di denunciare gli ostacoli per ottenere la cittadinanza italiana (dal diritto di voto negato, all’impossibilità di accendere un mutuo nonostante la busta paga regolare).
«Sono una donna, sono nera, sono Pamela e sono italiana, e spero che un giorno ci sia un pezzo di carta che lo dica», aveva scandito in un video poco più di un anno fa, parafrasando il celebre comizio di Giorgia Meloni, e mettendo a nudo le contraddizioni del sistema italiano su cittadinanza e diritti. Nel 2022 è arrivato il documento tanto atteso.
«Io sono stata fortunata – raccontava – perché probabilmente la notorietà del mio caso mi ha favorito. Ma per molti ragazzi, figli di stranieri nati in Italia, non è così. È paradossale pensare che mio fratello, nato in Italia, non sia stato considerato fin da subito cittadino italiano. E che abbia dovuto fare una domanda per diventarlo».
La passione di Pamela per la boxe era nata solo otto anni fa, quasi casualmente: «Svolgevo un tirocinio in un centro per senza fissa dimora dove c’era una palestra. E dire che il pugilato non mi era mai piaciuto: quando in famiglia si guardava Rocky mi dicevano di cambiare stanza e questo mi faceva arrabbiare molto»
Pamela è anche la prima boxeur bolognese ad aver vinto per un titolo nazionale. Una rincorsa rapidissima: solo 6 incontri tra i professionisti.
(da La Repubblica)
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Settembre 10th, 2023 Riccardo Fucile
DOPO IL NEW YORK TIMES, ANCHE L’EMITTENTE TV USA ACCENDE IL FARO SU STUPRI E FEMMINICIDI IN ITALIA E SULLA LATITANZA DEL GOVERNO SOVRANISTA
Dopo il New York Times, tocca alla Cnn. La scorsa settimana, il
quotidiano della Grande Mela aveva dedicato un lungo reportage ai tanti episodi di violenza sessuale consumatisi in Italia negli ultimi mesi, a partire dai casi di Palermo e Caivano. Senza lesinare critiche al nostro Paese.
Se il New York Times invitava i propri lettori a «riflettere sull’atteggiamento dell’Italia nei confronti delle donne», l’emittente televisiva “globale” ora accende il faro sulla reazione della politica ai misfatti dell’estate e punta il dito contro Giorgia Meloni: perché, si chiede oggi la Cnn, il governo italiano «sta facendo così poco per difendere le donne dagli episodi di violenza»?
L’articolo della giornalista Barbie Latza Nadeau comincia il proprio ragionamento a partire da alcuni dei casi di cronaca più eclatanti degli ultimi mesi: i ripetuti abusi sessuali ai danni delle due cuginette a Caivano, lo stupro di gruppo di una ragazza di 19 anni a Palermo e da ultimo l’assassinio di un’infermiera di 52 anni a Roma. Tutti questi episodi, scrive la Cnn, «hanno coronato un’estate di titoli di giornale sulla violenza sessuale e sui femminicidi». Eppure, sostiene Nadeau, «nessuna di queste questioni è stata finora al centro dell’agenda di Meloni a difesa della famiglia».
Gli episodi di violenza sessuale
Secondo la giornalista della Cnn, la risposta del governo italiano sul fronte delle politiche per la famiglia si è limitata alla «rimozione dei genitori dello stesso sesso dai certificati di nascita, alla repressione dei diritti di successione per le coppie gay e al tentativo di criminalizzare la maternità surrogata con pene detentive». Persino la visita della premier al Parco Verde di Caivano, teatro dei ripetuti abusi sessuali ai danni delle due ragazzine, è stata oscurata dai commenti del suo compagno Andrea Giambruno, finito al centro delle polemiche e accusato di vittimizzazione secondaria. «Meloni – continua l’articolo – si è concentrata sul contrasto alla criminalità organizzata nelle zone in cui si verificano i reati. Tuttavia, ha appena menzionato» i dati diffusi dal Telefono Rosa, che ha documentato nel 2023 un aumento del 25% delle segnalazioni di violenza di genere rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. L’emittente tv americana ha raccolto poi un commento di una delegazione di donne del Pd, che a loro volta puntano il dito contro la premier: «Non sappiamo che farcene di una donna al governo che penalizza le donne», è l’accusa che trova eco oltreoceano.
Le accuse di nepotismo
E a proposito di politiche per la famiglia, la Cnn riprende le polemiche sulla scelta di Meloni di affidare sempre più incarichi a parenti prossimi. La famiglia della premier, scrive Nadeau, «è sempre più prominente nella politica del partito». A testimoniarlo sono la nomina della sorella Arianna a nuova responsabile della segreteria di Fratelli d’Italia oppure le numerose foto delle vacanze pubblicate in compagnia del cognato – e ministro – Francesco Lollobrigida. Insomma, quando si tratta di pensare alle politiche per la famiglia, scrive la Cnn, «Meloni si è concentrata sulla propria».
(da Open)
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Settembre 10th, 2023 Riccardo Fucile
LA MOTIVAZIONE: “PER TOGLIERE I ROTTAMI E SPARGERE SEGATURA SUL SANGUE E SUI LIQUIDI DEL MOTORE RIMASTI SULL’ASFALTO”… PER LA CRONACA, IL COLPEVOLE SE L’E’ CAVATA PATTEGGIANDO UNA CONDANNA A 3 ANNI E MEZZO
Il 7 settembre ha patteggiato una pena di 3 anni e mezzo di reclusione Samuel Seno, 32 anni, poliziotto in servizio alla Questura di Treviso, accusato di aver provocato l’incidente che nel maggio 2022 costò la vita ad un ragazzo di 17 anni di Paese (Treviso), Davide Pavan.
L’uomo, che si trovava alla guida dell’auto – appurarono le indagini – in stato di alterazione dovuto all’alcol, aveva invaso la corsia di marcia opposta, travolgendo il giovane in scooter, che nonostante la prontezza dei soccorsi morì sul posto. Era l’8 maggio del 2022 .
E adesso la madre del ragazzo vittima dell’incidente, Barbara Vedelago, racconta di aver ricevuto la richiesta di pagamento di una fattura per l’importo di 183 euro spesi per “togliere i rottami e spargere della segatura sul sangue di Davide e sui liquidi del motore rimasti sull’asfalto”.
C’è scritto infatti “Bonifica dell’area con smaltimento dei rifiuti e assorbente per sversamento liquidi”: la coppia di genitori ha dovuto pagare. “L’intero sistema non va, e la fattura per la bonifica è solo uno dei tanti episodi” spiega la donna in un’intervista al Corriere della Sera. E puntualizza che l’introduzione del reato di omicidio stradale non basta: “La legge è troppo morbida con chi causa un incidente”. “Ci siamo sentiti abbandonati, come se il nostro dolore non contasse”.
“Ci è arrivata una raccomandata per avvisarci che il rottame dello scooter era stato dissequestrato e che dovevamo andare subito a ritirarlo, altrimenti avremmo dovuto pagare una penale per ogni giorno di ritardo”, spiega poi Barbare Vedelago. La fidanzata di Davide, poi, non ha potuto costituirsi parte civile: “La legge non lo prevede, perché non erano sposati e lei non è una parente. Il loro era un amore giovanile, lo so, ma chi può dire che non sarebbe durato per tutta la vita?”.
(da agenzie)
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Settembre 10th, 2023 Riccardo Fucile
OBIETTIVO È CAMBIARE LA BASE IMPONIBILE DELLA TASSA: NON PIÙ IL MARGINE DI INTERESSE MA TUTTO L’ATTIVO MEDIO PONDERATO DEGLI ISTITUTI DI CREDITO…UN MODO ANCHE PER ALLONTANARE IL RISCHIO DI POSSIBILI RICORSI E NON PENALIZZARE I TITOLI DI STATO … LA BCE ATTENDE LE MODIFICHE PRIMA DI DARE IL SUO PARERE
Dopo la mancata consultazione preventiva con il governo, di prassi
nelle decisioni di questa portata, la Banca d’Italia non sarà ascoltata neanche dal Parlamento sul decreto che impone la tassa sugli extraprofitti delle banche. Arriverà, invece, il parere della Banca Centrale Europea, anche se non sarà immediato. La tassa sul margine di interesse delle banche sarà completamente ridisegnata, anche per evitare i seri rischi di costituzionalità segnalati dal Servizio Bilancio del Senato, e Francoforte vuole attendere le scelte definitive del governo.
A chiudere la partita, che si dovrà concludere esattamente tra un mese, quando scade il decreto, sarà il maxiemendamento del governo, che è già in preparazione, ma che non arriverà prima di un paio di settimane. Ci saranno le modifiche alla tassa sulle banche ed aggiustamenti a molte altre misure contenute nel provvedimento.
Anche alla luce dei rilievi degli uffici del Senato sulla costituzionalità del prelievo fiscale, perché questo colpirebbe le banche a prescindere dalla loro effettiva capacità contributiva, il governo sta valutando di cambiare radicalmente la base imponibile della tassa. Non più il margine di interesse, che rappresenta solo una parte delle attività bancarie, ma tutto l’attivo medio ponderato degli istituti di credito. Così, tutte le banche verrebbero trattate nello stesso modo. Allontanando il rischio di possibili ricorsi da parte degli azionisti delle banche, non necessariamente italiani.
La modifica avrebbe un ulteriore vantaggio, quello di non penalizzare i titoli di Stato. Considerati estremamente sicuri, i titoli pubblici hanno un coefficiente di rischio pari a zero nell’attivo bancario, e di fatto non pesano su quell’aggregato, mentre i loro rendimenti confluiscono nel margine di interesse. Tassare l’intero attivo delle banche, inoltre, metterebbe al riparo anche dall’altro possibile profilo di incostituzionalità della tassa.
(da Il Corriere della Sera)
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Settembre 10th, 2023 Riccardo Fucile
IL GIOVANE SI ERA SEMPLICEMENTE RIPARATO PER SFUGGIRE A DEI COETANEI CHE VOLEVANO AGGREDIRLO… A COSA PORTA IL DELIRIO SOVRANISTA DELLA “LEGITTIMA DIFESA”
Spara contro quello che ritiene un ladro, ma ferisce un ragazzino di 17 anni. È successo questa notte a San Vittore Olona, in via Pisacane. Intorno poco prima delle 3 un 58enne ha sentito alcuni rumori provenire dal giardino della sua abitazione.
Spaventato, pensando si trattasse di un ladro, prima ha sparato due colpi in aria poi altri due. A rimanere ferito però è stato un ragazzino di 17anni il quale, come ha raccontato, si sarebbe solamente nascosto lì per sfuggire da alcuni suoi coetanei con cui poco prima era venuto alle mani in un locale vicino.
L’uomo è stato denunciato alla Procura di Busto Arsizio per lesioni aggravate. La pistola era regolarmente detenuta ed è stata poi consegnata, agli investigatori. La vicenda, su cui i Carabinieri di Cerro Maggiore sono al lavoro per ricostruire la dinamica esatta, è accaduta prima delle 3 in via Pisacane. I militari sono intervenuti su richiesta del padrone di casa, un italiano incensurato il quale, pochi minuti prima, allertato da alcuni rumori provenienti dell’esterno della propria abitazione, in cui vive da solo, aveva sorpreso all’interno del giardino un giovane.
Quindi sparato due colpi in aria, dopo avergli intimato di fermarsi, avrebbe esploso altri due colpi, procurando al ragazzo una ferita sotto l’ascella destra ed una frattura alla mano destra. Il giovane di 17 anni residente a Legnano è stato soccorso dal personale sanitario del 118, e trasportato in codice giallo all’ospedale Niguarda di Milano, dove è ricoverato non in pericolo di vita. I quattro bossoli esplosi sono stati trovati in giardino e sequestrati.
(da agenzie)
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Settembre 10th, 2023 Riccardo Fucile
“LE SCELTE DEL GOVERNO NON RISOLVONO I PROBLEMI DEI TRIBUNALI”
A richiesta di parere sull’operato del ministro di Giustizia, Franco
Coppi risponde: “Conosco bene le norme sulla diffamazione…”. Applausi e risate in platea. Stessa domanda a Piercamillo Davigo: “Mi associo”. Altri applausi.
Carlo Nordio riesce a far toccare gli opposti. L’avvocato dei potenti, degli imputati eccellenti (Berlusconi e Andreotti, solo per citarne un paio), e il pm di Mani Pulite, il magistrato anticorruzione per antonomasia, uniti nel giudizio tranchant su Nordio, sollecitati dalle domande di Gianni Barbacetto e Valeria Pacelli.
L’occasione è la festa del Fatto e il dibattito sullo stato della giustizia. Uno stato comatoso, anche su questo l’accordo è unanime. E la riforma cotta nelle cucine di Via Arenula e approvata in Consiglio dei ministri pare un rimedio inutile, quasi dannoso. A cominciare dall’abolizione dell’abuso d’ufficio. “
L’hanno messa in cima alla riforma ma è una cosa che non serve a nulla – sostiene Coppi – rientrerà nella prassi come corruzione”.
Davigo ricorda che è stata chiesta dai sindaci, la famosa “sindrome della firma” che paralizzerebbe le amministrazioni pubbliche. “Non facessero i sindaci se hanno paura di firmare: l’abuso d’ufficio per come è in vigore oggi è sostanzialmente simile all’articolo 19 di una convenzione Onu e se lo abroghiamo saremmo uno dei pochi Stati a uscirne, e gli Stati che escono da quelle convenzioni si chiamano Stati canaglia. Alle ultime Amministrative si sono candidati in 80mila, di quale sindrome della firma parlano?”.
Barbacetto insiste più volte su un tema: c’è continuità o no con l’era berlusconiana in cui era normale contrapporre giustizia e politica? “Questa fase dovrebbe essere finita, dovremmo avere un governo più neutro, ma mi chiedo: c’è rottura tra lo ieri di B. e l’oggi di Meloni?”.
Si prova a trovare una risposta affrontando questioni concrete di (mal)funzionamento della giustizia e di come questo governo intenda affrontarle.
Il decreto Caivano, ad esempio, ricorda Pacelli “appare come un decreto securitario”, poi però la cronaca e le indagini sull’ex senatore Verdini libero di incontrare politici nonostante stesse scontando una condanna definitiva, ci ricorda che per i colletti bianchi esiste un doppio binario: “La giustizia non è uguale per tutti, vero”? Davigo annuisce: “È così in tutti i Paesi: i più ricchi hanno gli avvocati migliori, o possono scappare all’estero, i poveri non possono e spesso non sono molto intelligenti e si fanno arrestare in flagranza”. C’è una carenza di deterrenza: “Abbiamo un codice che ha massimi spaventosi e minimi risibili: in caso di furto di tre automobili, con due aggravanti, la pena massima può essere 30 anni, la minima 4 mesi e 2 giorni. Sbaglia il legislatore che investe il giudice di una discrezionalità così ampia”.
Lavoriamo per una giustizia più veloce, il mantra di ogni governo. Prevedere un collegio di tre giudici per arrestare un indagato va in quella direzione? La risposta di Coppi è negativa: “È un’altra cosa fatta all’italiana. Salvo che non si voglia procedere con effetto sorpresa, non si ricorre al collegio per i reati più gravi, quando la logica richiederebbe il contrario”. E poi dove stanno tutti questi magistrati? “Non so come si farà nei piccoli tribunali a trovarli, per evitare successive incompatibilità nei gradi successivi. È una riforma che allungherà i tempi della giustizia e complicherà la vita dei piccoli tribunali. Ma l’importante è buttare una proposta e poi si vedrà”. I problemi però iniziano da lontano, secondo Davigo, dal codice approvato nel 1989: “Lo commentai come Fantozzi con La Corazzata Potemkin: “Una boiata pazzesca: l’attività di indagine non entra nei processi, la cui durata si triplica, si costringono i poliziotti a rileggere in aula atti già a disposizione nel fascicolo del pm. Questa è una garanzia o una idiozia?”.
(da Il Fatto Quotidiano)
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Settembre 10th, 2023 Riccardo Fucile
“THE NEW YORK TIMES” HA RACCOLTO LE TESTIMONIANZE DISPERATE DI GENITORI ALLE PRESE CON IL CROLLO EMOTIVO DELLE LORO FIGLIE: “I CAMPUS SONO INONDATI DI PROZAC E LEXAPRO. MOLTE RAGAZZE PASSANO DALL’ANSIA, SENZA PILLOLE, ALL’INTORPIDIMENTO”
È stata “l’estate del girl power”, con case da sogno rosa, canzoni e paillettes, Barbie, Taylor Swift e Beyoncé hanno sostenuto l’economia e fatto impennare la fiducia delle donne.
Quindi mi sono sentito triste, parlando con gli amici che lasciavano le figlie al college, sentendo parlare di ansia dilagante, campus inondati di Prozac e Lexapro – e lunghe attese per la terapia.
È un argomento importante tra le mamme: le figlie alle prese con l’ansia o gli effetti dei farmaci anti-ansia, che possono includere aumento di peso e perdita di libido. Molte giovani universitarie fanno ping pong tra l’ansia, senza pillole, e l’intorpidimento e l’insicurezza corporea, se le assumono.
Queste giovani donne sembrano avere tutto, eppure non sono in grado di godersi appieno un periodo della loro vita che dovrebbe essere pieno di avventure e promesse.
«Il ritorno a scuola è sempre stato un momento di eccitazione per la direzione in cui era diretto il futuro: nuovi quaderni, nuove provviste – rifletteva un’amica, madre di una figlia adolescente – Ma sembra che le persone stiano sprofondando nella tristezza. Tutti cercano uno strizzacervelli invece di una matita appuntita».
La canzone di Billie Eilish nel film “Barbie”, “What Was I Made For?”, è diventata l’inno delle giovani donne ansiose e depresse, in parte perché Eilish ha parlato apertamente delle sue difficoltà tra i 12 e i 16 anni, dei suoi pensieri suicidi, autolesionismo e dismorfismo corporeo.
In superficie, i testi parlano di una bambola che si trasforma in un essere umano, ma Eilish, 21 anni, dice che riflettono anche il suo viaggio.
La disperazione adolescenziale è stata ampiamente analizzata negli ultimi anni: i danni derivanti dai social media, gli algoritmi di microtargeting che pompano l’invidia, i conflitti e le politiche divisive, le sparatorie senza fine nelle scuole, il lockdown con il Covid, un pianeta divorato da fiamme e inondazioni, una conquista del “mai abbastanza” e del consumismo, adulti ansiosi che creano un’atmosfera nervosa, una società connessa digitalmente ma emotivamente disgiunta e spiritualmente disancorata.
«I giovani acquisiscono molte informazioni allarmanti e, grazie ai dispositivi digitali, loro, come molti di noi, raccolgono informazioni tutto il giorno, tutti i giorni» dice Lisa Damour, autrice di “The Emotional Lives of Teenagers”.
Una situazione che va oltre i giovani. Il “Wall Street Journal” ha pubblicato un articolo in prima pagina sul “Business in forte espansione dell’ansia americana” che iniziava così: «Una ricerca per ‘sollievo dall’ansia’ su Google fa apparire collegamenti ad integratori sotto forma di pillole, cerotti, caramelle gommose e spray per la bocca. Ci sono dispositivi vibranti che ti appendono al collo e “tonificano il tuo nervo vago”, animali di peluche, palline antistress e libri da colorare che pretendono di portare calma».
La copertina di Newsweek racconta “una generazione colpita dall’ansia climatica”, “Non perdere la speranza”. L’app Calm ha aggiunto meditazioni e conferenze sull’ansia, tra cui “Felt Piano for Anxiety”, in cui il pianista aggiunge del feltro tra i martelli e le corde per un suono più rilassante.
Anche la commedia romantica ne risente. In un’anteprima di “What Happens Later” con Meg Ryan e David Duchovny, il personaggio di Duchovny condivide: “Mi è stata diagnosticata un’ansia anticipatoria”.
Laurence Steinberg, autrice di “You and Your Adult Child”, ha affermato che l’ansia aumenta notevolmente tra le donne nella prima metà dei vent’anni, quando il cervello è ancora plastico. Ha detto che le giovani donne e gli uomini sono sconvolti dal costo degli alloggi, dal cambiamento climatico, dal razzismo e dai pregiudizi, e che le giovani donne sono anche colpite dalle minacce alla loro salute riproduttiva. (Lo storico Adam Tooze dice che il mondo è in “una policrisi”.)
«Molti dei miei amici con figli adulti hanno dovuto entrare in terapia perché erano molto stressati a causa dei problemi dei loro figli – ha osservato Steinberg – Non penso che dovremmo limitarci a distribuire pillole pensando che questo risolverà il problema».
Forse le donne vengono colpite più duramente perché sono più legate alle emozioni e più concentrate sulla conversazione, sulle relazioni, sull’intimità, sull’educazione e sulla comunità femminile, come vediamo dai tempi dei romanzi di Jane Austen fino a “Real Housewives”.
La figlia 19enne di un’amica, che ha preso Prozac per un certo periodo, ha spiegato: «Il Covid è arrivato proprio mentre stavamo entrando nel mondo e iniziavamo a vederci per la prima volta come esseri sessuali. Tutto quello che siamo riusciti a fare è stato farci ossessionare da TikTok, che è pieno di disinformazione. Fuori il mondo era apocalittico, mentre a casa anche il nostro mondo era un po’ apocalittico perché stavamo perdendo il senso di noi stessi». Ma poi ha mandato un messaggio a sua madre venerdì: «Staremo bene. Le donne tendono a farcela».
(da New York Times)
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Settembre 10th, 2023 Riccardo Fucile
NEL PARCO VERDE TRA CASE POPOLARI, VIOLENZA E AMIANTO, LE FAMIGLIE SONO STRETTE NELLA MORSA DI CAMORRA E POVERTA’
«Mamma mi fa male il culetto, mi disse. Aveva una macchiolina di
sangue sulla mutandina. Il cattivo mi ha detto chiudi gli occhi e girati e poi mi ha dato un pizzico sul sedere. Capii subito. Chiamai la pediatra: signora lo porti in ospedale. Da lì è iniziato il nostro calvario».
Parco Verde, Caivano, 9 settembre 2023. Sono passati diciassette anni da questo episodio che C., mamma di due figli, mi racconta. Era il 2006, il piccolo aveva solo quattro anni. «Andava all’asilo, quel giorno mancavano le sue maestre, così unirono due classi. Stavano vedendo un cartone animato, mio figlio era irrequieto, non voleva stare seduto. La maestra chiamò il bidello e gli chiese di portarlo a fare un giro. L’orco in giardino gli abbassò i pantaloni e lo molestò». Le visite in ospedale per fortuna accertarono che non c’era stata penetrazione, ma il bimbo raccontava di questo pizzico, che solo un pizzico in realtà non era. Non c’era altro modo però per un bambino di quattro anni di definirlo.
«Per capire se suo figlio ha subito una stimolazione con il dito è necessaria una rettoscopia – mi dissero i medici. – Io mi rifiutai, non volevo causargli un altro trauma. Lui piangeva, io pure». C. sporge comunque denuncia ai carabinieri di Caivano. Il bimbo ha quattro anni. Da quel momento viene interrogato più volte, ripete a tutti sempre la stessa versione: agli inquirenti, agli assistenti sociali, nell’incidente probatorio. «Un giorno esausta arrivai persino a chiedere alle psicologhe e al pubblico ministero che indagava: ma dobbiamo credergli? Non è che ha travisato? Mi risposero: signora sta scherzando? Suo figlio è attendibilissimo noi dobbiamo andare avanti».
Iniziano così quattro anni di cause in Tribunale. Un’intera famiglia devastata, una creatura costretta da subito ad entrare in terapia neuropsichiatrica. Conclusione? «Il fatto non sussiste, ha detto il giudice, perché è la parola di un bambino. E allora le perizie? Le indagini? L’incidente probatorio? Che le abbiamo fatte a fare? Avrei dovuto fare appello ma ho rinunciato».
Quell’orco in tutti quegli anni non si è mai spostato da Parco Verde. Subito dopo la denuncia della donna il dirigente scolastico dell’epoca semplicemente lo trasferì dalla materna alle elementari. Libero e indisturbato. Come se dai sei anni in su non fosse più un pericolo. «Viveva nello stesso palazzo delle ragazzine stuprate recentemente – mi sussurra nell’orecchio la donna – E mio figlio non fu l’unico. In quartiere si diceva che anni prima aveva anche stuprato un sedicenne». Ma lei perché è rimasta qui? «Volevo andarmene, avrei dovuto farlo lo so. Sono separata, faccio l’operaia, se lavoro tutti i giorni prendo 800 euro al mese. Non è facile». In quel momento entra in stanza anche il figlio. Quel bimbo molestato che ricorda ancora tutto oggi è diventato uno splendido ventenne. «Non mi sono diplomato – confessa – mancano gli ultimi due anni. E io che volevo fare Giurisprudenza. Ero innamorato della scuola ma sono entrato in conflitto con una docente e non ho retto».
Esco, faccio un giro, prendo aria. A Parco Verde, ora che le telecamere e la premier Giorgia Meloni sono andate via, è tornato il clima di sempre. Quando entro nella sede dell’associazione “Un’infanzia da vivere” fondata da Bruno Mazza, lui è nel suo ufficio con tre carabinieri. Sono venuti a prendere le immagini della telecamera esterna alla sede. Il 7 settembre alle 22,52 tre motorini sono passati lì davanti e hanno iniziato a sparare all’impazzata, si vede che sfrecciano a tutta velocità nelle immagini. Chissà, magari possono essere così identificati. È la solita battaglia per la conquista del territorio, ora che i capi dei clan storici sono in carcere, altri cercando di conquistare la piazza di spaccio. Per qualche giorno la guerra si era interrotta, adesso è tornato tutto come prima. Bruno Mazza è nato e cresciuto a Parco Verde. È stato in carcere, ha perso un fratello per overdose. Poi la conversione. Ora la sua missione è dare una possibilità alle ragazze e ai ragazzi di questo quartiere che come lui crescono spesso senza affetto, costretti a diventare adulti subito, anche a nove e dieci anni. La Fondazione “Con il Sud” in collaborazione con l’associazione di Bruno e con diverse altre realtà del territorio ci prova da anni a riqualificare il quartiere e creare occasioni di aggregazione attraverso lo sport. Due campetti da calcio, l’orto solidale. Ma non basta. «Non vogliamo soldi, fateci altri campi, dateci i palloni, aprite le scuole tutto il giorno. Togliete l’immondizia. Li vedi quelli? Sono sacchi pieni di amianto, perché non li hanno portati via quando hanno pulito le tre strade in cui ha sfilato Giorgia Meloni?».
L’amianto a Parco Verde c’è ovunque, anche nelle case popolari. Da qui i casi di leucemie anche tra gli adolescenti. Enzo, il professore, volontario con Mazza, ha perso così un figlio di 15 anni. Le mamme spesso vengono a confidarsi con Bruno, Cristina e gli altri operatori. «Ma se a quel bidello che in quartiere si sa che ha molestato più di un bambino non è stato fatto niente, perché la camorra è peggio dello Stato? Lascia stare i processi. Perché gli hanno permesso di continuare a stare a contatto con i minori? Nel palazzo in cui abitavano le bambine stuprate da tempo ci sono casi di violenze e abusi, noti agli assistenti sociali. Conoscono anche i nomi di tutti coloro che non finiscono la scuola dell’obbligo. Pensi che il carcere spaventi qualcuno? La camorra fa schifo, ma non è l’unico orco da queste parti. Qua funziona solo l’emergenza, i soldi arrivano così». La violenza genera violenza. Non incontro nessuno che sembra fiducioso di un cambio di passo alla luce delle ultime promesse. Forse perché in tanti credono che il fango seppellirà anche queste. Lavoratori edili, donne delle pulizie, contadini. «La polizia che ha fatto la retata spot l’altra sera è andata dove la droga non si spaccia più, che sceneggiata è?». Parco Verde però non è diverso da tanti altri posti di periferia abbandonati d’Italia. Prendo in prestito le analisi di Alessandro Leogrande. Era il 1997 e in un suo importante lavoro sulle periferie intervistò il sociologo Stefano Laffi, che spiegò come e perché un terzo della popolazione italiana era stata esclusa da qualsiasi standard di benessere. Quelli sotto la soglia di povertà, sfrattati o senza casa, o in alloggi popolari fatiscenti, con un lavoro precario, ma molto precario, di quelli che non sai se il giorno dopo lavorerai si o no. Al centro delle città i ricchi e i servizi di maggior pregio, vedi le banche, le biblioteche, i teatri, i cinema. Nelle periferie solo condomini ad alta intensità abitativa, no aree verdi, giardini, viali alberati, nemmeno pensati negli originali progetti urbani. In più in zone come Parco Verde, oltre ai poveri, ci sono finiti i reietti, la criminalità, lo spaccio. Lo Stato è rimasto alla porta, ha lasciato fare.
È proprio così il Parco Verde. Palazzoni fatiscenti, la maggior parte senza balconi, panni stesi, non c’è una panchina, un’altalena, uno scivolo, muri imbrattati. È tutto brutto. Gli occhi dei bambini si riempiono da subito di degrado. Il cimitero, il teatro abbandonato “Caivano arte”, il Centro sportivo Delphinia dismesso da tempo e ora con i sigilli all’ingresso perché teatro degli ultimi stupri ma anche cimitero di corpi morti per overdose. Persino il parco dietro la chiesa di Don Patriciello è orrendo. Erba alta, panchine arrugginite e poi, dietro l’immondizia e le siepi, i resti di giochi per bambini inutilizzabili da chissà quanti decenni. Arrivo alle dieci del mattino, per strada non gira nessuno, qualche donna è affacciata alla finestra. Fermo chi incrocio, citofono, mi infilo nei portoni: giuro che non voglio fare domande sullo stupro e nemmeno sulla camorra. «Niente nomi». Ok. S. oggi ha 17 anni, non frequenta più le scuole di Parco Verde. «In prima superiore mi avevano preso di mira. Mi insultavano, picchiavano, un giorno mi hanno trascinato dietro la chiesa e mi hanno umiliato abbassandomi i pantaloni». Non è più voluto andare a scuola. «Mia madre alla fine mi ha convinto a iscrivermi a un altro istituto fuori Caivano. E adesso sto meglio». G. ha 24 anni, occhi chiari, voce tremante: «Ho preso la terza media e mi sono ritirata». Perché? «Non è stata un’esperienza bella. Mi sfottevano per il mio aspetto, per come vestivo. Io mi difendevo, ma qui è così: prendono di punta sempre i deboli e io lo sono». E gli insegnanti? «Mamma è andata più volte a parlarci. Loro li ammonivano in classe ma poi nessuno si mette contro queste bande». La scuola dell’obbligo è fino ai 16 anni, non è mai venuto nessuno a chiamarti? A bussare ai tuoi genitori? «No». E in tutti questi anni cosa hai fatto? «Niente, sono rimasta chiusa a casa. Mamma fa le pulizie, prende tra i 3 e i 5 euro a scala. Papà fa il contadino. Lavorano entrambi in nero. Non mi hanno mai fatto uscire da sola. Hanno paura di tutto. Anche io ho paura, ora soffro di ansia però, mi fa male spesso il petto». Niente amici o amiche, compleanni, chiusa in casa a pulire e cucinare. Sei mai stata da uno psicologo? Hai mai visto un assistente sociale? «No». E oggi che sogni? «Diventare mamma».
C. ha 12 anni, è mezzogiorno quando lo incrocio per strada ed è ancora in pigiama. «Mi sono appena svegliato – dice – ieri ho finito tardi di lavorare». In che senso? «Faccio il pizzaiolo. Sto già dietro al forno, sai?». Me ne parla con orgoglio. Sei minorenne, non potresti lavorare. «Vado solo quando non c’è scuola. Prendo cento euro a settimana. A luglio e agosto ho messo da parte 800 euro». E che ci farai? «Un regalo a mia sorella e poi mi compro ciò che mi serve per la scuola. Aiuto i miei genitori». Da grande? «Farò il pizzaiolo, sicuro. Però gioco anche bene a pallone, magari mi chiama il Napoli. Ma qui a Parco Verde non esco più, non mi piace. Io me la facevo laggiù con alcuni amici». Laggiù? «Dove hanno stuprato le ragazzine. Quando ho sentito questi fatti però ho detto a mia mamma: non ci vado più. La sera preferisco andare a faticare. Allo spaccio siamo abituati, lo sappiamo che c’è ma che possano accadere queste cose schifose no. Può succedere anche a me, anche a te. Purtroppo abitiamo qua solo perché non possiamo andare da nessun’altra parte. Da grande vorrei farlo abbattere questo posto di merda». L. ha un fratello più piccolo, è rabbioso, è di lui che vuole parlarmi. «Ha un ritardo cognitivo, fino alla scuola media ha avuto un’insegnante di sostegno. Quando però è arrivato il momento di iscriversi alle scuole superiori i miei genitori hanno trovato un muro. Ci dicevano che le scuole di Parco Verde non erano idonee per lui e così mamma se l’è tenuto a casa e da 5 anni non esce più, non fa terapie né uno sport. Non è giusto». Tu che fai? «Lavoro in fabbrica, ma ho fatto di tutto, sono stato anche al mercato per 15 euro al giorno. Noi la camorra non la siamo mai andati a cercare, ma quando avevamo bisogno di aiuto lo Stato ci ha negato una mano». A Parco Verde non esistono eroi. E non ci sono né santi, né Madonne.
(da La Stampa)
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Settembre 10th, 2023 Riccardo Fucile
CONTROLLANO IL NARCOTRAFFICO, COMANDANO IN CARCERE E UCCIDONO IMPUNEMENTE: LE PANDILLAS SEGUONO L’ESEMPIO DI RAFFAELE CUTOLO
Fino allo scorso 9 agosto, giorno dell’uccisione del candidato presidenziale Fernando Villavicencio, la violenza delle «pandillas» che da anni sta insanguinando l’Ecuador era un tema in gran parte sconosciuto ai mass media europei. Il brutale assassinio dell’ex giornalista d’inchiesta, rivendicato dall’organizzazione criminale «Los Lobos» che annovera ottomila affiliati, non ha fermato l’iter verso le elezioni: una tornata elettorale che si concluderà il prossimo 15 ottobre, quando al ballottaggio si sfideranno la leader del movimento Revolución Ciudadana, Luisa Gonzalez, e l’esponente dell’alleanza Adn, Daniel Noboa.
Tralasciando per un momento la questione di chi guiderà il Paese sudamericano e alla luce delle stagioni di efferatezza che sta vivendo, alcuni esperti si domandano se Quito sarà in grado di arginare l’instabilità politica e la scia di sangue, generate principalmente dalla criminalità organizzata locale, che ha reso l’Ecuador uno tra gli snodi cruciali dello scacchiere mondiale del narcotraffico.
Normalizzazione
Un ruolo fondamentale per l’obiettivo di «normalizzare» questo Stato è assegnato al progetto Euresp: il Programma di risposta d’emergenza dell’Unione europea per rafforzare il sistema carcerario dell’Ecuador, avviato il primo settembre 2022 con un lasso temporale di 18 mesi. In questa iniziativa, affidata all’Iila (Organizzazione internazionale italo-latino americana), l’Italia con il suo pool di esperti e magistrati antimafia rappresenta un punto di riferimento.
«L’Europa ci ha messo a disposizione 2,5 milioni di euro: fondi che hanno come scopo finale la messa in sicurezza delle carceri più pericolose dell’Ecuador e – spiega a TPI il direttore dei programmi di cooperazione dell’Iila, Lorenzo Tordelli – il secondo obiettivo è la formazione del personale penitenziario». La progettazione del programma è curata dal consigliere giuridico del ministero degli Affari Esteri, Giovanni Tartaglia Polcini, il suo attuatore sul campo è il magistrato Paolo Di Sciuva. Ma qual è la realtà all’interno delle carceri ecuadoriane? «I criminali delle pandillas sono ben consapevoli del fatto che se non comandi dentro le prigioni non puoi farlo anche fuori. Si ammazzano nelle case circondariali – spiega a TPI Di Sciuva – per affermare la loro supremazia pure all’esterno, proprio ispirandosi al “modello” del boss campano Raffaele Cutolo».
Come detto la violenza nelle galere dell’Ecuador ha radici lontane. È il 28 dicembre 2020 quando a Manta Jorge Luis Zambrano Gonzalez, alias Rasquiña e boss dei «Choneros», viene ammazzato da uno sconosciuto. Da allora la mattanza ha colpito tutte le aree del Paese, ribadendo ancora una volta che la ferocia non è circoscritta al carcere. Tra le prove evidenti di questa escalation ci sono le quindici autobombe esplose lungo le strade di Guayaquil nel novembre 2022 e la strage di Esmeraldas dello scorso 12 aprile.
Il porto di questa località, proprio insieme a quello di Guayaquil, rappresenta l’asset forse più prezioso dei narcotrafficanti ecuadoriani. Le immagini impietose dell’eccidio, in cui un commando di 30 persone ha massacrato nove innocenti (pescatori e commercianti) che rifiutavano di pagare il pizzo, spiegano bene il grado di violenza che attualmente si respira nel Paese sudamericano. Durante i primi frame di un filmato di una telecamera di sicurezza si vede una decina di persone che scappano via terra, altri «condannati a morte» si tuffano in acqua.
Nel frattempo i motoscafi blu da dove proviene il rumore degli spari si avvicinano a tutta velocità, fino a quando non raggiungono il piccolo molo ripreso nell’inquadratura. I sicari, alcuni a volto coperto, sparano con armi di alto e medio calibro. C’è persino chi fa fuoco con l’Uzi (storica mitragliatrice in dotazione all’esercito israeliano). Poi in un’altra immagine, che viene in parte oscurata, due uomini provano inutilmente a nascondersi dentro un magazzino: un criminale li scova e preme il grilletto, colpendo a bruciapelo. Prima l’uno e poi l’altro cadono a terra.
Dopo gli episodi più cruenti i clan hanno diffuso e diffondono sui social network video in cui rivendicano, minacciano o si smarcano dai fatti di sangue. «Comunicati stampa», comuni alla maggior parte delle organizzazioni sudamericane, con messaggi diretti e indiretti. Come per esempio quello dello scorso 26 luglio, dove cinque membri e il capo dei «Choneros» depongono le armi su un tavolo in segno di tregua.
La guerra allo Stato
I dati sulle morti violente in carcere possono essere considerati una cartina di tornasole per comprendere ciò che accade fuori dalle galere. Nel 2019 si registravano 19 decessi nelle prigioni del Paese; nel 2020, 50 vittime; nel 2021, 330 omicidi (di cui 118 nel mese di settembre nella casa circondariale «El Litoral» che ne ospita 9.500) e nel 2022, 144. Al 30 giugno del 2023, il dato registrato è di 16 morti, senza dimenticare che la popolazione carceraria complessiva ammonta a circa 30mila persone. E nell’intero Ecuador vivono 18 milioni di abitanti.
Nonostante questi numeri il contributo italiano ha garantito allo Snai (ente autonomo che gestisce il sistema penitenziario, una specie di Dap) di formare 1.400 nuovi tirocinanti, 200 membri delle Unità speciali e reperire 36 formatori. Ma c’è di più, perché nei prossimi mesi, se dovessero essere varati i decreti attuativi, proprio lo Snai potrebbe diventare definitivamente un ministero, dopo che nella precedente legislatura è stata emanata una legge ad hoc. L’istituzione è una spina nel fianco dei criminali, al punto che nello scorso mese di luglio era circolata sempre via social la notizia, poi rivelatasi una bufala, che nei pressi della sede fossero stati piazzati dei cecchini pronti a colpire i suoi membri.
C’è un’altra circostanza che almeno fino alla morte di Villavicencio ha creato non pochi grattacapi al sistema penitenziario ecuadoriano, ossia l’impossibilità di separare dai criminali comuni e trasferire in sezioni speciali gli appartenenti alle «pandillas». Come accade in Italia grazie al 41-bis. Pochi giorni dopo l’omicidio, invece, circa quattromila tra militari e poliziotti hanno spostato nel supercarcere «La Roca» uno dei presunti mandanti dell’attentato: il boss narcotrafficante José Adolfo Macías Villamar, meglio noto come «Fito».
Nell’operazione sono stati impiegati non solo uomini pesantemente armati ma anche veicoli blindati che sono entrati nel centro di detenzione numero otto di Guayaquil. Da dove è stato prelevato un uomo robusto e con la barba folta. Adesso vive per 23 ore al giorno (esclusi i 60 minuti nel cortile in compagnia di una guardia) in una delle 36 celle individuali. Proprio qualche giorno prima di essere ammazzato Villavicencio ha denunciato le minacce di morte ricevute da «Fito», boss dei «Choneros». Inevitabile e dura la reazione della vedova del cronista d’inchiesta Veronica Sarauz che durante una conferenza stampa, munita di elmo e giubbotto antiproiettile, ha detto: «Lo ha ucciso lo Stato». Eppure a oggi l’unico punto fermo sul piano investigativo è che le sei persone arrestate per l’assassinio di Villavicencio sono tutte colombiane.
Quest’ultima circostanza non può passare inosservata perché nel corso dei decenni le sanguinarie gang ecuadoriane sono cresciute all’ombra e sul calco dei cartelli colombiani e messicani, che utilizzano il loro relativamente piccolo Paese come area di passaggio fondamentale nel traffico internazionale di droga. Adesso, però, sono un alleato insostituibile, in particolare per il tristemente noto cartello di Sinaloa.
Modello tricolore
Sulla drammatica situazione dell’Ecuador è intervenuto l’ex consigliere laico del Csm, Stefano Cavanna: «I governi dell’America Latina sono molto attenti al modello italiano che il nostro Paese nel comparto della giustizia ha elaborato negli anni per contrastare la criminalità organizzata di stampo mafioso. Quel che fa più specie è che l’interesse dei governi sudamericani è significativamente rivolto proprio a quegli istituti che oggi sono oggetto di discussione non solo mediatica, ma anche di ridimensionamento “giuridico” in campo nazionale ed europeo con la recente giurisprudenza limitativa».
Sul fatto che la legislazione italiana stia facendo scuola all’estero sembrano esserci pochi dubbi, dato che «nello scorso maggio è entrata in vigore nell’ordinamento ecuadoriano una norma mutuata dal nostro 416 bis che introduce la nozione di associazione per delinquere di stampo mafioso», conclude Cavanna.
Ramificazioni internazionali
Il percorso è tracciato ma la strada verso la stabilizzazione è ancora lunga. A sostegno di tale tesi c’è il rapporto “Persone private della libertà in Ecuador”, redatto dalla Commissione interamericana dei diritti umani.
Lo studio mette in luce il fatto che lo Stato non avrebbe il controllo effettivo sulle carceri: interi padiglioni che per anni sono stati off-limits per le forze dell’ordine, ingresso di armi e droghe dietro le sbarre (nell’intervento del 4 agosto al «Litoral» sono stati sequestrati 26 chilogrammi di sostanza stupefacente), utilizzo di droni di alta qualità in mano alle gang nella fase più dura delle rivolte (l’ultima avvenuta lo scorso 30 agosto nell’istituto penitenziario di «El Turi»), corruzione e allevamenti illegali di animali sono alcuni tra i fattori che raccontano il microcosmo carcerario ecuadoriano. Concretamente quindi le istituzioni, al fine di riprendere in mano la situazione, stanno spingendo verso un programma di massima sicurezza a elevato indice di vigilanza.
Eppure le «pandillas» non generano allarme e preoccupazione solo a Quito. Le ramificazioni delle gang hanno solide radici pure in Europa. Nella fattispecie la Spagna lo scorso 25 agosto ha realizzato con l’operazione «Nano» il più grande sequestro di cocaina della sua storia: 9,5 tonnellate (per la precisione 9.436 chilogrammi) di polvere bianca, suddivisa in tavolette e nascoste in un container frigo con un carico di banane è stata trovata nel porto di Algesiras (Cadice). La droga partita dal Paese sudamericano sarebbe prima dovuta arrivare in Portogallo e poi essere affidata a una trentina di distributori europei. Basta sfogliare le cronache delle maggiori operazioni contro il narcotraffico per identificare almeno altri due terminali di approdo della sostanza stupefacente in Europa: Paesi Bassi e Belgio.
Un Paese al bivio
Nelle ultime settimane la comunità internazionale ha seguito con notevole attenzione almeno altri due eventi ecuadoriani: la prima fase della tornata elettorale del 20 agosto e il contemporaneo referendum sullo sfruttamento petrolifero in Amazzonia. Il 33,1% degli elettori ha votato per Luisa Gonzalez, la candidata del partito di sinistra Revolución Ciudadana, vicina all’ex presidente progressista Rafael Correa, oggi in esilio in Belgio (condannato in via definitiva per corruzione); il rappresentante del movimento Azione democratica Daniel Noboa Azin, figlio del magnate locale dell’industria delle banane, ha ottenuto il 24% delle preferenze. Uno tra i due prenderà il posto dell’uscente Guillermo Lasso che ha sciolto le camere lo scorso maggio.
Particolarmente rilevante in chiave economica e ambientale l’esito del referendum sulle trivellazioni petrolifere nel parco nazionale Yasuni, in Amazzonia, e per l’estrazione di minerali e oro nel Choco Andino, non lontano da Quito. Con il loro voto, per la precisione il 58,98% degli elettori, gli ecuadoriani hanno fermato lo sfruttamento. Prima dello stop i pozzi del Blocco 43 producevano fino a 58.016 barili di oro nero al giorno. La scelta popolare determina almeno due conseguenze importanti: da una parte la perdita per le casse dello Stato di 16.470 milioni di dollari nei prossimi vent’anni e l’eliminazione di oltre 60mila posti di lavoro; dall’altra la protezione senza precedenti delle foreste, in parte abitate dagli indigeni, dichiarate riserva della biosfera dall’Unesco nel 1989.
(da TPI)
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